N.03
Maggio/Giugno 2017

Tiziano Ferro

Il conforto

Come spiega la pagina Facebook ufficiale di Tiziano Ferro, Il conforto «è una ballad dalla produzione atipica, elettronica, priva di elementi acustici nel corpo di arrangiamento. E il canto segue queste direttive». Il secondo brano estratto dal già tre volte platino Il mestiere della vita è soprattutto la giustapposizione musicale di due stili apparentemente diversi, eppure tanto affini per tenerezza ed intensità vocale. La pacata e schietta voce di Carmen Consoli e la profondità testuale di Tiziano Ferro, in collaborazione con Emanuele Dabbono, confezionano quello che, senza indugio, è stato definito come il duetto elettropop più centrato degli ultimi 10 anni di storia di featuring all’italiana.
L’intesa amicale e artistica con la Consoli ha una storia di anni, come confida Ferro: «È la mia cantante preferita da sempre, per il suo canto meraviglioso ma istintivo, è la vera erede di Mina: quando abbiamo scritto insieme nel 2010 ho scoperto una persona molto simile a me e l’ho voluta con me nel capitolo più importante di questo racconto, una canzone che evita i manierismi dei duetti: più contenuto che apparenza».
La canzone, dice Dabbono, nata dalle parole, più che dalla musica, ha nel duetto la sua collocazione perfetta: «È nata dal titolo pensando che “il conforto” potesse essere un mattone su cui costruire una casa. Nasce dalle parole. Poi è arrivata la musica e poi l’idea geniale di Tiziano di renderlo un duetto perché all’inizio non lo prevedeva. L’impianto vocale di Tiziano e Carmen ha dato un tocco in più al brano e alle parole. Hanno davvero dato luce al significato del testo».

Il videoclip
L’essenziale del testo viene ripreso anche nel videoclip in cui la Consoli è avvolta e accompagnata in un abbraccio di infinita dolcezza con Ferro. I colori chiari scelti per i capi indossati richiamano l’essenzialità e la trasparenza nell’incontro. Il confronto è tra gli “amanti-amati” che sono mesi quasi a nudo davanti ad un lungo piano sequenza che li ripropone metaforicamente sempre dalla stessa prospettiva. Eppure l’occhio della macchina da presa riesce a descrivere un incredibile dinamismo emozionale.
Un’esperienza visiva e un video fuori dagli schemi, un incontro così emotivamente potente al quale non si deve aggiungere altro: il “conforto” si respira e se ne fa l’esperienza.

 

 

L’altro
Fermarsi. Offrire una pausa ai nostri passi affrettati tra la gente, sulle strade, negli incroci di infiniti appuntamenti. Accorgersi che accanto a noi c’è un altro uomo. Incontrarlo: l’incontro è la più grande delle esperienze! Si declina nell’accoglienza e nel dialogo e si compie nell’assumersi la responsabilità della vita e della felicità reciproche.
Lèvinas dice che il volto dell’altro è il libro su cui sta scritto il bene. A confermare che, se non incontro l’altro nella sua alterità e diversità, nella sua ricchezza e nel suo valore, mi rimane sconosciuta la strada che il bene sceglie per farsi storia. La relazione diventa un movimento in direzione del bene che strappa dalle pastoie dell’egoismo e dell’indifferenza e mette in guardia dalla tentazione del separarci, distaccarci, isolarci in noi stessi. Comprendere in sé l’atro significa vivere tra e con, significa immergersi e mescolarsi per liberarsi da falsi stereotipi, da timorose diffidenze, da più o meno esplicite titubanze.
Conoscere è il primo passo dell’amare. Quando accolgo di aprire gli occhi, l’altro giunge nella mia vita come evento e avvento che rompe schemi, irrompe negli spazi angusti, dilata gli orizzonti di mente e cuore e annuncia risurrezione.

L’abbraccio
Heidegger ha elaborato il suo pensiero filosofico a partire dall’abitare; esistere come essere umani, per il filosofo, coincide fondamentalmente con l’abitare: Io sono – Tu sei, cioè Io abito – Tu abiti. Si trova realizzazione e pienezza nella misura in cui si abita; l’essenza dell’abitare è aver cura, è stare “infra”, nel rapporto, nella relazione.
Ovvero è soggiornare presso sé e presso l’altro nella storia che è data, è abbracciarsi e custodirsi e coltivarsi.
L’abbraccio è come l’Eden, il giardino consegnato all’uomo perché lo coltivi, traendo la vita dalla sua fecondità e perché lo custodisca con cuore permeabile e penetrabile, favorendo l’eccedenza della vita.
John Lennon, nella canzone Love, ricorda che Love is touch, touch is love, ovvero L’amore è toccare, il tocco è l’amore. L’abbraccio è espressione di un amore che è consegnato e condiviso a partire dal con-tatto, dall’incontro con la corporeità e la fisicità dell’altro, che dicono la sua anima e la sua storia in tratti peculiari e unici. Per abbracciarsi bisogna che ciascuno sappia essere là dove realmente è, in situazione, sappia amarsi e stimarsi con il sentimento della festa preparata e vissuta. In questo modo, nell’incontro, cade la paura di compromettersi e di mettersi in gioco, trova strada la gratuità e il toccarsi diviene regalo che stupisce, sorprende e, nel rispetto e nell’ascolto, fa fecondo ogni momento.
Abbracciare, allora, significherà essere colmi di quella gratitudine che è fiducia rivolta al bene che si sviluppa nell’altro, al bene che l’altro di per sé rappresenta, indipendentemente da noi, e al bene che riceviamo dall’altro. È così che l’essere grati diviene scuola di generosità: rende capaci di condivisione, costruisce la novità, fa pronti sempre ad attendere l’inatteso.

Il conforto
Il dolore spesso ci sequestra in un isolamento che può raggiungere livelli insopportabili e può far morire. Il grido di chi soffre ci giunge il più delle volte senza parole: è un silenzio inerme, è la vita messa a nudo, è lo sguardo ferito dalle avversità. Compassione e conforto significano ascolto, sintonia, responsabilità di fronte alla vita, scelta solidale fatta di gesti e di permanenza.
Nella compassione c’è la sospensione di qualsiasi giudizio sulla vulnerabilità dell’altro, perché la compassione è il perdono che interrompe lo strascico della tristezza e il macerarsi nell’infelicità e concede pieno accesso alla speranza, nella fiducia che il cambiamento è possibile e che la bellezza può trovare posto nel desiderio di oltre e di altro.
Compatire è generare in noi e nell’altro la paziente sete di quel che ancora non c’è. Ci vuole tempo e attesa, perché il sole non sorge mai all’improvviso. Ci vuole pazienza. Solo il paziente, dopo aver seminato, proverà la gioia del veder nascere.
Così, liberi dal peso del passato e dalla idealizzazione del futuro, liberi da fusione e simbiosi, si diviene capaci di essere forti e di rendere forti, di confortare appunto.
Si tratta di essere presenti, di avvicinarsi e di volgersi all’altro con lo sguardo di Dio, in nome di Dio; a volte, al posto di Dio.
È quel bacio che ha trasformato la vita di Francesco d’Assisi e lo ha ancorato al Vangelo sine glossa.

David Grossman, L’abbraccio
«Sei dolcissimo», disse la mamma a Ben mentre facevano una passeggiata nei campi verso sera, «sei dolcissimo e tanto carino, non c’è nessuno al mondo come te!».
«Davvero non c’è nessuno al mondo come me?», domandò Ben. «Certo che no», rispose la mamma, «sei unico!».
Continuarono a camminare lentamente. Sopra le loro teste un grosso stormo di cicogne volava verso paesi lontani. «Ma perché?», chiese Ben fermandosi di colpo, «perché non c’è nessuno al mondo come me?». «Perché ognuno di noi è unico e speciale», disse la mamma ridendo e accovacciandosi a terra.
«Vieni qui, siediti vicino a me». Poi fischiò alla loro cagnetta, Splendida, perché si sedesse con loro. «Ma io non voglio che al mondo ci sia soltanto uno come me», protestò Ben. «Perché no?», si stupì la mamma, «è una cosa bellissima che tu sia unico e speciale!».
«Perché così sono solo!», si lamentò Ben, «mentre io voglio che ci sia anche qualcun altro come me!»
«Tu non sei solo», gli spiegò la mamma, «ci sono io con te, e anche papà». «Sì», ammise Ben, «però…». Era confuso e non ricordava più cosa voleva dire. «Vieni qui», mormorò la mamma, «siediti vicino a me». Ben non si sedette. All’improvviso i suoi occhi si fecero grandi e profondi: «E non c’è nemmeno nessuno al mondo come te?». «No, non c’è», disse la mamma.
«Allora anche tu sei sola?». «Ma no. Ho te e papà…». «Ma non c’è nessuno proprio uguale a te?». «No, non c’è», ammise la mamma. «Allora sei sola», proclamò Ben sedendosi accanto a lei.
«E non ti senti sola, da sola…?».
La mamma sorrise, disegnò col dito dei cerchi per terra e rispose, «sono un po’ sola e sono un po’ con gli altri, e a me va bene essere un po’ così e un po’ cosà…».
Il sole cominciava a tramontare, il cielo si fece quasi rosso. «Io mi sento solo», mormorò Ben sottovoce. «Ma tesoro», esclamò la mamma, «ci sono io con te!». «Ma tu non sei me». Tacquero. Nell’aria c’era un buon odore di terra e di erba, e un ronzio di mosche e di altri insetti che svolazzavano dappertutto, danzando. Ben accarezzò la cagnetta distesa accanto a lui. «Anche Splendida?». «Anche Splendida cosa?», domandò la mamma. «Anche di Splendida ce n’è solo una in tutto il mondo?». «Sì», rispose la mamma accarezzando il pelo morbido della cagnolina, «c’è una sola Splendida in tutto il mondo».

Per terra, accanto ai piedi di Ben e della mamma, camminava una lunga fila di formiche. Forse mille. Si somigliavano moltissimo, mille formiche identiche. Ma quando Ben le guardò da vicino vide che una camminava veloce e un’altra piano. Una si sforzava di trascinare una foglia grande e un’altra trasportava soltanto un chicco di grano. E ce n’era una, piccolina, che correva avanti e indietro a lato della fila. Ben pensò che forse quella formichina aveva perso i genitori e li stava cercando. «Questa formica lo sa che non c’è nessun altra al mondo come lei?», domandò. «Questo non lo posso sapere», rispose la mamma. Ben ci pensò un po’ su, poi disse: «Non lo puoi sapere perché tu non sei lei?». «Sì», confermò la mamma, «perché io non sono lei». La formichina rientrò finalmente nella fila e riprese a camminare con le altre. Ben pensò che forse le due formiche grandi che le camminavano accanto erano i suoi genitori.
«Allora di ogni persona ce n’è solo una al mondo?» domandò Ben. «Sì, ce n’è solo una», disse la mamma.
«E perciò sono tutti soli?». «Sono un po’ soli ma sono anche un po’ insieme. Sono sia l’uno sia l’altro». «Ma com’è possibile?». «Ecco, prendi te per esempio. Tu sei unico», spiegò la mamma, «e anch’io sono unica, ma se ti abbraccio non sei più solo e nemmeno io sono più sola».
«Allora abbracciami», disse Ben stringendosi alla mamma. Lei lo tenne stretto a sé. Sentiva il cuore di Ben che batteva. Anche Ben sentiva il cuore della mamma e l’abbracciò forte forte.
«Adesso non sono solo», pensò mentre l’abbracciava, «adesso non sono solo. Adesso non sono solo».
«Vedi», gli sussurrò mamma, «proprio per questo hanno inventato l’abbraccio».