N.03
Maggio/Giugno 2017

Comunità senza barriere

È una messa piena di suoni e colori quella che si celebra ogni domenica mattina nella parrocchia Santi Martiri dell’Uganda a Roma. Una comunità di oltre 10mila anime che si ritrova senza barriere: adolescenti con problemi dello spettro autistico che si muovono liberamente, mentre anziani con problemi di deambulazione seguono la celebrazione dalle prime file. E poi ragazzi in carrozzina, donne in gravidanza, giovani immigrati e persone sorde. «Le messe si adattano alle persone, come quei vestiti non perfettamente cuciti che piano piano prendono la forma del corpo», racconta il parroco don Luigi D’Errico.
Quando dieci anni fa ha preso le redini della parrocchia e ha spalancato le porte della chiesa a tutti, qualcuno ha storto il naso: «L’idea era che la messa fosse un momento serio e silenzioso. Ho fatto presente che ci sono cinque funzioni al giorno di domenica e ognuno si può spostare in quella che preferisce. Nel tempo, però, le persone hanno imparato a conoscere gli altri e a capire che tutti fanno parte della stessa comunità. È stato semplice, non abbiamo dovuto studiare nulla a tavolino».

«Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società» (EG).

La parrocchia Santi Martiri dell’Uganda, eretta il 4 settembre 1970 e consacrata da Giovanni Paolo II il 26 aprile 1980, rende omaggio a un gruppo di 22 servitori, paggi e funzionari del re di Buganda convertiti al cattolicesimo dai Missionari d’Africa del cardinale Charles Lavigerie, che vennero fatti uccidere perché cristiani tra il 1885 e il 1887.
Prima di essere nominato parroco della chiesa del quartiere Montagnola, don Luigi è stato per dodici anni tra gli italiani in Svizzera dove, spiega, «la situazione è peggiore»: «Le persone disabili conducono una vita parallela rispetto agli altri cittadini, garantita economicamente, ma lontana dagli altri. Si tende a farle vivere tra loro o, al massimo, con gli operatori che lavorano nei centri specializzati.
Noi che facevamo tutto insieme, eravamo guardati con sospetto». Don Luigi, però, non si è dedicato alle persone disabili come una chiamata speciale: «A catechismo mi hanno insegnato che il Vangelo è per tutti. Non mi è sembrato un atto di eroismo. Quando sono arrivato a Roma, frequentavano la parrocchia soltanto due o tre persone disabili. Le altre non si facevano vedere, ma c’erano. E girando per le benedizioni o parlando con gli abitanti del quartiere, ho scoperto che erano tante. Così abbiamo iniziato a ripetere insistentemente, come questuanti, che saremmo stati felici se fossero venute in chiesa».
È iniziata in questo modo una storia di inclusione cresciuta fino a oggi: «Abbiamo parlato tanto con i catechisti, coinvolgendo i più giovani. Abbiamo ragionato su come accogliere ogni tipo di persona, e questo vale per chiunque, non soltanto per i disabili. Nessuno nasce specializzato: quale mamma, prima di avere un figlio, sa cosa fare? Il modo migliore di imparare è volere bene alle persone. Non funziona il contrario: prima studiare e poi rimboccarsi le maniche. Ho conosciuto insegnanti di sostegno bravissime, che però avvertivano come un peso il compito di seguire i bambini. E altri, invece, che a forza di volere bene ai ragazzi sono diventati esperti. Ci sono mamme di figli autistici che potrebbero insegnare all’università.
Volere bene è la chiave». Certo, gli ostacoli da superare non sono mancati.
Alcuni catechisti, racconta don Luigi, avevano inizialmente «difficoltà buone»: «Ci sono persone che hanno persino paura di andare in ospedale a trovare un malato. Con il tempo, però, tanti mi hanno ringraziato di essere stati messi di fronte a una realtà che avrebbero volentieri evitato. Tra i giovani c’è meno diffidenza, gli adulti, invece, hanno immagazzinato tante precomprensioni.
Quando si comincia fin da bambini a non fare divisioni, allora tutto prende forma naturalmente. E con i difetti dell’Italia, abbiamo ancora una scuola che accoglie tutti».

«Le differenze tra le persone e le comunità a volte sono fastidiose, ma lo Spirito Santo, che suscita questa diversità, può trarre da tutto qualcosa di buono e trasformarlo in dinamismo evangelizzatore che agisce per attrazione» (EG).

Responsabile del settore Sud della diocesi di Roma, in cui ricade la parrocchia, è da due anni monsignor Paolo Lojudice. Padre spirituale al Pontificio Seminario Romano Maggiore per quasi un decennio e parroco di periferia introdotto alla marginalità, il vescovo ha accolto con entusiasmo l’apertura dei Santi Martiri dell’Uganda: «Per parecchio tempo si è preferito delegare tutto agli esperti o alle comunità. Quasi che si trattasse di un tema da confinare. Naturalmente è importante avvalersi di competenze specifiche e non improvvisare, ma la sensibilità maturata nelle parrocchie e la consapevolezza di essere una comunità sono un bel risultato».
Anche la formazione dei sacerdoti è cambiata: «Ogni anno, ad esempio, proponevamo ai seminaristi dei percorsi per apprendere la lingua dei segni da utilizzare durante la messa. I giovani che partecipavano non erano pochi». Mons. Lojudice invita tutti i suoi preti a non avere paura di aprirsi, anche se si rende conto che «non è sempre così».
La “Chiesa in uscita” di Francesco, d’altra parte, è «saldamente radicata nel Vangelo»: «Spesso sfido i miei confratelli a trovare qualcosa che dica il Papa e che non sia già scritta nel Vangelo». Di fronte alla provocazione che la pratica dell’inclusione pone alle parrocchie, mons. Lojudice è consapevole della distrazione che viene dalle incombenze di natura amministrativa che talvolta possono arrivare a soffocare l’entusiasmo per la ricerca di forme nuove di evangelizzazione che arrivino a tutti: «Ci si limita all’ordinarietà, a quella pastorale di contenimento che per fortuna – dobbiamo ammettere – è ancora molto legata ai sacramenti».

«Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica» (EG).

«Pensa a un sacerdote che non accoglie tutti: che consiglio darebbe il Papa? “Chiudi la porta della chiesa, per favore!”. O tutti, o nessuno. “Ma no – pensiamo a quel prete che si difende – ma no, Padre, no, non è così; io capisco tutti, ma non posso accogliere tutti perché non tutti sono capaci di capire…”».

«Sei tu che non sei capace di capire!»
Non utilizzò mezzi termini Papa Francesco, incontrando l’11 giugno 2016 i partecipanti al convegno per persone disabili promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana. A porre la domanda al Santo Padre, tra la folla festante presente in Aula Paolo VI, era stato proprio don Luigi. «Io sono convinto che se c’è qualcuno che ha diritto ai sacramenti, sono proprio le persone con disabilità. Di questo non discuto nemmeno», ribadisce mons. Lojudice. «Tutti possono accedere ai sacramenti», aggiunge don Luigi: «Francesco ha scritto una pagina chiara di catechismo, voglio vedere chi avrà il coraggio di contraddirlo. Eppure ancora accade. Ho dovuto celebrare il funerale di un caro amico, papà di un ragazzo autistico che era stato cacciato da tante chiese. Cercava per il figlio un posto che lo accogliesse, dove si sentisse a casa. Subiva l’onta di essere allontanato dalle chiese perché, gli dicevano, ci voleva ordine e disciplina. Ancora capitano preti che rifiutano i sacramenti: “Questo è un angelo, non c’è bisogno della comunione!”. Tutte sciocchezze».
Al funerale di quel papà, prosegue don Luigi, «il figlio pregava come nessun altro in chiesa. Non ha detto una parola, si è mosso perfettamente durante la celebrazione. La messa è il paradiso degli autistici, dice il dottor Carlo Riva. Ci sono schemi ripetitivi, spazi, colori, gesti e suoni con cui si può interagire. Io ho partecipato a messe in arabo, non capivo niente, ma comprendevo ugualmente tutto. E i ragazzi con disabilità intellettiva capiscono esattamente quello che accade».
Certo, chiosa il parroco, «se mi aspetto la classifica confessione: “Padre, ho peccato secondo il primo dei Comandamenti…!” sono fuori strada. E sento certe confessioni dei cosiddetti normodotati che ci sarebbe da alzarsi e andare via… Ma chi l’ha detto che c’è un modo solo di esprimersi? Questi ragazzi distinguono con precisione ciò che è buono da ciò che è cattivo. E se durante la confessione parlano poco, è perché hanno pochi peccati da dire».

«La Chiesa dev’essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo» (EG).

Il passo successivo è stato, per don Luigi, il coinvolgimento delle persone con disabilità, anche psichica, nell’insegnamento del catechismo: «Stiamo procedendo bene. L’assiduità di presenza e di impegno non è lontanamente paragonabile a quella degli altri catechisti». Adesso, però, è giunto il momento di «raccordare le varie proposte»: «Nel nostro mondo, queste iniziative hanno effetto nella misura in cui qualcuno le racconta. Se riuscissimo a far passare tra i parroci ciò che è importante vivere e trasmettere, tutto sarebbe più semplice. Esistono centinaia e centinaia di iniziative parrocchiali lodevolissime sul tema della disabilità, ma nessuno le conosce. Poi ci sono i movimenti, che fanno più notizia perché sanno curare l’immagine. Noi parrocchie no. D’altra parte, chi parla di uno che muore in un quartiere di periferia anche se era un santo?».