N.04
Luglio/agosto 2017

I “sassolini” di don Tonino

I mmagino che la figura di don Tonino non sia sconosciuta e che tratti della sua esperienza di sacerdote e vescovo, echi del suo impegno per la pace e per i poveri, espressioni ormai note dei suoi testi, risuonino dentro di voi. Mi auguro riecheggino come certezza che nella Chiesa sia possibile mettere in atto la radicalità del Vangelo che è annuncio del buono e del bello di cui ognuno può essere protagonista in quanto creatura a immagine del creatore.
Guardare a don Tonino significa cogliere la dimensione della possibilità come occasione, opportunità, facoltà data ad ognuno di fare qualcosa. Se l’essere chiamati a una scelta di vita, qualsiasi essa sia, è la via perché ciascuno realizzi la sua storia pienamente, la possibilità è la dimensione che rende ogni scelta vocazionale una dimensione attiva e attivante. La possibilità che abbiamo per essere pienamente noi stessi.
Di don Tonino l’immagine tra le tante che è fissa è quella di un pastore che coglieva la dimensione del possibile. Non so se sia corretto, ma penso che la vocazione sia non tanto rispondere a una chiamata, quanto invece la scoperta della dimensione attraverso la quale ciascuno di noi realizza la sua assoluta autenticità e irriperibilità.
E questa è una dimensione attivante non data una volta per tutte. Non basta rispondere: «Ci sono», ma interrogarsi su come es sere. Una dimensione che accetta di essere costantemente stimolata dagli eventi che non avverte come minaccia, ma come adventum: ciò che deve avvenire ancora e che può avvenire nella misura in cui generiamo il movimento con la nostra risposta a fare la nostra parte.
Ho scelto alcuni passaggi degli scritti e della storia di don Tonino e li offro sapendo il ruolo che avete nell’accompagnare le vite di ognuno nella scoperta del proprio progetto unico. Credo che nella misura in cui coglieremo la risposta di don Tonino alla sua vocazione, cioè nella maniera in cui, interrogandosi, ha scelto di vivere la sua vocazione di uomo, sacerdote e pastore, potremo “rubargli” strumenti per rendere possibile la chiamata all’autenticità di ognuno di noi e degli altri.
Vorrei darvi dei sassi, che, come scrupoli, possiate mettervi dentro e portarli con voi.
Lo scrupolo era un piccolo sasso, simile a un sassolino pungente.
Una persona scrupolosa è una persona che agisce con scrupolo, con vivo senso di responsabilità e di precisione: scrupoloso lo si dice anche di una cosa che è fatta con estrema precisione e diligenza; minuziosa, meticolosa.
I sassi sono allora come domande aperte e anche scomode da farci lungo il percorso di vita che scegliamo.
Il primo sassolino è proprio quello di camminare con lo scrupolo come compagno intimo e segreto, con la domanda costante di quanta scrupolosità io stia mettendo nel fare la mia parte.
Il secondo sassolino è quello che ci ricorda che siamo luce. Non intesa come l’essere lanterna che illumina la strada, o l’essere luce per gli altri, ma come compimento di ciò che noi siamo.
In un testo don Tonino scrive: «Ognuno di voi è una parola del vocabolario di Dio che non si ripete più. E non abbiate la preoccupazione che non ci sia la passerella per voi, che la storia non vi offra un proscenio, che non vi dia la copertina patinata, che non vi dia il video come schermo delle vostre esibizioni: non vi preoccupate di questo. Non è questo il senso. Voi non avete il compito nella vita di fare scintille, ma di fare luce. Io vi voglio augurare che non abbiate a perdere la dimensione della quotidianità e del sogno. Scavate sotto il vostro tettuccio e troverete il tesoro. Non siete inutili. Siete irripetibili».
Lo scrupolo della luce è appunto quello di avere la consapevolezza che posso rendere unica la mia storia anche nella sua dimensione di fragilità e debolezza. E aiutare gli altri a ricercare la loro luce.
C’è un testo di don Tonino che ci offre numerosi sassi.
È La lampara, la preghiera dell’addio alla sua terra di origine e del viaggio verso un altro mare, quello di Molfetta, che lo aspetta come vescovo. È una preghiera notturna sul porto di Tricase.
Un piccolo molo dove don Tonino resta solo. Il silenzio intorno che favorisce il silenzio dentro. Una dimensione di ascolto che caratterizza la vita di don Tonino. Non c’è testo e non c’è azione, impresa, che in lui non abbia una notte di silenzio e solitudine. Ecco il sasso che ci dice lo scrupolo del silenzio come dimensione intima.
Il silenzio nella sua dimensione non di chiusura, ma di apertura all’ascolto più intimo per recuperare le altezze che solo le profondità possono consentirci. La dimensione del silenzio è un esercizio per imparare a guardare oltre. Un esercizio al quale ci sottraiamo spesso e consentiamo che si sottraggano anche gli altri. Forse per questo viviamo un tempo di sogni già consumati nel loro nascere, perché non hanno basi, ma solo altezze che durano il tempo di una stagione. Il molo di Tricase ci consegna una delle più intense preghiere di don Tonino.
«E qui, dietro il muraglione del porto, in questo crepuscolo domenicale, non siamo rimasti che io e te, o Signore… Tricase è alle mie spalle. Davanti solo il mare: un mare senza vele e senza sogni…».
Ci sono delle cose che don Tonino chiede al Padre nella notte in cui il mare è appunto “senza vele e senza sogni”: «Da’ a questi miei amici e fratelli la forza di osare di più. La capacità di inventarsi. La gioia di prendere il largo. Il fremito di speranze nuove, la volontà decisa di rompere gli ormeggi… stimola in tutti soprattutto nei più giovani una creatività più fresca, una fantasia più liberante e la gioia turbinosa dell’iniziativa che li ponga al riparo da ogni prostituzione».
Richieste che sono degli auguri che potrebbero sembrare di circostanza se non fossero seguite dalla fotografia impietosa che don Tonino traccia della comunità che lascia: «Ci sono i poveri, i malati, i vecchi, gli esclusi, c’è chi ha fame e non ha pane ma c’è anche chi ha il pane ma non ha fame, ci sono gli sfrattati, le prostitute, chi è stanco e solo, chi ha ammainato le vele, chi nasconde sotto il coperchio di un sorriso ci sterne di dolore, chi pensa che un solo gesto di carità serva a sanare tante sofferenze».
Da questo passaggio, che è fotografia della realtà, cogliamo un altro sasso, quello che ci chiede con quanto scrupolo conosciamo la realtà e la situazione in cui siamo (altrimenti la vocazione è fuga dalla realtà). Non è solo una immagine poetica «chi nasconde sotto il coperchio di un sorriso cisterne di dolore»: è una metafora vera che empatizza e sintonizza, che dice di una sensibilità che coglie la prossimità con delicatezza. Che non vede la fotografia per giudicarla, ma per cogliere le sfumature, il fermo immagine che mette insieme tutti i particolari.
Lo scrupolo del realismo non come pratica di cinismo, ma come conoscenza del reale.
C’è poi il sasso della nostalgia del futuro. È il sasso che ci muove e non ci fa stare fermi, qualunque sia la condizione della nostra vita, qualunque sia la nostra luce. Se guardiamo all’esperienza ultima della vita di don Tonino, quella accompagnata anche nella carne dalla certezza della fine, c’è sempre un pieno di futuro che promana dai suoi testi, dalle sue parole: «Vi benedico da un altare scomodo, ma carico di grazia. Vi benedico da un altare coperto da penombre, ma carico di luce. Vi benedico da un altare circondato da silenzi, ma risonante di voci».
È la benedizione che don Tonino pronunciò con un filo di voce il suo ultimo giovedì santo, quando su una lettiga scese dalla sua stanza per celebrare la liturgia degli olii.
Nella preghiera La lampara, in una notte dove il mare è senza vele e senza sogni, basta la luce di una lampara vista in lontananza a dare slancio e far dire: «Ora basta. È già scesa la notte, ma laggiù sul mare, ancora senza vele e senza sogni, si è accesa una lampara».
Il sasso è quello che ci interroga su quale postura abbiamo e che cogliamo in quel dire “basta”. La postura non del ripiegamento e del dubbio come pratica costante e unica, ma quella dell’affidarsi al barlume di una luce che si coglie da lontano per intraprendere il viaggio. Rompere gli ormeggi che ci fanno stare in acqua, ma ben ancorati alla terraferma. Siamo spesso in questa nostra dimensione di ambivalenza. Timorosi di osare. Che è un segno di invecchia- mento. La postura della giovinezza che guarda anche con sfrontatezza.
La postura di chi è audace.
Il sasso della postura è quello che ci dice il termometro della nostra audacia, della nostra dismissione dai sogni.
Ma come facciamo a coltivare con costanza la dimensione del sogno? Credo che questa sia una domanda che ci facciamo con il passare degli anni e della stanchezza che ci prende e talvolta vince.
Facendo vuoto di potere e riempendolo di azioni e scelte potenti, che possono cioè generare comunità. Mi spiego. C’è, soprattutto nella Chiesa, come in ogni struttura che declina una modalità di convivenza, un immaginare se stessa per conservazione e riproducibilità di ruoli e azioni. La certezza dell’esistente diventa talvolta l’unica e la sola condizione per autodeterminarsi.
C’è un testo che si intitola Vuoto di potere1, che suggerisco di leggere.
Don Tonino invita a fare il vuoto di potere per generare il servizio. Cambiare i simboli. Oltre la mitra, il pastorale e l’anello, anche il catino, la brocca e l’asciugatoio che nella Chiesa sono simboli antichi… precedenti ai tre simboli più noti. Don Tonino non sprigiona il sogno inventando, ma andando alle radici e ridando ai simboli il loro valore di senso. I sognatori non sono rivoluzionari a prescindere.
Sono capaci di andare ai bisogni profondi e anche inespressi di una comunità e di connetterli alle azioni necessarie nel qui e ora. Il bisogno delle nostre comunità non era quello di avere un vescovo che esercitasse il suo mandato con il solo l’anello (simbolo di fedeltà), ma che indossasse il grembiule nella ferialità di ogni giorno. L’aver reso quel rito occasionale pratica quotidiana del suo mandato ha fatto di don Tonino un profeta, un sognatore di sogni diurni, e poiché «i poveri sono sempre e saranno sempre con noi» (cf Gv 12,8), le ferite nelle quali incarnare parole e gesti di speranza non sono occasionali o marginali, ma sono strutturali. Il vuoto che i simboli del potere hanno generato nelle comunità ancorate a riti svuotati di senso ha bisogno di nuovi simboli che dicono pratiche di comunità vive.
Credo che uno dei nodi di questo tempo sia non solo il valore, ma soprattutto il significato che diamo alla parola “potere” nel momento in cui realizziamo le scelte della nostra vita e della nostra chiamata. Potere come verbo, poter fare, o come sostantivo: il potere.
Il sasso che ci riporta allo scrupolo del nostro rapporto con il proprio potere, cioè con la propria responsabilità all’interno della comunità è un sasso necessario.
C’è infine un ultimo sasso quello che ci rammenta il nostro rapporto tra obbedienza e libertà. Il testo che vi suggerisco è La coscienza e il potere2.
L’interrogativo di quel libro è come essere all’interno di una struttura alla quale si deve obbedienza, nella consapevolezza che disobbedire è necessario per evitare l’asfissia della struttura stessa e garantire il rispetto degli altri. Don Tonino parla di «paletti catastali che recingono la zona che è di proprietà comune per tutta l’umanità. L’intangibilità della vita umana, la valorizzazione dell’altro, l’accoglimento dell’altro, il perdono… le cose assurde di cui ci parla il Vangelo». Su questo non bisogna concedersi sconti e a chi ne chiede non farli.
Lo scrupolo del disturbo da avvertire costantemente. «Lo scopo di un vescovo che fa parte di una struttura è di non lasciarsi schiacciare dalla struttura, che è effimera; anche la Chiesa è effimera, è precaria. Non deve predicare se stessa… deve essere un indice puntato non verso il proprio petto, ma verso il Regno, verso il futuro».
Guardare le strutture in questo senso significa accettare che il movimento è la dimensione della vita…
E forse c’è un sasso ultimo da portarci dentro: è il sasso don Tonino. Presenza e testimonianza scomoda perché vera, autentica nel compimento della sua vocazione. Io vi auguro di sentirlo un po’ come lo abbiamo sentito noi che lo abbiamo conosciuto: il pungolo costante al nostro torpore, la chiave che metteva in moto le potenzialità di ognuno, la carezza che non si limita a consolare, ma accompagnare, sostenendo la possibilità che ognuna ha ed è di essere luce.

NOTE
1 A. Bello, Vuoto di potere, in Sud a caro prezzo. Il Cambiamento come sfida, La Meridiana, Molfetta 2007.
2 Id., La coscienza e il potere. Conversazione con Nicola Magrone, Guglielmo Minervini e Clara Zagaria, La Meridiana, Molfetta 2013.