N.04
Luglio/agosto 2017

Dialogo di crescita tra sogni e parole scomode

1. La nostra “tara di fabbricazione”

«Sono convinto, che tutti nella vita ci siamo portati dentro un sogno, che poi all’alba abbiamo visto svanire.
Io, per esempio, mi figuravo una splendida carriera. Volevo diventare santo. Cullavo l’idea di passare l’esistenza tra i poveri in terre lontane, aiutando la gente a vivere meglio, annunciando il Vangelo senza sconti, e testimoniando coraggiosamente il Signore Risorto.
Ora capisco che in questo sogno eroico forse c’entrava più l’amore verso me stesso che l’amore verso Gesù. Comprendo, insomma, che in quegli slanci lontani della mia giovinezza la voglia di emergere prevaleva sul bisogno di lasciarmi sommergere dalla tenerezza di Dio.
È il difetto di quasi tutti i sogni irrealizzati: quello di partire con un certo tasso di orgoglio. E il mio non era esente da questa tara di fabbricazione.
Ciò non toglie, però, che ritrovandomi oggi in fatto di santità neppure ai livelli del mezzobusto, mi senta nell’anima una grande amarezza».
È don Tonino che scrive.
Chiamando per nome, come era nel suo stile, rivolgeva le sue parole scomode agli uomini e alle donne che vivono potente
l’esperienza di sogno infranto. Ribaltando la logica attesa, aveva sempre il coraggio di mutare prospettiva. E anche qui, eccolo coraggiosamente a dichiarare che sì, esiste una pericolosa retorica attorno al sogno, se inteso soltanto come meta pura che io voglio raggiungere per essere altrettanto puro e che, quando poi si scontra con l’umanità – con l’altrui e soprattutto mia umanità e lì si infrange –, allora mi getta nel rischio di produrre narrazioni che hanno al centro una parola che faticosamente citiamo, che è controcanto del sogno, e che è il fallimento.
E proprio questo era difatti il titolo di questa sua Lettera a coloro che si sentono falliti, che così proseguiva: «La riuscita di una esistenza non si calcola con i parametri dei fixing di borsa. E i successi che contano non si misurano con l’applausometro delle platee, o con gli indici di gradimento delle folle».
E già.
Che parrebbe persino che successo fosse una parola soltanto di altri contesti e non dei nostri, per carità.
Ma in realtà successo è una parola che seduce anche la nostra quotidianità.
Anche quando cerchiamo la santità, come lui onestamente svela di sé immediatamente in apertura, successo è una parola che in realtà fibrilla anche noi, magari la chiamiamo con un nome diverso, ma quello è. Cosa? Il nostro umano bisogno di sentirci bravi, il nostro bisogno di sentirci adeguati, il nostro bisogno di sentirci utili.
Ah! E cosa ci sarebbe che non va? Tutto sommato proprio questo successo dovrebbe essere il senso della mia vocazione, perché: «Signore nelle mie preghiere io ti chiedo questo, fa’ che io sia utile, fa che non sia trascorsa invano, fa’ che il tuo amore per me si sia trasformato in frutto».
E poi mi ritrovo al cospetto della mia sterilità e mi flagello nel dirti: «Mio Signore, perdonami, perché non ti ho restituito nulla».
Mi chiedo quanto c’è, al cospetto di questo dolore, di questo senso del mio fallimento, quanto c’è che appartiene al mio ego, che vuole sentirsi buono, che vuole sentirsi meritevole in questo restituire.
Perché, sì: l’albero si riconosce dai suoi frutti. Ma chi riconosce i frutti?
La scrittura di don Tonino capovolge, come sempre, la nostra logica. E allora provo a chiedermi: tutte le volte in cui io faccio l’esperienza di non raccogliere frutto, tutte le volte in cui faccio l’esperienza della sterilità, dell’insuccesso del mio sogno di evangelizzazione e accompagnamento vocazionale, può essere che stia accadendo qualcosa che in realtà è sacro? Che io, al cospetto dell’inutilità del mio accompagnamento, dello sgretolarsi di tutti i miei sogni e sforzi pastorali, sia al cospetto di un livello di verità a cui da solo non sarei in grado di arrivare, e che proprio questo sogno infranto, questo fallimento, mi riporti alla mia nudità, a chiedermi – a proposito di parole scomode, tema che in questo Seminario avete desiderato correlare ai sogni – che cos’è per me il successo? Che cos’è per me il fallimento?
Don Tonino così continuava:
«Da quando l’Uomo della Croce è stato issato sul patibolo, quel legno del fallimento è divenuto il parametro vero di ogni vittoria, e le sconfitte non vanno più dimensionate sulla condizione dei fischi che si rimediano, o dei naufragi in cui annegano i sogni.
Anzi, se è vero che Gesù ha operato più salvezza con le mani inchiodate sulla Croce, nella simbologia dell’impotenza, che con le mani stese sui malati, nell’atto del prodigio, vuol dire, cari fratelli delusi, che è proprio quella porzione di sogno che se n’è volata via senza mai realizzarsi a dare ai ruderi della vostra vita, della mia vita come per certe statue mutile dell’antichità, il pregio della riuscita».
Beata contraddizione, che appartiene al mistero dell’autobiografia umana e divina di Gesù. E anche alla nostra.
«Non voglio sommergervi di consolazioni. Voglio solo immergervi nel mistero. Nella cui ottica una volta entrati, vi accorgerete che gli stralci inespressi della vostra esistenza concepita alla grande, le schegge amputate dei vostri progetti iniziali, le inversioni di marcia sulle vostre carreggiate non soltanto sono inutili, ma costituiscono il fondo di quella Cassa depositi e prestiti che alimenta ancora oggi l’economia della salvezza».
E dunque queste erano le parole, come tutte le sue, assolutamente scomode. Don Tonino aveva questa caratteristica di riuscire a tenere insieme parole poetiche e politiche – e qui uso l’espressione politica nel senso a lui caro, quello dello scuotimento dell’impegno nel reale. E allora, seguendone il coraggio, proviamo a sperimentare un esercizio insieme scomodo e sognante: partiamo dal provare a depositare davanti a noi il più potente tra i nostri sogni. E l’ora in cui è stato, per molto o per poco, infranto. Proviamo a portare davanti a noi quello che ci appartiene nell’ora in cui noi – che abbiamo un compito di direzione – conosciamo l’assenza di direzione.
Portiamo qui, adesso, il nostro groviglio, i nostri grovigli.

2. Nodi vitali, fertili grovigli
Grovigli è una parola molto interessante. Provate a pensare a un groviglio di fili, ad una aggrovigliata matassa. Non associamo a questa espressione sensazioni positive.
Grovigli però, può essere un’interessante metafora per ragionare su quello che accade nella relazione di direzione spirituale ed accompagnamento: c’è qualcuno che ci porge un suo groviglio e qual è il mio sogno al cospetto della persona che mi viene affidata, che a me si affida?
Farò il mago che srotolerà la matassa?
Studiare la vita, studiarne i tracciati, stare al cospetto dei grovigli: qual è la competenza dell’accompagnatore? Nello sciogliere?
Anche sciogliere è una parola interessante. Il nodo per sua natura è un blocco. Io sono una pasticciona e combatto molto spesso con i nodi e il nodo per sua natura è un’interruzione, un arresto, una sospensione. Un punto di morte.
Ma, contemporaneamente, un nodo è un crocevia.
Che cosa sono chiamato a fare al cospetto di questo groviglio, di questo nodo? Scioglierlo per riportare all’armonia perduta. Oppure?
Accade nella storia di ognuno, nella storia delle nostre aspirazioni e nei nostri comodi sogni di sgrovigliamento, di desiderare di riportare l’ordine precedente: là dove intendo lo sgroviglio come eliminazione della perturbazione, del nodo, che è arrivato a turbare la chiarezza e che cerca, nella consulenza e nella nostra direzione, di riportare l’ordine.
Ah! Questa è una parola incredibile, questa è una parola che fa perdere la testa agli uomini e alle donne. Ordine sembra una parola bellissima, è il desiderio degli uomini e delle donne dall’inizio della loro storia. La scienza moderna nasce con questo stesso obiettivo.
Anche un certo modo di intendere la fede pericolosamente persegue questo obiettivo.
L’ordine – l’assoluta assenza di mutamenti, di scomodità, di sogni infranti – è però, a ben guardare, profondamente lontano dalla forma della vita vivente. E ordine non è esattamente la parola che meglio descrive l’autobiografia di Gesù Cristo, abbastanza aggrovigliata con una serie di inceppamenti e con una forma zigzagata dove disordine non sta per peccato. Disordine sta per la forma naturale della vita. Pensate a un elettroencefalogramma o a un elettrocardiogramma: quando sono “in ordine”, in linea retta senza salti, vuol dire che non c’è più vita; il disordine – lo stare attraverso grovigli che sono salti, che sono sacri – è la forma dell’evoluzione, è la forma della vita, è la forma delle nostre autobiografie, è la forma del popolo di Dio nel deserto. E allora, forse, posso provare a stare dentro una prima scomodità che mi riguarda come accompagnatore e direttore spirituale: accettare che non si tratta di riportare “all’ordine” la mia vita o la vita di chi mi è affidato, di chi mi si affida all’attimo che precede quel punto, ma di accompagnarlo, ed accompagnarmi, verso uno stadio successivo, trasfigurativo, nel quale lo “sciogliere” non coincide con l’eliminare il nodo, col pensare di ritornare a un ordine precedente in cui c’è pace perché questa turbolenza non c’è più. Ma invece stare in una postura che riconosce proprio a quel nodo un’incredibile potenzialità di apprendimento. Pensate che, invece, anche nelle nostre quotidianità siamo abituati a considerare un problema, un problema nella nostra vita spirituale, nella nostra vita materiale, e nella vita di un altro, come un’interruzione della pace: quindi una maledizione. Mentre dal punto di vista delle scienze dei sistemi complessi, ma anche straordinariamente dal punto di vista del Vangelo, lo sciogliere non coincide con l’eliminare.
Il nodo, il groviglio, il dirottamento dall’ordine ci chiedono di essere guardati.
Come?
Ecco che si staglia un’altra parola insieme comoda e scomoda per chi sogna di essere un utile accompagnatore spirituale: direzione.
Anche questa è una parola su cui vale la pena interrogarci a proposito di sogni e scomodità.
Direzione è una parola bellissima perché coincide con l’indicare una strada chiara. Direzione coincide con l’orientamento e direzione coincide con un segnale, inequivocabile, che indica un punto di arrivo.
Silvia Luraschi anni fa ha scritto un testo molto bello sulla sacralità del disorientamento.
La sacralità del disorientamento: è il contrario della direzione, è apologia, persino, della perdita di direzione! In che modo io in un compito di guida, in un compito di consulenza, posso occuparmi, prendermi cura, di questo sacro disorientamento?
Il rischio che ci appartiene è quello di scambiare la direzione con la direttività, la direzione con l’indicazione chiara della strada, la direzione spirituale con la sottrazione alla vertigine, al pericolo, al fiato corto che il groviglio comporta.
Una relazione che assume la forma direttiva ha il rischio e la tentazione di essere sovente smascherata da una volontà di guida accogliente, là dove la direttività coincide con l’atteggiamento presuntuoso di indicare la strada. Presuntuoso senza sapere di esserlo, perché in realtà il nostro desiderio qual è? Qual è il nostro sogno?
Il nostro sogno comodo. Il nostro sogno comodo è salvare la persona che ci viene affidata e proteggerla: «E se no io qua che ci sto a fare?».
E così mi nutro dell’altro senza saperlo. Perché mi sto nutrendo del mio indicargli la strada, del mio salvarlo, e direttività allora è una forma che nell’accompagnamento può – persino con modi dolcissimi – diventare violenta. E allora occorre interrogarci – in questo nostro impegnativo esercizio in merito alla danza tra sogni e scomodità – sul nostro bisogno di potere. Il potere in una relazione, e in tutte le relazioni, è una seduzione sconvolgente, ancora più possente nella misura in cui si maschera dal suo contrario. Pensate a quante volte assume la forma del servizio.
Don Tonino ha scritto abbondantemente a proposito di potere, non soltanto rispetto a chi politicamente e civilmente abusa della sua posizione, ma anche rispetto a chi, all’interno delle relazioni, ha una forma di potere. Mascherata, appunto, sovente da questa parola per noi ammaliante che è aiuto. Molti di voi conoscono certamente Maria Montessori e qualcuno di voi sa già che nelle scuole montessiorane entrando c’è scritto: «Aiutami a fare da solo». I bambini nelle scuole montessoriane sono spinti all’autonomia di scelta e di azione, sebbene questo possa apparire talvolta assolutamente contro-intuitivo, perché stiamo parlando di un bambino piccolo che può farsi male, che può farsi male assolutamente: sì, là dove allora l’obiettivo di una relazione profondamente educativa non è evitare che l’altro si faccia male. Quello è desiderio che appartiene a una forma di maternage fagocitante, in cui io mi considero l’utero che deve contenere e mi dimentico che l’utero mica contiene soltanto: spinge pure via.
E allora appartiene a una relazione educativa generativa il tenere insieme la forma della protezione e la forma della spinta, là dove però la parola spinta ha una peculiare forma: coincide con uno particolare slancio al cospetto del nodo, del groviglio, della turbolenza.
Una spinta generativa evoca e suscita creatività.

3. Creativi, creatori, creanti
La creatività non è la sorella scema della ragione, ma è forma costitutiva della nostra capacità cognitiva razionale, non è alternativa alla ragione, ma sua corroborazione.
Il groviglio chiede di essere guardato. Come lo guardo?
Se lo guardo solo con logica razionale, saprò compiere un’ottima analisi, ma il groviglio resterà quello che mi sembra: intralcio, fermata, perdita. Non basta l’analisi per la direzione. Non basta l’analisi per trasformare la vita in apprendimento. Mi occorre ragione creativa in grado di cogliere simbolicamente ed esteticamente la complessità della turbolenza, del turbamento.
Ovvero?
Esistono parole che sono le parole con cui ognuno di noi si racconta da sempre.
Provate a fare un’osservazione molto semplice: talvolta un interlocutore ci stupisce perché usa un vocabolo che noi non avremmo mai utilizzato, racconta un episodio simile ad uno che è accaduto nella nostra vita, ma con un lessico diverso. Ognuno di noi ha un suo vocabolario prediletto che è quello che tende a replicare; alcuni di noi, per esempio, si scelgono gli amici tra quelli che hanno lo stesso lessico, altri si cercano amici e consulenti tra quelli che hanno un lessico completamente diverso dal proprio. La prima scelta è molto comoda ma, come gli studiosi dell’apprendimento in età adulta ci hanno insegnato, a livelli di comodità alti corrispondono bassi livelli di apprendimento.
A livelli alti di scomodità corrispondono, altresì, alti livelli di apprendimento.
Ragioniamo allora intorno alle parole che di solito usiamo per raccontare la nostra confusione, i nostri grovigli, la nostra autobiografia: e proviamo ad individuare quali sono le parole costanti che tornano nel nostro narrare. Le ricorrenze, per utilizzare un’espressione cara anche alla statistica.
Ebbene: la narrazione in sé non è cura.
Se voi mi dite: «Guarda, Chiara, c’è questa pratica fantastica che è la pratica autobiografica; esercitati perché ti farà un gran bene scrivere» ed io che faccio?
Produco 500 pagine in cui racconto sempre la stessa storia, in cui potenzio il mio punto di osservazione che si ossida, si cristallizza, si fossilizza. Perché io mi racconto la storia sempre e soltanto con una modalità di analisi, una prospettiva di visione, una possibilità di lettura.
Così la narrazione non produce apprendimento, ma unicamente potenzia la mia rigidità cognitiva, che è la fissità sul proprio punto stabile di osservazione, la replica infinita sempre delle stesse immutate parole per darsi ragione.
Creatività coincide invece con la plasticità cerebrale, che è la nostra competenza a cambiare punto di osservazione, a mutare le parole con cui ci raccontiamo.
Concretamente che cosa vuol dire questo?
Proviamo a fare l’esercizio difficilissimo del pensiero ipotetico che dovrebbe appartenerci in quanto creature razionali. Abbiamo imparato da Piaget che si sviluppa con l’adolescenza e quindi dovrebbe essere una prerogativa dell’età adulta questo pensiero per ipotesi. Che cos’è il pensiero per ipotesi? È il pensiero che si interroga, formula domande –, mentre invece il nostro cervello da adulto tende a cercare ordine e a smettere di farsi domande. È pensiero che esplora il groviglio e, sì, dopo averlo rifiutato, lo guarda: gli gira in-torno e si chiede cos’altro può significare, oltre che una deviazione, una frattura, una caduta. Guarda intorno. Guarda analiticamente e simbolicamente.
Ricordate quando, a partire da una novella di Dickens, la Disney ha realizzato la storia di Mr Scrooge, che è Paperon de Paperoni, e che è cattivissimo, avarissimo e tratta malissimo Topolino e la sua famiglia? Accade in quella storia che il protagonista, sognando, venga visitato da tre fantasmi: il fantasma del passato, quello del presente e quello del futuro. Sogni decisamente scomodissimi.
Che cosa accade in questa storia? I fantasmi del passato prendono Mr Scrooge-Paperone e lo conducono a guardarsi, a guardarsi da fuori. Questo guardarsi da fuori è un processo straordinario che si chiama meta-cognizione.
Si alza il sipario su me stesso: è un punto evoluto del pensiero umano, un punto per molti sempre più raro. Scomodo. Anche per me: quando io vi racconto di una mia vicenda autobiografica, per esempio vi parlo di mia mamma e di mio papà, voi mi prendete sul serio, ma la cosa ancora più grave è che io stessa mi prendo sul serio.
Mentre non dovrei, giacché io non sto raccontando mio padre e mia madre: io sto raccontando la mia versione di mio padre e mia madre che non è reale, bensì mediata dalla mia visione e narrazione; ovvero dalla mia rappresentazione del reale. Non lo faccio solo io e non è sintomo di patologia: ogni cervello umano costruisce e ricostruisce la realtà.
E se però venisse il mio fantasma del passato, cosa accadrebbe?
Condotta a guardarmi fuori da me, questo salto mi aiuterebbe a guardare la scena, il mio groviglio, da un punto di osservazione diverso da quello con cui io lo guardo di solito: non solo dal punto di osservazione di Chiara piccola che guarda mamma papà o un evento da dove era lì posizionata, ma anche da un altro punto di vista, da un altro punto di osservazione in cui io comincio a considerare la legittimità anche dei pensieri e dei vissuti dell’altro e degli altri in questa scena. E da lì soltanto imparo parole nuove.
E questa è creatività. Questa è metariflessività. Uno dei nomi epistemologici della libertà.
Poi accade in quella storia che arriva il fantasma del presente e Mr Scrooge scorge dei pezzi di reale che non aveva assolutamente visto, come ognuno di noi dentro al suo groviglio, ma anche in tempo di pace: il tempo di ordine non accede alla complessità della situazione biografica che sta vivendo.
E poi arriva il fantasma del futuro che per noi rappresenta l’elemento chiave della progettazione di vita: arriva per ultimo, quando, consapevolmente guardato chi sono stato e chi sono, posso assumermi la responsabilità di vedere chi posso essere, chi voglio essere.
L’elemento interessante in questa scena fantastica – che è cara a molti neuroscienziati – è che il dato di realtà è proposto proprio come un sogno: un sogno scomodo. Scomodo e scomodante, attraverso il quale sono aiutato a smuovere e persino ribaltare il mio punto di osservazione: e dunque a sviluppare il pensiero ipotetico se la relazione che mi genera nella guida, nell’accompagnamento spirituale, è una relazione in cui io non ricevo risposte-indicazioni-strade, ma prospettive-possibilità-domande. Ed esploro nuove narrazioni, nuove visioni.
Mezirow ha scritto pagine preziose intorno a quello che lui chiama “dilemma disorientante” e che è il nostro groviglio, scomodità sconvolgente che ci mette autenticamente al cospetto della costruzione della nostra identità e del nostro progetto di vita.
Il groviglio è la nostra preziosa possibilità di muovere da apprendimenti strumentali – quelli che modificano solo i comportamenti – ad apprendimenti trasformativi – ovvero apprendimenti attraverso i quali mutiamo totalmente forma –: ci trasfigurano e, passati attraverso il disordine, non cerchiamo più l’ordine di prima. Ma un ordine nuovo, generato dal groviglio, passato attraverso la scomodità del sogno infranto, del fallimento del mio io frantumato, di un sogno che era solo illusione di potere.

4. Pericolo e grazia
Guardiamoli i nostri grovigli. Nella loro robusta scomodità si cela ogni nostra possibilità di accompagnamento spirituale generativo. Osserviamo tutti i rivoli possibili che possiamo prendere dentro questo groviglio.
Cosa vedo? Cosa non vedo?
Ed è in questo creativo/creatore guardarmi che accade che i rischiaramenti paradossalmente giungano proprio nell’ora in cui smetto di cacciare via i chiaroscuri: appartiene alla nostra umanità che tutto quello che vogliamo non vedere diventa più forte, proprio perché vuole essere visto. Quando io ti vedo, e ti chiamo per nome, mio groviglio, mio errore, tu ti stemperi e io riesco a vedere pezzi di realtà, parti di me, che altrimenti non vedrei.
E così il groviglio, il nodo, il disordine scomodo che la vita mi porge, sono esattamente il luogo preciso del migliore degli apprendimenti possibili, giacché il nostro Dio non è una assicurazione della vita: «Guarda, Signore, io ti seguo perché tu non mi farai morire!». E lui che fa? È un Dio eccezionale: ti fa morire.
Perché? Perché non sta nella mia logica, la fede è consolazione ma non rassicurazione, la sua logica è esattamente il contrario del mio sogno/bisogno di comodità e di un Dio accomodante: mi sgroviglia sì, e lascia pure che costantemente io mi aggrovigli.
Perché?
Perché scomodi grovigli, come sogni possibili, mi consegnano alla mia umanità. E se non li avessi, io starei al cospetto della persona che devo accompagnare come portatrice di una luce che illumina me stesso e basta e che fa sentire l’altro non ascoltato – e non visto – in un punto di umanità comune: il groviglio che sei, che sono, che siamo. Non saprei vedere da un punto fuori di me, saprei vedere solo quello che coincide con me.
Possiamo provare, allora, a tenere infine insieme sogni e scomodità dentro un’altra dimensione cruciale per chi si occupa di cura ed accompagnamento vocazionale: la misericordia.
Che cos’è la misericordia se non scomodo, scomodissimo decentramento?
La misericordia è una postura epistemologica dell’io che si riconosce non al centro, ma in periferia e riconosce tutti gli io come io in periferia, ed è in grado intellettualmente ed emotivamente di considerare ogni narrazione come una possibile e quindi di stare al cospetto di sé e dell’altro dentro questa dimensione antropologica, psicologica e filosofica che è la dimensione della possibilità. E che è l’incarnazione, già qui, già adesso, della dimensione della Risurrezione.
Ovvero? Lascio andare la seduzione della dialettica successo/fallimento, lascio andare il mio bisogno di comodità, il mio sogno di accompagnare come illuminare.
La complessità della vita somiglia a Dio, la vita è complessa perché somiglia a Dio non a me, che sono una creatura che ha la tendenza a stare nel bianco o nero, che è la forma d’ordine che io mi voglio dare e che svela l’elemento di potere che appartiene al mio sogno/bisogno di consigliare/salvare dimenticando che è la Grazia che arriva a trasfigurare ogni groviglio.
Già.
E se non arriva?
Apparentemente non arriva decine di volte.
Ma evidentemente perché non sono io Dio, non sono io il legislatore, l’ordinatore, lo scioglitore di nodi. E così, nel tumulto, è così che deve andare in questo momento e la preghiera più difficile è chiedere a Dio di accogliere quello che non capisco, di accogliere quello rispetto a cui io non so dare aiuto, quello rispetto a cui non so dare consiglio, quello rispetto a cui non ho alcun potere, fiduciosa che quel che sta avvenendo è dentro una logica che mi sovrasta e che non devo per forza afferrare. Anche questo è decentramento.
Misericordia. E posso chiedere a Dio la stessa grazia che apparteneva a don Tonino: stare nel pericolo, del mio scomodo, del mio fallimento, del mio sogno che scopro essere il mio io bambino che conosce poche parole soltanto.

Riguardo, adesso, il mio groviglio.
Povero, benedetto, sacro.
Scomodo.
Pericoloso! Oh mamma mia, sì, pericoloso.

E lo guardo.
E cosa vedo che prima non vedevo?

Pericolo e grazia sono due parole che coesistono nella forma del mondo,
nella forma della vita… e nella forma della autobiografia di Gesù.
Poeticamente così tradotti da Holderin:
Là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva. 

(Che meraviglia, mio Signore dei grovigli,
che mi hai fatto come un groviglio.
Rendi tutti i miei sogni scomodi, oh Signore scomodante.

Nel groviglio, mio Dio,
io mi vedo, ti vedo.

Non sgrovigliarmi, Signore.

In questi intrecci ogni mio esercizio
di concretezza possibile).

* Il testo riporta un estratto della relazione tenuta al Seminario. L’Autrice ringrazia profondamente suor Anna De Giorgio, della Comunità “Santa Gianna Beretta Molla” di Tuglie, per il paziente e meticoloso lavoro di trascrizione.