N.05
Settembre/Ottobre 2017

«Io vi ho dato l’esempio» (Gv 13)

La narrazione dell’atto con cui Gesù lava i piedi ai discepoli, la cosiddetta “lavanda dei piedi”, prende il posto, nel quarto Vangelo, del racconto dell’istituzione eucaristica presente nei sinottici. Le parole «vi ho dato un esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15) si sostituiscono al «fate questo in memoria di me» (Lc 22,19), che invita a ripetere il gesto del pane spezzato e condiviso e del vino versato e bevuto da tutti. Il senso dell’Eucaristia, gesto di Gesù che, quale Servo del Signore, si dispone a dare la vita per le moltitudini (Mc 10,45; 14,24; Mt 26,28; Lc 22,20) e significa questa donazione spezzando il pane e versando il vino nel pasto comunionale, viene vissuto esistenzialmente e dunque inverato, quando diventa prassi di concreto servizio fraterno esemplato sull’atto di lavare i piedi che Gesù compie. Il servizio cultuale e liturgico (il rito eucaristico) trova la sua verità nel servirsi gli uni gli altri nella comunità cristiana. Il servizio al Dio che non si vede è autenticato dal servizio al fratello e alla sorella che invece vediamo (cf 1Gv 4,20: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede»). Potremmo dire che «il servizio fraterno all’interno della comunità è in certo qual modo la res del sacramento»1.
Tuttavia, al centro dell’annuncio biblico e della prassi di Gesù non vi è il “servizio”, ma l’“essere servi”. Distinzione importante per non cadere in una esteriorità del servire come “fare cose buone per gli altri” dimenticando la qualità personale di chi serve. Ovvero: si possono fare molti buoni servizi nella Chiesa senza avere alcuna santità. Il discorso sul servire riguarda dunque anzitutto la conversione del cuore: siamo chiamati a diventare servi sulle tracce di Gesù. La Prima Lettera di Pietro così si esprime ricordando che il servizio vissuto da Gesù ha dato forma al suo vivere e l’ha condotto alla morte: «Cristo patì per voi lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme» (1Pt 2,21).

2. Gesù, il Servo
La lavanda dei piedi non dice l’umiltà di Gesù, ma è un gesto di rivelazione. Ai discepoli che lo chiamano «Maestro e Signore» (Gv 13,13) Gesù obietta che lui ha lavato loro i piedi in quanto «Signore e Maestro» (Gv 13,14), cioè in quanto Kýrios, rivelatore dell’agire di Dio stesso, il Signore. È il Signore, il Kýrios, che compie l’atto del Servo, dell’’eved. È il Servo che rivela il Signore. Ma quali elementi compongono la fisionomia del Servo?
Anzitutto la consapevolezza. Giovanni sottolinea che Gesù ha piena coscienza del momento che sta vivendo («Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre… sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani»: Gv 13,1.3) e di viverlo in obbedienza al Padre. Il gesto che Gesù compie non è casuale o estemporaneo, ma risponde a una coscienza precisa, a un’intenzione, a una decisione. Questa consapevolezza è anche lucidità e coscienza di fede: il gesto che Gesù sta per compiere nasce da questa coscienza di fede profonda, che dà forma alle decisioni che Gesù prende.
Questo gesto coinvolge la sua volontà. L’essere servo non è per lui una condizione subita o un fato, ma una scelta volontaria. E “volere” significa obbedire e sottomettersi a ciò che si vuole per perseguirlo. Colui che vuole è al tempo stesso colui che comanda e colui che obbedisce. Inoltre la volontà è anche ciò che consente di dare una durata al servire, anzi, fa coincidere il servire con la vita stessa, fino alla morte. Dicendo che il gesto di lavare i piedi ai discepoli equivale all’amarli fino «alla fine» (Gv 13,1), l’evangelista indica che il servire di Gesù si estende fino alla morte di croce, quando Gesù depone la vita, non solo le vesti. E anche qui vediamo la differenza tra essere servi e fare dei servizi: l’essere servi riguarda l’intera esistenza del credente, non può essere relegato nello spazio di un’esperienza o di una stagione della vita o ridotto ad azione filantropica e assistenziale. Essere servi (di Cristo, di Dio, dei fratelli) coincide con la vocazione cristiana stessa.
L’essere servo di Gesù dà forma concreta al suo amare, narra l’amore di Dio stesso e manifesta la modalità dell’amore che deve regnare nella comunità dei discepoli. Non a caso, dopo aver invitato i discepoli a lavarsi i piedi gli uni gli altri come lui ha fatto a loro, li esorta ad amarsi reciprocamente come lui li ha amati: «Come io ho amato voi, così anche voi amatevi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
Consapevolezza, volontà e amore dicono che la qualità di servo è anche segnata da libertà e obbedienza. Il che significa che il servo è reso tale dall’ascolto. L’ascolto è consapevole atto di libertà che, attraverso l’obbedienza, mi lega alla volontà di colui che ascolto. Ed è anche parte costitutiva e imprescindibile dell’amare. Gesù, quale Servo del Signore, ha interiorizzato con l’ascolto obbediente la volontà di Dio, l’ha resa propria e la compie. Nel primo Testamento l’alleanza, con cui il popolo sceglie di essere servo del Signore, è l’atto di libera accettazione della volontà di Dio attraverso l’ascolto obbediente (Gs 24,24: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e ascolteremo la sua voce»; 1Sam 3,9: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta»). Il Servo del Signore di cui parla Isaia è colui a cui il Signore «ogni mattina rende attento l’orecchio perché ascolti come i discepoli» (Is 50,4); Maria è la serva del Signore perché si rimette interamente alla potenza della parola del Signore («Ecco la serva del Signore: avvenga di me secondo la tua parola»: Lc 1,38). L’ascolto è lo scavo in se stessi di uno spazio per l’altro, per la parola, la volontà, la presenza dell’altro, così che l’altro vive in noi e il nostro vivere ne manifesta la presenza. Libertà e responsabilità si fondono intimamente nell’atto del servire, o meglio, nella persona del Servo, cioè dell’Obbediente.

3. Lo scandalo del servire
Il gesto con cui Gesù lava i piedi ai discepoli non suscita né comprensione né approvazione né elogio, ma scandalo. La reazione scandalizzata di Pietro, espressa prima con una domanda di stupore esterrefatto («Signore, tu lavi i piedi a me?»: Gv 13,6), poi con un rifiuto secco, gridato («Non mi laverai mai i piedi»: Gv 13,8), è eloquente di una dimensione del servire che noi abbiamo smarrito. Tra di noi oggi la parola e la realtà del servire incontrano approvazione universale, ma allora bisogna interrogarsi se siamo ancora fedeli allo scandalo del servizio evangelico. Che, del resto, è in piena continuità con lo scandalo della rivelazione cristiana, della croce salvifica, dell’amare i nemici, dello sperare l’insperabile, del credere l’incredibile. La reificazione del servire con la sua riduzione ai “servizi” nella Chiesa provoca la sua edulcorazione e il suo addomesticamento, la perdita della sua dimensione evangelica costitutiva. Anche il servire cristiano è scandalo e follia (cf 1Cor 1,23). Gesù, signore e maestro, si fa schiavo, compie i gesti dello schiavo operando quell’inversione di status2 che, comprensibilmente, sconcerta Pietro. Gesù attua un capovolgimento radicale di posizione e ruolo per cui da capo del gruppo, da maestro dei discepoli, si veste dei panni dello schiavo e ne compie la gestualità. Si rende “inferiore” nei confronti di coloro di cui era “superiore” e il suo gesto esprime narrativamente le parole riportate dal terzo evangelista: «Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse chi sta a tavola? Ora, io sto in mezzo a voi come chi serve» (Lc 22,27). Ma appunto, che ne consegue, per coloro in mezzo a cui sta per servirli a tavola o a cui lava i piedi?
L’inversione di status del Signore e Maestro ha il fine di indicare la via da percorrere ai seguaci e discepoli. Gesù sta compiendo un gesto profetico circa l’esercizio dell’autorità nella comunità cristiana ribaltando i ruoli consolidati e intaccabili del superiore verso i sottoposti e del maestro verso i discepoli. Accettare lo scandalo del Signore che si fa schiavo e del maestro che si abbassa di fronte al discepolo è condizione per la comunione con Gesù: «Se non ti laverò non avrai parte con me» (Gv 13,8). La finalità del discepolato, cioè divenire come il maestro, o almeno sempre più simile al maestro, può essere ottenuta solo se il discepolo segue il signore e maestro nel suo farsi schiavo. È come se Gesù dicesse: «Potete divenire discepoli di me, vostro Maestro, se vi fate servi gli uni degli altri come io, il Signore, mi sono fatto vostro servo».
Qui va colta la dimensione trasgressiva e di denuncia del gesto di Gesù. Si tratta di una dimensione critica che il servire cristiano deve custodire o ritrovare se l’ha smarrita. Accettando di farsi schiavo, di mostrarsi pubblicamente inferiore, di piegare il proprio corpo nella postura dello schiavo e di farlo davanti alla comunità che lo riconosce Signore e Maestro, Gesù opera una critica nei confronti di chi detiene il potere e in questa posizione di potere si identifica fino a non abbandonarla mai e a non sentire mai ciò che prova il sottomesso: Gesù entra invece nella posizione del minore, dell’inferiore, del servo, prova ciò che prova lo schiavo nel compiere il gesto umiliante del lavare i piedi al padrone. Gesto che «connota uno status di inferiorità nella gerarchia sociale o religiosa: è impensabile che una persona di rango possa abbassarsi a lavare i piedi dei suoi ospiti, o addirittura dei propri servi!»3.
La lavanda dei piedi si presenta pertanto come modello ispirante di un servire cristiano che sia capace di coraggiosa critica sociale vissuta e pagata in prima persona, così come l’Eucaristia è portatrice di una valenza politica alternativa al modello di esercizio dell’autorità mondano: «I re delle nazioni le governano e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve» (Lc 22,25-26).
Un aspetto saliente della dimensione scandalosa del gesto di Gesù consiste nel fatto che Gesù compie il suo “servizio” anche nei confronti di Giuda, colui a cui «il diavolo aveva già messo in cuore di tradirlo» (Gv 13,1). E Gesù era ben consapevole di tale intenzione di Giuda: «Gesù fu profondamente turbato e dichiarò: “In verità io vi dico: Uno di voi mi tradirà”» (Gv 13,21). La libera decisione di servire i discepoli porta Gesù a superare le emozioni di turbamento profondo che pure lo abitano e mostra che il servire è un cammino da perseguire con determinazione e abnegazione fino alla fine. Su cosa regge tale determinazione? Sui due pilastri dell’amore per i fratelli e dell’obbedienza a Dio. Potremmo dire: sul duplice fondamento dell’amore per Dio e per gli uomini. E, certamente, sulla povertà in spirito, sullo spogliamento di sé, sulla coscienza di non aver un “io” da proteggere e un ruolo da difendere. La forza del servire è in questo disarmo che rende miti e dona grande libertà. Fino a rendere capaci di amare anche il nemico (cf Lc 6,27).
La dimensione critica della lavanda dei piedi si accompagna però anche alla sua funzione positiva di costruzione di un modello di comportamento fraterno e di comunità.

4. Una comunità “serva”
Il gesto di Gesù avviene non all’inizio del pasto, dove solitamente era collocato come gesto di accoglienza e di ospitalità domestica per segnare il passaggio dal fuori al dentro e per andare incontro immediatamente al bisogno di pulire piedi impolverati e ristorare piedi stanchi. Avvenendo in mezzo al pasto, esso giunge inatteso e non può non attirare l’attenzione: non si tratta più del gesto ormai abituale di ospitalità, ma di altro. Il gesto si carica di un significato inusuale e diviene simbolo di un modello comportamentale inedito. Nel corso della cena, quando la coesione del gruppo dei commensali è già stabilita e cementata, con la lavanda dei piedi Gesù indica che quella comunione potrà essere vissuta, nutrita e sostenuta dai discepoli con l’assunzione e personalizzazione di tale gesto fatto gli uni verso gli altri. Per vivere di quella comunione che i discepoli stanno sperimentando nel mangiare insieme, essi dovranno scomodarsi e rendersi disponibili a ciò che implica il gesto di lavare i piedi: dovranno assumere come bussola del loro agire la logica dello schiavo impersonata da Gesù. La comunità dei credenti in Gesù vivrà grazie a questo gesto di servizio reciproco. Gesto che ha il fine di creare una comunità che bandisca gli squilibri e le fossilizzazioni nei ruoli che inevitabilmente creano dinamiche di potere e di sfruttamento e disuguaglianze. «Proporre ai discepoli di assumere la funzione dello schiavo – gli uni rispetto agli altri – significa proporre un ideale di comunità in cui i ruoli reciproci siano simili e equivalenti. L’ideale sociale soggiacente al gesto di Gesù è quindi quello dell’eliminazione della funzione servile attribuita ad un ceto, per ottenere una compartecipazione strettissima, una comunità dove i ruoli siano tendenzialmente indifferenziati»4. L’unica via per aprire la strada ad una comunità alternativa ai modelli mondani rigidamente gerarchizzati, una comunità in cui sia vivibile l’amore per il prossimo, anche per il nemico, l’attenzione al debole, il perdono del peccatore, la cura del bisognoso, il dialogo e l’ascolto reciproco, era proporre e vivere in prima persona il modello dello schiavo. Non certo quello del padrone.
Possiamo dire che nel concreto di una comunità cristiana, ieri come oggi, si tratta di apprendere a essere servi imparando a dare tempo, a dare ascolto, a dare parola, a dare presenza all’altro: così viene intessuta quotidianamente la rete di fondo su cui la comunità può svilupparsi senza schiacciare i singoli, ma con una certa armonia ed equilibrio fra tutti e ciascuno. Il tutto sul saldo fondamento della fede nel Dio che in Gesù Cristo ha dato ascolto e parola, tempo e presenza all’uomo.

5. Alla radice dell’essere servo
Se l’idea di “essere servo” ci suscita diffidenza o perfino ripugnanza e ad essa preferiamo quella di servizio, che salvaguarda il nostro esserne soggetti, protagonisti, signori, va detto che nella Bibbia l’immagine del servo non rinvia alla mancanza di libertà, ma all’appartenenza. I profeti sono chiamati spesso “servi di Dio” (1Re 14,18; 2Re 17,13; Ger 25,4; 26,5; 35,15; Ez 38,17; Dn 9,6; ecc.) e non possono certo essere sospettati di essere carenti di libertà. Essi sono appartenenti a Dio, di Dio condividono il sentire, il pathos, e lo trasmettono con vigore e passione al popolo. Essi sono mediatori e ministri delle parole e del volere di Dio. La loro missione investe la loro vita fino a renderla un “segno” per il popolo: la missione che sentono di aver ricevuto da Dio viene da loro incarnata e compiuta tanto con la parola come con il corpo, con l’annuncio come con i gesti, tanto la volontà di Dio è ciò a cui essi aderiscono con radicalità in virtù del loro legame con Dio, della loro appartenenza a Dio.
È dunque evidente che la radice dell’essere servi, nel profeta come in Gesù e nei suoi discepoli, consiste nell’ascolto. Con l’ascolto, con la sensibilità affinata a riconoscere la volontà di Dio sul mondo, l’uomo si rende ricettivo e ospitale nei confronti della parola che viene da Dio e con l’ascolto delle persone si dispone a trasmetterla loro secondo le loro possibilità di comprensione. Essere servi e serve significa essere uomini e donne di ascolto.
Per entrare dunque nel concreto del lavoro del farsi servo, occorre apprendere la disciplina e l’arte dell’ascolto. Si tratta di ricordare che l’ascolto è un atto intenzionale, che impegna la volontà, la decisione e la libertà della persona. Che esso non ascolta solo le parole, ma anche il corpo. E di questo ascolto del corpo è esempio Gesù nell’episodio dell’incontro con la donna emorroissa, che Gesù “sente” e “discerne” attraverso un ascolto tattile pur essendo in mezzo a una folla che lo premeva («Chi ha toccato le mie vesti?… Gesù guardava intorno per vedere colei che aveva fatto questo»: Mc 5,32). L’ascolto rompe con i pregiudizi sull’altro, anzi, assume i sentimenti e le reazioni anche scomposte o violente degli altri come domanda che interroga o come sintomo che rivela e che suggerisce la via da percorrere per raggiungere l’altro e amarlo nella concretezza della sua situazione. Ascoltando la sofferenza che sottostà alle parole violente ed aggressive dell’indemoniato di Gerasa, Gesù riesce a farsi servo di questa persona, a entrare in rapporto con lui e a guarirlo (Mc 5,1-20). Ascoltare è poi dare tempo, dunque vita: è una modalità della sequela di Gesù fino al dono della vita. Il tempo donato all’ascolto dell’altro è dono di vita per l’altro e perdita della propria vita per amore. Ascoltare è ospitare, farsi dimora per l’altro, liberarsi dal troppo pieno che spesso ci abita per far abitare, almeno un po’, l’altro in noi e portare, almeno un po’, il peso che grava su di lui. Di nuovo, il farsi servi esige il farsi povero, lo spogliarsi fino ad essere poveri in spirito. Ascoltare è poi anche fare silenzio e discernere: movimenti indispensabili per servire con intelligenza e per non fare del servizio un’intrusione e una violenza.

6. Una Chiesa serva della parola
Il messaggio biblico sull’ascolto è decisivo per un’ecclesiologia che contempli la Chiesa come serva della Parola di Dio. È quanto mostra il Proemio della Dei Verbum, la Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione del Concilio Vaticano II, fin dal suo incipit: «In religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il sacro Concilio aderisce alle parole di S. Giovanni il quale dice…». Il Proemio presenta il Concilio che parla di se stesso, che svela la sua autocoscienza e si pone come esempio per quel «popolo degli ascoltanti della parola» che sono chiamati ad essere i cristiani. La centralità – così biblica – dell’audire, dell’ascolto, che caratterizza la postura del Concilio e dunque della Chiesa, è decisamente innovativa, rivoluzionaria all’epoca. Lì si afferma che la Chiesa esiste in quanto serva della Parola di Dio, sotto la parola di Dio, nel doppio movimento di ascolto e annuncio della parola di Dio: «È come se l’intera vita della Chiesa fosse raccolta in questo ascolto da cui solamente può procedere ogni suo atto di parola» (Joseph Ratzinger). Per essere ecclesia docens, la Chiesa deve essere ecclesia audiens. E solo allora può anche essere chiesa serva, ancilla Domini, come Maria5.

NOTE
1 J.-M. Tillard, Eucaristia e fraternità, Qiqajon, Bose (Magnano – BI) 2015, p. 59.
2 Cf A. Destro – M. Pesce, Come nasce una religione. Antropologia ed esegesi del Vangelo di Giovanni, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 41-63.
3 G.P. Carminati, «Vi ho dato un esempio» (Gv 13,15). La lavanda dei piedi come tratto della cristologia di Giovanni, in «Parola, Spirito e Vita» 68 (2013), p. 119.
4 Destro- Pesce, Op. cit., p. 59.
5 Y.M.-J. Congar, Per una chiesa serva e povera, Qiqajon, Bose (Magnano – BI) 2014