N.06
Novembre/Dicembre 2017

Giovani: “sdraiati” o “affamati”?

Le scelte fondamentali nell’epoca dell'incertezza

Non avevo idea di quello che avrei voluto fare della mia vita e non vedevo come l’università potesse aiutarmi a capirlo. Eppure ero là, che spendevo tutti quei soldi che i miei genitori avevano messo da parte lavorando per tutta una vita. Così decisi di mollare». A una prima lettura sembrerebbe quasi scontato pensare che queste parole sono tratte dal diario di un “giovane d’oggi”, di un esponente di quella generazione di eterni adolescenti che lo stereotipo diffuso descrive come disorientati, indecisi, volubili, inconsistenti, incapaci di impegnarsi e di arrivare a un risultato; o magari, con il titolo di un libro di successo, «sdraiati»1.

Il prosieguo della citazione svela che invece si tratta delle parole di un adulto che ripensa agli snodi cruciali che hanno determinato l’andamento della propria vita: «Era molto difficile all’epoca, ma guardandomi indietro ritengo che sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso in vita mia». Scoprire l’identità dell’adulto in questione aumenta la sorpresa: si tratta di Steve Jobs2, il fondatore di Apple e Pixar, l’inventore del personal computer, non solo una delle persone di maggior successo degli ultimi decenni, ma una vera e propria icona della rivoluzione informatica, capace di incidere come pochi altri sulla società, sull’economia, sulla cultura e sull’immaginario collettivo del mondo contemporaneo3. La figura che oggi probabilmente incarna il figlio che non pochi genitori si augurano di avere, tale non era a vent’anni, quando decideva di “deragliare” dalla strada maestra (gli studi universitari), e forse nemmeno una decina di anni dopo, quando fu licenziato dall’impresa di cui era il fondatore.

 1. Dai binari ai puntini

La nostra società considera Steve Jobs un modello di successo, un mito e talvolta persino un guru e certamente propone il suo percorso ai giovani come fonte di ispirazione. Inevitabilmente questa mentalità, nel bene o nel male, ha un impatto sul modo in cui i processi decisionali e le scelte di vita sono concepiti e vissuti da chi cresce al suo interno. Prima di precipitarsi a diagnosticare a un’intera generazione una patologia della capacità decisionale, ci sembra corretto provare a formulare una ipotesi alternativa: i profondi e continui mutamenti del contesto fanno sì che i processi attraverso cui ciascuno mette a fuoco quali sono i passi del suo cammino «verso la pienezza della gioia a cui tutti siamo chiamati»4 avvengano oggi con forme e tempi che non sono immediatamente riconoscibili e decodificabili da parte di chi li ha compiuti in un tempo magari relativamente vicino, ma già significativamente diverso. Questo riguarda anche le scelte definitive, quelle che si fanno per sempre.

Come spesso accade, le immagini possono aiutare. Il consueto riferimento all’identificazione dei “binari” su cui far procedere la propria esistenza rimanda – magari inconsapevolmente – a un assetto socio-culturale che prevede un numero ridotto di opzioni ben definite e distinte, con possibilità limitate di cambi di direzione (gli  scambi) e con un grado di eteronomia abbastanza elevato (sul treno i macchinisti sono solo due, a fronte di numerosi passeggeri).

Nel discorso a Stanford, Steve Jobs usa un’immagine diversa, che ci pare molto illuminante nella sua prospettiva temporale: ricostruire una figura – un senso, un itinerario – unendo i puntini che rappresentano le diverse esperienze della vita, apparentemente sconnesse e vissute nell’incertezza. «Non è possibile “unire i puntini” guardando avanti; si può unirli solo dopo, guardandoli all’indietro.

Così, bisogna aver sempre fiducia che in qualche modo, nel futuro, i puntini si potranno unire. […] Perché credere che alla fine i puntini si uniranno ci darà la fiducia necessaria per seguire il nostro cuore anche quando questo ci porterà lontano dalle strade più sicure e scontate, e farà la differenza nella nostra vita. Questo approccio non mi ha mai lasciato a piedi e, invece, ha sempre fatto la differenza nella mia vita». Se in un viaggio si decide la meta prima di mettersi in moto, in questo caso invece il movimento anticipa nella fede la scoperta della destinazione. Non è in fondo molto diverso dall’esperienza di Abramo, che, come dice la Lettera agli Ebrei, per fede «partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8).

È ovviamente legittimo ritenere questa situazione un progresso o un regresso, esaltarne le opportunità o sottolinearne i rischi e i limiti. Ci sono validi elementi a sostegno di tutte queste posizioni.

Qualunque valutazione ne diamo, resta comunque il fatto che questo è il contesto al cui interno i giovani si muovono, spesso procedendo per tentativi ed errori, nella speranza di poter un giorno riuscire a unire i puntini, e con cui deve misurarsi chi si sente chiamato ad accompagnarli e sostenerli in questo sforzo. Proposte immaginate per scenari diversi rischiano solo di non essere comprese o di risultare magari idealmente attraenti, ma poco rilevanti nella pratica. La scommessa del prossimo Sinodo è che il discernimento costituisca uno strumento particolarmente adatto al contesto in cui ci troviamo. Senza pretendere di fornirne un’analisi completa, proveremo ora a far emergere alcuni tratti caratteristici della società e della cultura contemporanea, per evidenziare come impattano sullo svolgimento dei processi di scelta.

 2. Incertezza e insicurezza

Che la nostra sia una società del cambiamento è un luogo comune. Più che la velocità, la cifra che meglio lo racconta è la sua continua accelerazione, quella che Papa Francesco al n. 18 della Laudato si’ chiama rapidación. Questo produce una situazione di instabilità, di fatica a prevedere e, quindi, a decidere: a differenza di quando accadeva in passato, nessuno oggi è in grado di dire se un certo corso di studi sarà in grado di assicurare una occupazione e soprattutto una carriera. Su quale base quindi scegliere tra le diverse opzioni? Queste poi aumentano in modo esponenziale: basta pensare ad esempio all’aumento della varietà dei corsi di laurea. I tragitti individuali si fanno più aperti, con un ventaglio di opportunità amplissimo, di cui nessuna generazione in precedenza aveva potuto disporre.

A livello del vissuto individuale il risultato è spesso descritto come incertezza o insicurezza, per la fatica di districarsi tra le numerose opzioni senza la possibilità di prevedere con chiarezza l’esito di ciascuna. Pare utile distinguere i due concetti, a cui spesso si ricorre in modo confuso. L’incertezza è una condizione oggettiva, legata all’aumento delle opportunità, al fatto che oggi godiamo di spazi di libertà ben più ampi che in passato. L’insicurezza è invece una percezione soggettiva legata alla difficoltà di gestire in modo costruttivo questi spazi. Per ridurre l’insicurezza ci sono sostanzialmente due strategie. La prima, difensiva, è semplificare la realtà e quindi rinunciare a godere di tutta la libertà potenziale; la seconda, proattiva, è dotarci di strumenti per conoscere e gestire la complessità e per far fronte alle implicazioni delle nostre scelte, compresi i fallimenti. Adottare l’una o l’altra comporta atteggiamenti differenti nei confronti delle scelte, in particolare quelle definitive.

Alcune indagini evidenziano peraltro come i giovani sembrino saper gestire abbastanza bene l’incertezza, senza che diventi fonte di spavento, mentre sono soprattutto i genitori ad essere angosciati dall’insicurezza. Non sono pochi i casi in cui le scelte dei giovani, ad esempio in ambito scolastico, sono il frutto anche della pressione esercitata in modo più o meno deliberato dall’insicurezza dei genitori.

Infine, non possiamo dimenticare come proprio l’aumento delle opportunità renda ancora più faticoso il peso che grava su quei giovani a cui di fatto è preclusa quasi ogni possibilità di scelta. Il Documento preparatorio del Sinodo elenca una lunga serie di situazioni:

«Pensiamo ai giovani in situazione di povertà ed esclusione; a quelli che crescono senza genitori o famiglia, oppure non hanno la possibilità di andare a scuola; ai bambini e ragazzi di strada di tante periferie; ai giovani disoccupati, sfollati e migranti; a quelli che sono vittime di sfruttamento, tratta e schiavitù; ai bambini e ai ragazzi arruolati a forza in bande criminali o in milizie irregolari; alle spose bambine o alle ragazze costrette a sposarsi contro la loro volontà. Troppi sono nel mondo coloro che passano direttamente dall’infanzia all’età adulta e a un carico di responsabilità che non hanno potuto scegliere. Spesso le bambine, le ragazze e le giovani donne devono affrontare difficoltà ancora maggiori rispetto ai loro coetanei». Diventa ancora più difficile scegliere quando ti viene negato il tempo per imparare a farlo.

3. Ma le scelte degli adulti sono davvero immutabili?

Come in parte abbiamo già evidenziato, l’accelerazione del mutamento, l’aumento delle opzioni, l’incertezza e l’insicurezza non riguardano solo i giovani, ma anche gli adulti. Anzi, probabilmente questi ultimi per primi. Nel proprio itinerario biografico, ciascuno apprende a misurarsi con questi fenomeni fin dall’infanzia, attraverso la mediazione della generazione adulta, osservando il suo modo di reagire e le sue scelte. A livello sociologico sono le pratiche a fornire la verifica della pretesa di definitività affermata sul piano dei principi o dei desideri.

La diffusione della precarietà lavorativa e soprattutto la disoccupazione degli adulti minano nei fatti qualsiasi idea di stabilità lavorativa e professionale e quindi di tutto ciò che ne dipende. Lo stesso vale per tutti i casi in cui i percorsi biografici concreti degli adulti mostrano come nei fatti siano reversibili quelle scelte – di coppia o di consacrazione – che pure erano state assunte “per sempre” e non necessariamente in mala fede.

Non va dimenticato poi che l’evoluzione della società in senso pluralista ha indebolito molte forme di pressione sociale che contenevano e limitavano la possibilità di percorsi divergenti, rendendo alcune opzioni di fatto quasi impraticabili. Si è così evidenziato che esistevano scelte immutabili non perché assunte come tali, in modo libero e consapevole, ma perché accettate per conformismo o per mancanza di alternative, quando non subite per costrizione o per paura dello stigma che avrebbe colpito chi vi si fosse sottratto. Per molti secoli le donne in modo particolare sono state vittime di questa pressione sociale, sia all’interno della vita familiare, sia in quella religiosa.

Infine, dobbiamo essere consapevoli che in un diverso modello di società erano disponibili e diffusi (o quanto meno socialmente accettati) tutta una serie di “accomodamenti” che di fatto mettevano in discussione l’immutabilità di alcune scelte che pur si affermava in linea di principio. Senza questi “accomodamenti” non esisterebbe ad esempio buona parte della “letteratura borghese” dell’800. La particolare sensibilità delle attuali giovani generazioni per la coerenza dei comportamenti rende queste pratiche particolarmente corrosive in termini di credibilità di qualunque dichiarazione di immutabilità. Con uno sguardo di sintesi, dobbiamo onestamente riconoscere che gli attuali “millenials” non sono la prima generazione a sbarcare sul continente delle scelte reversibili, lo abitano quanto meno come seconda o terza generazione. Anche in questo caso lo fanno a loro modo, diverso da quello delle generazioni precedenti, ma questo non può legittimare lo stupore che accompagna alcune analisi dei loro comportamenti.

Osservando la società nel suo complesso dal loro punto di vista, dobbiamo riconoscere con onestà che quello che si vede è che sì, alcune scelte di alcune persone sono immutabili. Questo però non lo si sa a priori, ma lo si scopre quando si guarda all’indietro e “si uniscono i puntini”. Dunque “per sempre” è una possibilità reale, che non può essere esclusa, ma che non può essere data per garantita.

Ugualmente è doveroso riconoscere l’esistenza di fratture biografiche che non esitano in un naufragio, ma aprono lo spazio a un percorso di senso che via via si stabilizza. I problemi non mancano, certo, ma non mancavano in nessuna delle situazioni non ideali precedentemente ricordate.

 4. Lo sgretolamento delle istituzioni

Ben più che degli individui, costitutivamente fragili, la stabilità è prerogativa delle istituzioni, politiche, economiche e sociali.

Dalle istituzioni ben più che dai singoli ci si aspetta che possano reggere nel corso del tempo, offrendo alle persone una difesa dalla precarietà e dall’insicurezza. Da questo punto di vista matrimonio, sacerdozio e vita religiosa sono istituzioni sociali prima che scelte e percorsi di vita individuali.

Come sappiamo, però, nella nostra società la credibilità delle istituzioni – di ogni genere: Stato, partiti, sindacati, chiese, banche, scienza, ecc. – è ai minimi storici, erosa da manipolazioni e scandali.

Anche le istituzioni hanno il loro punto debole, che si manifesta quando alcuni riescono a piegarle ai propri interessi. Per questo la corruzione è una piaga sociale e uno scandalo contro cui Papa Francesco non cessa di alzare la voce. Il suo effetto è proprio di intossicare l’ambiente, rendendolo meno abitabile, aumentando gli spazi della precarietà e dell’insicurezza. Se dunque nemmeno le istituzioni, con tutta la loro potenza, sono affidabili sempre e comunque, come potranno essere immutabili le mie scelte di singolo, segnate da tutta la mia fragilità? La domanda è più che legittima.

Anche in questo caso va evitato il rischio di rimpiangere un’età dell’oro che non è mai esistita: l’erosione della credibilità delle istituzioni è anche il frutto dell’aumento delle possibilità di sottoporre il loro operato a scrutinio pubblico, dei progressi della tecnologia, in particolare per quanto riguarda la circolazione delle informazioni, e delle lotte per la difesa dei diritti dei cittadini e per una democrazia sostanziale. Cadono così molti veli, producendo un disincanto che è più che giustificato. Può diventare persino salutare nei casi in cui la società civile non resta invischiata nello scetticismo e nella disillusione, ma riesce a dar vita a percorsi di partecipazione e di assunzione di responsabilità, che possono condurre a istituzioni migliori.

A oggi siamo ancora in attesa di capire se fenomeni come l’etica hacker5 o la cultura wiki6 possano costituire la base di percorsi di questo genere a partire dalle potenzialità della rete. Per certi versi ne potrebbe nascere qualcosa di analogo al movimento cooperativo, in termini di costruzione di soggetti sociali dal basso. La riflessione qui è pertinente soprattutto perché si tratta di fenomeni che attirano l’attenzione di molti giovani e possono quindi diventare una opportunità di protagonismo e di sperimentazione delle proprie capacità.

Varie ricerche mostrano come i giovani siano alla ricerca di occasioni di questo genere, smentendo lo stereotipo dell’apatia, e anche di un confronto con figure adulte capaci di sostenerli senza far pesare il proprio giudizio, con le quali quindi costruire un rapporto al di fuori di schemi gerarchici e prescrittivi. Lo sgretolamento delle istituzioni non chiude tutti gli spazi di dialogo e confronto tra genera-zioni, ma richiede a chi esercita un ruolo educativo di riconoscere quelli ancora disponibili e di apprenderne le regole e i linguaggi.

 5. Il desiderio e il gusto

L’erosione della credibilità delle istituzioni provoca il tracollo dei dispositivi di certificazione sociale della bontà dei percorsi di vita tra cui si è chiamati a scegliere. Senza un certificatore attendibile, come è possibile mettere a fuoco che la fedeltà è un’opzione migliore del libertinaggio? Se le indicazioni dei segnali stradali non sono affidabili, come decido quale strada seguire per arrivare a destinazione?

Il problema è complicato ulteriormente dall’aumento delle opzioni disponibili: è come percorrere un sentiero da cui spariscono i segnali, mentre aumentano i bivi, il bosco si infittisce e soprattutto assume le dimensioni di una foresta. In queste condizioni muovere un passo, decidere se andare a destra o a sinistra risulta più complesso e più rischioso. La decisione è quindi più onerosa e aumenta la tentazione della paralisi. È questa probabilmente la vera novità che si trovano a fronteggiare le attuali giovani generazioni: il mutamento sociale ha interrotto la trasmissione del patrimonio sapienziale da una generazione all’altra, o meglio, ne ha corroso alcuni linguaggi (in particolare quelli prescrittivi), rendendo “di colpo” vergine un territorio prima almeno in parte esplorato.

Quando mancano le mappe, per non perdersi occorre affidarsi alla bussola. Se l’obiettivo è trovare la propria strada, l’ago della bussola non può che essere il desiderio di pienezza che ciascun essere umano porta dentro di sé, perché gli è stato messo dentro dal suo Creatore. È quel desiderio che provoca inquietudine, irrequietezza, che spinge a cercare fino a che non incontra ciò a cui tendeva.

Magari nemmeno sapeva che cosa fosse, ma quando lo trova lo riconosce, scoprendo la dimensione del “per sempre” di cui magari fino a un attimo prima dubitava. A condizione però di non accontentarsi di niente di meno. Così lo raccontava Steve Jobs nel già ricordato discorso ai neolaureati di Stanford: «Bisogna trovare quel che amiamo. E questo vale sia per il nostro lavoro sia per i nostri affetti. Il nostro lavoro riempirà una buona parte della nostra vita e l’unico modo per essere realmente soddisfatti è di fare quello che riteniamo essere un buon lavoro. E l’unico modo per fare un buon lavoro è amare quello che facciamo. Chi ancora non l’ha trovato, deve continuare a cercare. Non accontentarsi. Con tutto il cuore, sono sicuro che capirete quando lo troverete. E, come in tutte le grandi storie d’amore, diventerà sempre migliore mano a mano che gli anni passano. Perciò, bisogna continuare a cercare sino a che non lo si è trovato. Senza accontentarsi».

Leggere i movimenti della bussola del desiderio, orientarsi sulla base dei movimenti della nostra interiorità, distinguere la voce dello  Spirito che parla nell’intimo della coscienza richiede un’abilità, che nella tradizione della spiritualità cristiana si chiama discernimento degli spiriti: il Documento preparatorio del prossimo Sinodo vi dedica l’intero paragrafo 2 del secondo capitolo, articolandone i passi sulla base del n. 51 di Evangelii gaudium. Non è una dottrina che si impara sui libri, ma un sapere pratico che si affina con l’esercizio. Ha molte analogie con il guardare indietro e unire i puntini. Richiede di agire, di provare, assumendo il rischio di sbagliare: come insegna Papa Francesco, si sbaglia di più rimanendo fermi. Ma poi richiede di passare in rassegna gli eventi e ciò che essi hanno suscitato dentro il cuore, trasformando gli avvenimenti in esperienza e imparando a distinguere che cosa lascia un buon sapore da quello che invece nausea. Una prospettiva di questo genere non può non risultare attraente per le giovani generazioni di oggi, così attente a non lasciarsi espropriare della soggettività delle proprie scelte.

Al tempo stesso, la tradizione insegna che risulta di grande aiuto la presenza di figure capaci di accompagnare i processi di discernimento, non per sostituirsi a chi ne è soggetto e protagonista, ma per sostenerlo nella crescita della capacità di riconoscere i movimenti interiori e interpretarli alla luce della fede e nel confronto con la Parola e con le esigenze morali della vita cristiana. È un ruolo che richiede di ascoltare e porre domande, molto più che di fornire indicazioni o risposte. Per svolgerlo serve esperienza, quella che si matura leggendo i movimenti dei propri desideri per compiere le proprie scelte di vita, fermandosi poi a valutare che cosa è successo. L’obiettivo del Sinodo è soprattutto capire di che cosa ha bisogno la comunità cristiana per essere in grado di svolgere questo ruolo di accompagnamento anche nei confronti dei giovani del mondo di oggi.

 

 

NOTE
1 M. Serra, Gli sdraiati, Feltrinelli, Milano 2013.
2 Le parole citate sono tratte dal discorso che Steve Jobs pronunciò il 12 giugno 2005 all’Università di Stanford (California), che si conclude con il motto diventato poi celeberrimo «Stay hungry, stay foolish». Il testo originale inglese è disponibile sul sito dell’Università di Stanford, https://news.stanford.edu/2005/06/14/jobs-061505 Utilizziamo qui la traduzione italiana di Antonio Dini, «Siate curiosi, siate folli», disponibile sul sito del settimanale «L’Espresso», http://espresso.repubblica.it/palazzo/2006/12/27/news/siatecuriosi-siate-folli-1.2256
3 Anche nel mondo ecclesiale: cf ad esempio una recente intervista al Cardinale Gerhard Müller di Massimo Franco sul «Corriere della Sera» del 26 novembre 2017: «Oggi avremmo bisogno più di una Silicon Valley della Chiesa. Dovremmo essere gli Steve Jobs della fede, e trasmettere una visione forte in termini di valori morali e culturali e di verità spirituali e teologiche».
4 Riprendiamo qui la definizione “fondamentale” di vocazione che appare nell’Introduzione del Documento preparatorio del prossimo Sinodo.
5 Cf A. Spadaro, «Etica “hacker” e visione cristiana», in «La Civiltà Cattolica» 2011 I, pp. 536-549.
6 Per una prima informazione a riguardo cf P. Foglizzo, «Wiki», in «Aggiornamenti Sociali» 5 (2011), pp. 381-384, disponibile su www.aggiornamentisociali.it