N.03
Maggio/Giugno 2017

Prossimità: quanto l’annuncio è chiamata

L’esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013) è il primo tra i documenti ufficiali di Papa Francesco, giacché per la redazione dell’enciclica Lumen fidei (29 giugno 2013) scritta “a quattro mani”, egli si avvalse della collaborazione del suo illustre predecessore, Papa Benedetto XVI. Non ci si deve perciò meravigliare se lo stesso Jorge Maria Bergoglio abbia riconosciuto a Evangelii gaudium un evidente «significato programmatico e dalle conseguenze importanti» (n. 25), essendovi racchiuse la struttura portante e le linee guida del suo intero pontificato. Prima di esaminare alcune tra le singole questioni ivi affrontate, è bene aver presente la portata del documento nel suo complesso. Giustamente, un noto adagio recita: «Il testo senza contesto è pretesto». Isolare anche un solo versetto senza tener conto del quadro d’insieme può condurre a letture riduttive, distorte e/o ideologiche. Ecco perché – anche solo soffermarsi sulla suddivisione del testo (in cinque capitoli) –, può dare già alcune indicazioni su cosa stia davvero a cuore a Papa Francesco: 1) la trasformazione missionaria della Chiesa; 2) nella crisi dell’impegno comunitario; 3) l’annuncio del Vangelo; 4) la dimensione sociale dell’evangelizzazione; 5) evangelizzatori con spirito. Con queste premesse diventa molto più agevole individuare i pilastri – sei, a mio avviso – su cui si regge tutta l’impalcatura di Evangelii gaudium:
1) la riforma della Chiesa a partire dall’immagine di una Chiesa missionaria “in uscita”; 2) le tentazioni di chi opera in ambito pastorale; 3) la Chiesa intesa come popolo dei battezzati coeso nell’azione evangelizzatrice; 4) l’omelia e la sua doverosa preparazione; 5) i poveri, da collocare sempre più al centro della vita ecclesiale e sociale; 5) la pace e il dialogo; 6) la ricerca delle motivazioni di ordine spirituale soggiacenti alla missione della Chiesa.
Ciascuno di questi argomenti si innesta ed armonizza coi restanti, similmente alle diverse facce di un medesimo prisma: come trait d’union tra ciascuna di esse appare limpida la visione di una Chiesa immaginata da Papa Francesco come viva, gioiosa e in costante atteggiamento di conversione; non concentrata su questioni di ordine pratico o burocratico, ma di natura profondamente spirituale: questo è l’incipit per un’autentica novità di vita. Emerge allora il sogno di una Chiesa mai ripiegata su se stessa ma costantemente “in uscita”, così da poter incontrare tutti gli uomini e tutto l’uomo il quale, non poche volte, si scopre invece estraneo non solo al proprio prossimo, ma anche a se stesso. La sfida non è per niente agevole. Anche in altre occasioni Papa Francesco si era soffermato sull’impellenza di dare avvio ad un nuovo umanesimo – incentrato su Gesù Cristo vero Dio e vero uomo – e alla riappropriazione di un nuovo modo di vivere insieme ancorato su queste medesime fondamenta.
Non è un caso allora che Papa Francesco abbia voluto dedicare il secondo capitolo della Evangelii gaudium proprio alla crisi dell’impegno comunitario (nn. 50-109), deriva di un progressivo quanto deleterio sfaldamento della comunità: spesso anche nella coscienza degli stessi battezzati, sui quali è sempre in agguato la tentazione di una fede annacquata da mondanità spirituale, modellata a proprio uso e consumo o, ancora, ricercata in tanti piccoli gruppi di appartenenza scelti e formati in base alle proprie simpatie o sulla scorta di una qualche affinità elettiva. Alla radice del deprezzamento di una vita buona in comune concorrono diversi fattori: quello maggiormente incidente pare essere la sete di denaro, idolo antico e sempre attuale a causa del quale l’economia tende sempre più ad escludere anziché ad includere; a favorire i potenti anziché porsi a servizio di chi viene messo ai margini; a incrementare le guerre anziché spendere ogni energia per la ricerca della pace. Denunciando questi drammi – le cui nefandezze hanno assunto ormai da tempo pesanti ripercussioni a livello planetario – Papa Francesco mostra di possedere un atteggiamento realista (a tratti preoccupato), ma mai rassegnato o, peggio, incline alla disperazione, bensì volto alla speranza. Nel fare ciò, assume in toto l’atteggiamento aperto, positivo e dialogante del Concilio Vaticano II verso il mondo contemporaneo, il quale, pur mostrando quotidianamente le laceranti ferite prodotte dal peccato degli uomini, è stato pur sempre creato da Dio e, al pari degli uomini che lo abitano, è anch’esso bisognoso di una Parola di salvezza.
Ecco perché l’Evangelii gaudium, la gioia del Vangelo! Ma qual è il cuore del suo annuncio? Papa Francesco lo afferma in modo perentorio: «Non vi può essere vera evangelizzazione senza l’esplicita proclamazione che Gesù è il Signore e senza che vi sia un primato della proclamazione di Gesù Cristo in ogni attività di evangelizzazione» (n. 110).
Annunci diversi da quello in cui vi sia al centro Gesù Cristo, unico Signore e salvatore del mondo, non conducono ad alcuna salvezza: sono solo inutile dispendio di tempo e mezzi. Non si può fare esperienza di vera beatitudine senza aver prima ricevuto e accolto il Vangelo! Come ha ripetuto in diverse circostanze Papa Francesco:
«Non lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione! (…) La gioia del Vangelo è quella che niente e nessuno ci potrà mai togliere» (cf Introduzione e nn. 83-84). A diffondere ovunque la gioia del Vangelo concorre evidentemente – oltre al Vangelo stesso – la collaborazione di un’intera comunità ecclesiale perennemente al suo servizio. A tal riguardo, Papa Francesco indica un approccio più gesuano, ovvero più attinente al Vangelo: ogni periferia – geografica, umana, esistenziale – non sia più l’approdo ultimo di ogni attività della Chiesa, bensì il suo punto di partenza! Una cosa infatti è occuparsi (anche) dei poveri, dei migranti, degli emarginati; altro invece è fare degli ultimi i primi; degli schiavi e degli abbandonati i nostri padroni!
Questa visione ecclesiologica riprende, approfondisce, e oserei dire radicalizza, quella delineata dal Concilio Vaticano II – soprattutto nella costituzione pastorale Gaudium et Spes su “la Chiesa nel mondo contemporaneo” (7 dicembre 1965) – e dal magistero pontificio post-conciliare: a titolo esemplificativo, basti pensare alle pagine dell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975) di Paolo VI, in cui il Papa di Concesio sottolineava la «dolce e confortante gioia di evangelizzare» (n. 80). Il Vangelo – cioè Gesù Cristo morto e risorto per la salvezza del genere umano – è gioia in sé e deve poter essere motivo di gioia per chi lo annuncia e per chi lo riceve. Solo con l’obbedienza a Gesù Cristo e al suo Vangelo è possibile sperare in un autentico rinnovamento nelle relazioni: sia nella Chiesa, sia con chi – pur non appartenendo al corpo ecclesiale – è tuttavia uomo o donna di buona volontà, mosso/a cioè da una profonda sete di verità, pace e giustizia. Ben inteso: l’annuncio del Vangelo per la Chiesa non è un optional, ma una necessità vitale. Già San Paolo disse, parlando di sé e della propria missione: «Guai a me se non predicassi il Vangelo!» (1Cor 9,16). Pertanto, la Chiesa è ontologicamente missionaria, lo è cioè per sua stessa natura! Abdicare all’annuncio del Vangelo vorrebbe dire per la Chiesa cessare di esistere, non essere più corpo tonico e in salute, ma malato, agonizzante e prossimo al decesso. Di conseguenza, la proclamazione del kerygma è fatto anzitutto ecclesiale: prima ancora di essere responsabilità delle sue singole membra, l’annuncio del Vangelo è compito impellente del corpo ecclesiale nel suo complesso.
Difatti, chiunque riceve il battesimo appartiene a Cristo e alla Chiesa. Perciò, tutti i battezzati si appartengono reciprocamente come membra vive dell’unico Corpo di Cristo: la Chiesa. Di qui l’appello all’unità perché vi è «un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,4-6). In un’epoca come l’attuale – contrassegnata dall’esasperazione dell’individuo o tollerante tutt’al più nei confronti di forme di aggregazione con marcati atteggiamenti di chiusura ed autoreferenzialità (è di moda tra i giovani il modello della tribù) – la proposta di una “terza via” – una Chiesa-comunità animata ad intra e ad extra dalla carità di Cristo – pare essere la più credibile e quella di cui si avverte un’urgenza maggiore. Difatti, il Vangelo – geloso custode di un’inimmaginabile potenza rinnovatrice – non si limita a rispettare lo status quo, ma vuole entrare nel mondo e ambisce a rigenerarlo dall’interno attraverso la propria dirompente carica di carità. Partendo da questo fatto e proprio attraverso le pagine di Evangelii gaudium, Papa Francesco invita ogni cristiano a farsi attore di tale rinnovamento sul palcoscenico del mondo.
L’annuncio diventa così spinta propulsiva alla chiamata al discepolato in ogni luogo e ambito ordinario di vita (matrimoniale, famigliare, lavorativo, sportivo, ecc.): non c’è tempo o spazio in cui non si possa o debba annunciare e testimoniare il Vangelo di Gesù Cristo.
Quando ciò accade, quell’istante diventa riscoperta di quell’originaria vocazione e missione a cui ogni cristiano – a prescindere dalla propria vocazione peculiare – si deve sentire investito in forza del battesimo: vivere in Cristo, con Cristo e per Cristo. Il Vangelo di Gesù Cristo consente di ridare nuova linfa vitale a tutti i rapporti rendendo saldo nel suo nome quanto altrimenti si sarebbe facilmente spezzato: l’annunzio del Vangelo diventa quindi occasione per favorire una riconciliazione con Dio, con gli altri, ma anche con i tratti e i momenti più foschi del proprio vissuto. Probabilmente quest’ultimo è un aspetto da prendere in maggiore considerazione: soprattutto quando si deve aiutare qualcuno a far chiarezza nel proprio discerni mento vocazionale o quando la vocazione è in crisi: in quei frangenti diventa fondamentale andare alla ricerca della sorgente a cui ci si è dissetati e alla quale, per le ragioni più svariate, da troppo tempo ormai non vi si reca più, inaridendo se stessi. Con Gesù Cristo il cuore dolente è curato e le relazioni malate guariscono col balsamo del suo perdono. Grazie a Gesù Cristo non c’è più distanza fra l’uomo e Dio perché, dal giorno della sua incarnazione, chi vede l’uno riconosce l’Altro (e viceversa): per mezzo di Gesù Cristo, la grandezza del prossimo è chiamata persino “sacra” (cf n. 92). Cosa ne consegua è evidente e Papa Francesco non cessa mai di sottolinearlo: «Una sfida importante è mostrare che la soluzione non consisterà mai nel fuggire da una relazione personale e impegnata con Dio, che al tempo stesso ci impegni con gli altri» (n. 91). In una “società liquida” (cf Zygmund Bauman) come la presente, fatta di relazioni occasionali, disimpegnate ed illusorie, queste parole di Papa Francesco mettono con le spalle al muro ed esortano ciascuno, senza mezzi termini, a farsi carico delle proprie ed altrui (cor)responsabilità. Decidersi per Cristo significa impegnarsi fattivamente per chi ne mostra oggi il volto: ogni uomo, specie quello reietto e sofferente. Sarà forse questa “gioiosa radicalità” a favorire l’incremento delle vocazioni, comprese quelle sacerdotali?
Potrà un fiat comunitario più fermo e consapevole risvegliare il grembo materno della Chiesa ad una nuova e sospirata fecondità?
L’auspicio ovviamente è questo.
Chi cammina sulle strade del mondo in compagnia degli altri uomini e fa la scelta di avvicinarsi a loro per parlare di Gesù mette in opera lo stesso stile del Figlio di Dio, il quale, ad Emmaus, prima accostò due suoi sconfortati discepoli incontrati lungo la strada; poi si mise in loro ascolto; finalmente fu da loro riconosciuto dopo aver parlato di sé attraverso le Scritture e dopo aver spezzato il pane davanti a loro. La “ricetta” del Vangelo pare essere la seguente: offrire a Dio se stessi e condividere con i fratelli il meglio di sé, cosicché il Signore moltiplichi a dismisura il suo dono di grazia. Diventare discepoli di Gesù consente al Signore di entrare nella fitta trama di relazioni e, non senza la collaborazione dei chiamati, far nuove tutte le cose. (Ri)scoprirsi discepoli di Gesù implica allenare la memoria alla gratitudine personale, ma anche alla lode di tutto il popolo santo di Dio per essere stato scelto senza alcun merito, ma solo per amore.
Infine, riconoscersi discepoli di Gesù consente di riassaporare la gioia del Vangelo e di riscoprirsi partecipi di un medesimo Destino; compagni di viaggio e membri di una «fraternità mistica, contemplativa» (n. 92) in cammino verso la ricapitolazione di ogni cosa in Gesù Cristo, alla fine dei tempi. Il percorso è affascinante, talvolta però sa essere anche molto aspro, duro e pieno d’insidie: tuttavia, se si considera la compagnia e la mèta verso cui si è destinati, vale davvero la pena affrontarlo insieme, speditamente e con immensa letizia.