N.02
Marzo/Aprile 2017

Dierick Bouts

Mosè e il roveto ardente

Dal roveto una chiamata alla missione

Testo biblico (Es 3,1-15)
Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo. Ecco, il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto come gli Egiziani li opprimono. Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!». Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall’Egitto?». Rispose: «Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte».
Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

L’artista
Il pittore olandese Dierick Bouts nasce nel 1415, probabilmente ad Haarlem; abbiamo poche notizie sui suoi primi anni di attività artistica, però sappiamo che vive e lavora stabilmente nella città di Lovanio, vicino a Bruxelles, di cui diventerà pittore ufficiale nel 1468. Nel 1448 sposa Katharina Van Der Brugghen, figlia di un ricco commerciante, da cui ha quattro figli, due dei quali, Dierick II e Albert, seguono il padre nell’attività pittorica.
La nomina a pittore ufficiale di Lovanio contribuisce a incrementare la sua fama e la sua attività. La produzione di Bouts comprende polittici, tra cui il Trittico della Vergine, quadri di grandi dimensioni commissionati dall’ente pubblico, quali Il Giudizio dell’imperatore Ottone, e dipinti devozionali, come la Madonna col bambino. Nel 1476 termina il suo capolavoro, L’ultima cena.
Nel 1472 la moglie muore. Dopo due anni Bouts si risposa con Elisabeth Van Voshem. Muore il 6 maggio del 1475 e viene sepolto nella chiesa dei francescani a Lovanio.
Dierick Bouts è fra i grandi pittori fiamminghi di fine quattrocento, il suo stile è influenzato da maestri come Van Eyck e Van Der Weyden. Del primo apprende l’uso della luce, i suoi effetti, la luminosità e la trasparenza, il dettaglio dei particolari, soprattutto degli abiti, la ricchezza e la brillantezza dei colori. Di Van Der Weyden accoglie la “poetica”, la capacità di produrre emozione, commozione, e nei ritratti raggiunge la perfezione del maestro; è nella caratterizzazione dei volti, nell’espressione dei personaggi, che si coglie la sua umanità. Con Van Der Weyden straordinaria è la concordanza dei temi delle opere: scene della crocifissione, della deposizione, del compianto che esprimono, oltre alla pietà religiosa, anche una personale partecipazione agli eventi rappresentati.
Il suo stile si realizza anche attraverso la ricerca tecnica: è il primo pittore del nord Europa a usare un unico punto di fuga (ne L’ultima cena) e a porre una particolare attenzione alla disposizione dello spazio, allo studio del paesaggio che dal primo piano si svolge, si snoda sullo sfondo, fin verso l’orizzonte.

L’opera
In questa opera Dierick Bouts riporta plasticamente ciò che è narrato dal libro dell’Esodo (Es 3,1-15). È una teofania: Dio dal roveto ardente si manifesta a Mosè e gli svela la sua vocazione e la sua missione. L’incontro coglie Mosè in un momento difficile della sua vita: costretto a fuggire dall’Egitto, in esilio, si avventura nel deserto. Qui sposa la figlia di Ietro e diventa pastore. Bouts ambienta la scena in un paesaggio tipicamente olandese, ma rappresenta un luogo arido, il deserto; a sinistra c’è il monte Oreb. Quello di rileggere un evento del passato attualizzandolo era un espediente comune a molti artisti, usato per sottolineare che quel fatto è valido sempre; così l’osservatore del quadro può rileggere la propria storia alla luce di quella Parola.
L’artista ha saputo rappresentare Mosè in due momenti sequenziali: il primo, a destra, mentre si sta togliendo i sandali, secondo l’invito di Dio; l’altro mentre si inginocchia e si prostra davanti al roveto che arde. Lo stesso personaggio è colto in due istanti diversi, nell’atto di avvicinamento. L’osservatore del dipinto è quasi incuriosito e non può che immedesimarsi e fare proprio l’atteggiamento di stupore e meraviglia che vive Mosè.

 

Il paesaggio
Sullo sfondo montagne e colline; in primo piano il pianoro dell’Oreb dove Mosè sta pascolando il gregge di suo suocero Ietro. A destra si può notare un gruppo di case tipiche dell’architettura olandese.
Qualcuno potrebbe domandarsi: ma cosa fanno delle case in un deserto? Non sappiamo il perché, forse per far comprendere che Mosè aveva trovato un rifugio, una tranquillità, lì Dio lo va a trovare. A sinistra c’è un monticello, alcune pietre tra cui possiamo vedere un cespuglio di rovi sempreverde: l’apparizione di Dio a Mosè è un’immagine di grande spettacolo, un evento unico e straordinario a cui anche il paesaggio sembra partecipare. 

Il roveto
Di solito nell’iconografia di questo episodio biblico è rappresentato un roveto che arde e che non si consuma. Qui Bouts ha voluto rappresentare Dio in forma antropomorfa sul roveto in mezzo al fuoco, proteso, quasi inchinato, verso Mosè. È Dio che cerca la prossimità con l’uomo. Dio ha le sembianze di un vecchio con barba e capelli lunghi; indossa una tunica violacea, con la mano sinistra tiene il globo terrestre e con la destra benedice. Parla a Mosè e manifesta la sua profonda identità, “Io sono colui che sono”, colui che dà l’esistenza, il Creatore e Signore dell’universo; e con gesto benedicente tranquillizza Mosè e gli dice: «Io sono il Dio di Isacco…». È Dio che esprime familiarità, è il Dio dei nostri padri che si manifesta dal roveto1, Dio che è luce e calore e fuoco che purifica.
Bouts ha ritratto Dio in forma antropomorfa e ciò fa pensare a Dio che si manifesta immedesimandosi nell’uomo: ho osservato la sua miseria, ho udito il suo grido, conosco le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo… È Dio che ha a cuore le sorti dell’uomo, Dio che si coinvolge. Bouts non poteva che esprimere così questa prossimità, questa vicinanza di cuore e Mosè fa esperienza di tutto questo, è un anticipo dell’incarnazione, di Dio che si fa uomo in Gesù.

Mosè che si toglie i sandali
Mosè si toglie i sandali perché Dio gli ha detto che il suolo che sta calpestando è terra sacra. Mosè obbedisce, poco prima si è avvicinato incredulo per vedere il roveto che brucia senza consumarsi. Mosè ha lasciato alle sue spalle il gregge, si è avvicinato per curiosità e si meraviglia. È anziano ma è capace di meravigliarsi malgrado i suoi fallimenti, le sue delusioni, le paure, ha interesse per qualcosa di nuovo, è come un bambino che si lascia prendere dall’incanto e dallo stupore. Mosè si ferma e si siede.
Bouts ha delimitato la zona del terreno evidenziandola con una gradualità di colori. Con il chiaroscuro ha saputo creare un primo piano limitandolo dallo sfondo, quasi una terra di mezzo, terra sacra a cui si può accedere solo a piedi scalzi.

Mosè davanti al roveto
Mosè è raffigurato in primo piano, al centro del quadro, è scalzo, i suoi piedi toccano la terra sacra. Qual è il significato? Cosa nasconde questo invito da parte di Dio? Mosè si presenta davanti a Dio quasi in punta di piedi, riconoscendo tutta la sua fragilità: è l’incertezza dell’uomo quando cammina a piedi scalzi2, attento e sensibile a ciò che gli capiterà. Mosè è in uno spazio “altro” in cui l’uomo, ogni uomo, deve spogliarsi, lasciare fare a Dio. Ora, solo ora, Mosè può fare esperienza di Dio. Mosè è vestito con una tunica blu e il manto rosso. Il suo sguardo è incantato, ma allo stesso tempo preoccupato, non si capacita di ciò che sta vedendo e soprattutto di ciò che sta ascoltando. In questa teofania può dialogare con Dio, chiamarlo per nome, parlare delle vicende del popolo degli israeliti.
Significativo è il gesto delle mani: la sinistra pone un limite, come per dire “oltre non si può avanzare”, ma allo stesso tempo significa accoglienza; la mano destra aperta, davanti agli occhi per proteggersi dalla luce abbagliante che viene dal roveto, funge da schermo: nessuno può vedere Dio, lui ha avuto questo privilegio e Dio rivela a Mosè la sua vocazione e la sua missione.

Il bastone
Sembra un accessorio, un particolare di poco conto, invece il bastone accompagna Mosè in questo avvicinamento alla teofania, è sempre al suo fianco. Mosè abbandona il gregge ma non il suo bastone. Perché? Da ciò che accadrà in seguito comprendiamo l’importanza di questo segno per la storia della salvezza del popolo di Israele.
Il bastone si tramuterà in serpente per convincere il faraone a far uscire il popolo. È uno strumento di cui Dio si serve per liberarlo, servirà a Mosè per aprire un passaggio nel mar Rosso e nel deserto un colpo di bastone farà zampillare l’acqua dalla roccia. E ancora, non era forse stato il bastone a tramutare l’acqua in sangue?
Non è il bastone che ha in sé la forza, la capacità di cambiare gli eventi, né l’uomo nell’espressione migliore della sua intelligenza.
Il bastone è il mezzo di cui Dio si serve per esprimere la sua grandezza; nella perfezione totale, assoluta, avvolge tutto con il suo amore.

 

Approccio vocazionale

Un Dio umano e sensibile
Dierik Bouts ha rappresentato Dio sul roveto in forma antropomorfa. È un’immagine apparentemente elementare che fa comprendere come Mosè fa esperienza di un Dio sensibile e umano, un Dio che vede, ascolta, accoglie. Non sappiamo se questo sia stato nell’intento dell’artista ma possiamo dire che in questo incontro Mosè conosce, sperimenta un Dio personale che parla, interagisce con lui, che esprime cura, vicinanza e rivela il suo nome «Io sono colui che sono», che equivale a dire: «Io sono con te». Dio si presenta come “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”, Dio che fa parte della storia del suo popolo di cui egli può fare memoria, è il Dio dei suoi avi, Dio incarnato, riconoscibile, non un Dio trascendente, inaccessibile, chiuso nei cieli, ma vicino, conosciuto, familiare, che chiama Mosè per nome e a cui può rispondere.
C’è un bellissimo midrash dal libro dell’Esodo che narra: «Mosè giunse al monte di Dio mentre era in cammino alla ricerca di una pecora smarrita. Trovatala, se l’era caricata sulle spalle. Dio allora gli avrebbe detto: “Siccome hai mostrato tanta cura verso una pecora smarrita, hai mostrato di essere pastore fedele e sicuro: tu sarai il pastore del mio popolo Israele”»3.
Dio sceglie Mosè perché vede in lui un uomo che può avere cura del suo popolo e può essere un aiuto per liberarlo. Lo chiama, Mosè è colto in un momento di crisi: Dio si rivela spesso nei momenti di difficoltà, di fatica, ma offre la sua presenza per gettare le basi per una nuova identità e propone, con la sua chiamata, una nuova esperienza per dare un senso all’esistenza.
Come per Mosè sul monte, al chiamato non è possibile annunciare, intraprendere la missione senza aver sostato con Dio, aver sperimentato la sua vicinanza, perché è l’incontro con Lui che dà la forza e la capacità di esprimersi nella “sua” umanità.
C’è un passo molto bello di Evangelium gaudium in cui Papa Francesco si esprime così: «Io sono una missione su questa terra». Ancora il Papa: «Bisogna riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare».
“Marcati a fuoco” racconta un’appartenenza, è un sigillo, è un legame profondo che nessuno può cancellare. Ogni persona è chiamata a “incarnare” questa missione; infatti il Papa non dice: «Io ho la missione», ma: «Io sono…», perché solo sull’essere si decide il senso della vita.
Mi piace rivedere nelle parole di Papa Francesco, in quell’insistere sull’essere della persona, delle proprie azioni espresse nei verbi benedire, guarire, liberare, la stessa insistenza sull’essere di Dio “io sono colui che sono”.
Il chiamato che sperimenta e manifesta nella vita parole e atti che esprimono la sensibilità di Dio verso ogni uomo, diventa strumento di Dio nella salvezza, per donare agli altri ciò di cui ha fatto esperienza.
Come Mosè, ogni persona è chiamata a una autentica vocazione, non per una realizzazione personale, ma perché attratta dalla conoscenza della verità del Padre, dalla sua proposta di amore che deve tradursi in vita con gli altri e per gli altri.
Come per Mosè la vocazione è la risposta al grido degli Israeliti, così ogni vocazione è accolta e provata nei fatti, nella vita e nella storia.
Se Dio si fa umano e sensibile e desidera la nostra prossimità, chiama ciascuno di noi a comprendere e a condividere il suo progetto di amore, ancor di più noi che desideriamo essere missione, luce, benedizione per gli altri, dobbiamo esprimere al meglio la nostra umanità nella coscienza dell’esistenza e nella consapevolezza degli atti, attraverso tutti i nostri sensi.

 

Preghiera

Dio, come Mosè
nel fuoco del roveto
vuoi consumarci della tua carità,
ci chiami per nome
e ci fai comprendere
il tuo progetto di libertà.

Insegnaci a scoprire la vicinanza
al tuo mistero che non è solo
intimità che arricchisce noi stessi,
ma è sorgente d’amore
verso tutti i fratelli,
desiderio di prossimità
per far conoscere la tua volontà.

 

NOTE

1 Il fuoco è una delle immagini più comuni nella Bibbia per indicare la presenza di Dio: nel deserto il Signore guidava il suo popolo «con una colonna di fuoco» (Es 13,21), «scendeva nel fuoco» (Es 19,18), «la sua voce parlava dal fuoco» (Dt 4,33). Anche qui il fuoco indica la voce di Dio che rivela al suo servo la missione difficile e rischiosa cui è chiamato. Il roveto ardente che non si consuma esprime molto bene la “fiamma di Dio” che arde interiormente e non dà tregua a Mosè. È la stessa di cui parla Geremia: «Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Ger 20,9).
2 Ancora oggi i musulmani hanno l’abitudine di togliersi le scarpe quando entrano in una moschea. È interessante notare che il termine “sandali” (na’ al) deriva da un verbo ebraico che significa “chiudere”, “stringere”. Quando Mosè si libererà da tutto ciò che lo tiene compresso, chiuso, stretto scoprirà pienamente la sua identità e vocazione nelle quali risplende la sua dignità di uomo e credente.
3 Shemot Rabba II, 2.

Dierick Bouts the Elder
Mosè e il roveto ardente
1465-70, olio su tavola 44×36 cm, Museum of Art, Philadelphia