N.04
Luglio/Agosto 2018

Fede e discernimento vocazionale

Conoscere la volontà Dio, comportarsi in maniera degna del Signore, portare frutto e nutrire la gioia di esser stati resi partecipi della sorte dei santi nella luce (cf. Col 1,9-12) sono le gemme preziose di ogni vocazione, il destino di ogni battezzato, l’atmosfera della santità che ognuno può gustare quando permette alla Parola di verità di soffiare sulle proprie inconsistenze e far ardere il cuore attirandolo verso una rinnovata comunione con il Signore Risorto. La divina Parola è impregnata di pedagogia e insegna a chi sa ospitarla che la vita è un viaggio, un itinerario di maturazione, un passaggio dal vivere per se stessi al farsi dono, dal pensare che vivere sia solo rispondere a dei bisogni al comprendere che vivere è soprattutto tessere capolavori di relazione fatti di alleanza, cura e custodia.

La vita come itinerario pasquale

La Parola insegna che il cammino dell’uomo può iniziare solo quando egli prende contatto con la propria verità che comporta la conoscenza delle proprie potenzialità e anche dei propri limiti. Solo quando ci si lascia intercettare dalla Voce che chiama estraendo dalla tana delle paure e delle paralisi interiori e si ammette di essersi smarriti si può davvero avanzare. Come il cammino dell’esodo insegna al popolo a fidarsi della Parola di Dio che libera da ogni schiavitù esteriore ed interiore, così il discepolato neotestamentario è il viaggio che il credente intraprende per imparare a fidarsi della Parola del Maestro che dall’ormai del limite umano conduce all’oltre dell’infinito possibile di Dio. Questo itinerario pasquale è un cammino di maturazione che si snoda in quattro tappe, procedendo di fede in fede: il catecumenato; l’illuminazione; l’evangelizzazione e la maturità o presbiterato cristiano. Attraverso queste tappe la persona realizza una crescita graduale che la immette nella pienezza della sua vocazione, conferendo significato alla sua storia e rendendola strumento di irradiazione di senso per gli altri.

L’arte del discernimento

A questa crescita si perviene mediante il discernimento che è la pratica spirituale che cerca di comprendere cosa Dio dice nei segni della vita quotidiana, la disciplina regolare dell’ascolto per realizzare la nostra chiamata e missione, una comprensione che accade all’interno di una relazione filiale. Il discernimento si fa in dialogo con il Signore e comincia con la preghiera, dove si impara a sintonizzare il proprio cuore con il cuore di Dio e a vedere il mondo con gli occhi di Dio. Per vedere con gli occhi di Dio occorre una prima tappa di purificazione per permettere alla «luce vera» (Gv 1,9) di riscaldare, illuminare, portare via le impurità per approdare al discernimento, per conoscere cioè se stessi in Dio, conoscere il proprio peccato, come Dio redime nel peccato e dal peccato, e riconoscere la sua presenza nella propria storia personale. Segue poi la tappa in cui il discernimento diventa vero e proprio habitus.Il discernimento dunque permette di passare dall’identità di schiavi a quella di figli per entrare nella vera libertà. È questa la sfida della pericope evangelica di Mc 10,17-22[1], dove si racconta l’incontro di Gesù con l’uomo ricco e dove appaiono alcune tappe salienti del cammino del discernimento che gettano luce sulla verità dell’essere umano chiamato ad affrancarsi dalle catene che gli impediscono di diventare libero.

Incontrare il Maestro

Siamo nella seconda parte del vangelo di Marco (Mc 8,31–16,8), subito dopo la confessione di Pietro a Cesarea di Filippo, dove Gesù fa tre inauditi annunci pasquali che rivelano la sua identità di Messia-servo sofferente e glorioso e dove rivela l’identità del discepolo. È in questo contesto che Gesù incontra un uomo ricco e l’incontro con lui assume un valore emblematico nella spiegazione che fa ai suoi discepoli, quasi fosse una sorta di parabola. Al centro vi è Gesù con il suo interlocutore il cui identikit si evince da una lettura polifonica dei Vangeli[2].

Gesù e quest’uomo s’incontrano sulla via, segno che sono entrambi in cammino. Il desiderio dell’incontro con Gesù è forte se l’uomo corre e s’inginocchia davanti a lui (come il lebbroso in Mc 1,40), usando l’appellativo «maestro buono» che esprime familiarità e dice che l’uomo si relaziona a Gesù come un discepolo. L’uomo indirizza al Maestro un grande interrogativo relativo al tema della vita eterna e manifesta una conoscenza e una pratica della legge mosaica che hanno radici remote: «sin dalla giovinezza». L’incontro dunque presenta delle premesse che fanno sperare nell’approdo ad un serio cammino di sequela.

Un cuore in ricerca

Sono tante le domande che si agitano nel cuore umano e sono importanti per conoscerlo a fondo. Il cuore fissa la sua residenza laddove individua il «tesoro» (Mt 6,21), la realtà per la quale si è disposti a investire tutto. Individuare dove abita il cuore, che è l’atelier di scelte e decisioni, la dimora dei propri amori, significa capire che vita si desidera, come la si vuole investire e quale destinazione ci si prefigge, perché «la vita si comprende a partire dalla sua mèta»[3]. Il cuore dell’interlocutore di Gesù comprende che il Maestro ha delle chiavi ermeneutiche importanti per imboccare la strada giusta ed evitare il deragliamento, per questo gli chiede: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» (Mc 10,17). Nel suo cuore abita un desiderio di felicità e di pienezza. Come colmarlo? L’uomo cerca qualcosa che abbia a che fare con l’eternità, che sia destinato a non passare. Ma questa domanda è solo l’inizio del cammino.

Volgersi verso il Padre

Rispondendo: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo» (v. 18), Gesù chiama Dio in causa e porta subito il suo interlocutore verso il Padre. È possibile rispondere alla domanda che cosa devo fare? solo se si è in grado di rispondere alla domanda preliminare di quale storia faccio parte? La domanda del giovane si proietta al futuro. È come la domanda che un figlio rivolge al padre. Nella cornice della festa di Pasqua è proprio a partire dalla domanda del figlio che sorge la parola paterna: «Quando tuo figlio… ti chiederà…» (Es 13,14). Questa parola paterna conduce alla terra, concede un approdo. La sottolineatura di Gesù «non ha come obiettivo solo quello di correggere la prospettiva dell’uomo, ma vuole ribadire l’importanza di mettere alla base di ogni azione l’esperienza della benevolenza di Dio» e «ha l’effetto di decentrare l’uomo dal suo “io”, per orientare la sua attenzione verso la benevolenza del Padre celeste»[4]. Gesù apre il suo interlocutore alla rivelazione non di un cosa ma di un chi. Il vero padre punta alla rivelazione di un Altro. Gesù prende sul serio l’anelito che abita nel cuore di quest’uomo, ma offre una pedagogia interessante anche a chi è destinatario di questa pagina evangelica: lo apre ad uno stile che non è quello della risposta che contiene una soluzione immediata, ma quello del condurre l’altro alla relazione con Dio, passando dall’attesa di un cosa a un chi, da un dato da aggiungere al suo bagaglio di esperienza ad un incontro personale.

Sin dalla giovinezza

Se Dio è buono, tutte le sue parole sono buone, comandamenti compresi. Gesù collega così il desiderio del suo interlocutore alla conoscenza dei comandamenti, che sono la base della vita sociale, il cuore dell’osservanza religiosa, la strada che porta alla vita: «Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre» (v. 19). I comandamenti cui Gesù fa riferimento non riguardano la relazione con Dio ma quella con il prossimo. Egli invita a volgersi al Dio buono per conoscere tutto ciò che gli sta a cuore. L’uomo dà a Gesù una pronta risposta: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza» (v. 20). Questa conoscenza dei comandamenti è divenuta per lui osservanza, traduzione pratica nella vita. L’interlocutore di Gesù dice di aver osservato «tutte queste cose» sin dalla sua più tenera età. Si avverte la fierezza di un pio giudeo che vive il codice di santità. Il male sembra assente dalla sua vita. Non c’è trasgressione, eppure manca ancora qualcosa. Occorre entrare in una nuova relazione, in una nuova alleanza.

La forza dello sguardo generativo

Come reagisce Gesù? Con uno sguardo: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò» (v. 21a). Il verbo emblépo significa «fissare lo sguardo» come per raggiungere l’altro nella sua realtà. Lo sguardo che Gesù pone su quell’uomo non è un vedere qualunque, ma un vedere dotato di una particolare coloritura espressa dal verbo agapáo, «amare». Quello sguardo si colma di tenerezza, di un’intensità tale di amore che cerca di avvolgere il suo interlocutore e di coinvolgerlo in un’esperienza concreta di benevolenza. Gesù desidera che questa persona si senta profondamente amata. In nessun altro luogo del vangelo egli è soggetto del medesimo verbo. Siamo davanti ad un momento straordinario che può davvero stravolgere l’esistenza di un uomo e fargli iniziare un nuovo corso. Gesù non aggiunge nient’altro ai comandamenti che questo pathos, questo afflato sensibile che può accendere il cuore e dilatarlo. Con quello sguardo d’amore Gesù vuole rivestire quest’uomo della sua identità di figlio amato, quell’identità che emerge nel mistero del suo battesimo quando, in piena solidarietà con i peccatori, entra nelle acque del Giordano. A quel punto, ogni evangelista registra una teofania, una manifestazione trinitaria, e consegna la verità dell’identità del Cristo non per bocca di un uomo ma dal Padre stesso: «Tu sei il figlio mio l’amato» (Mc 1,9; Mt 3,17; Lc 3,22).

Attraverso uno sguardo d’amore diffusivo, Cristo vuole comunicare la sua stessa identità a quest’uomo perché è da uno sguardo che ognuno nasce o può rinascere. Attraverso uno sguardo d’amore Gesù riconsegna al giovane la benedizione dell’origine per proiettarlo verso il futuro[5]. Quest’attesa dello sguardo carico d’amore che cerca di irradiare la speranza del futuro comunicando la benedizione dell’origine è uno sguardo che si fa generativo e può portare alla rinascita[6]. È lo sguardo dei padri e delle madri nello Spirito che sono testimoni della vita in Cristo disposti ad assumere la vita dei giovani nel loro cuore, ad affrontare il combattimento spirituale al loro fianco, ad insegnare con il loro esempio a non occupare il centro della scena con i propri bisogni e ad accogliere il progetto di Dio. Con il suo sguardo carico di promessa, Gesù insegna che la fede non è una morale ma l’esperienza di un amore personale, che è il punto fermo, il sostegno di tutta l’esistenza. Per questo il suo sguardo fa di quell’uomo il luogo della rivelazione del progetto d’amore di Dio.

Entrare nella vera libertà

Con il suo sguardo benevolo Gesù diviene padre per il suo interlocutore, si fa immagine del futuro e lo invita a nascere alla sua identità di figlio con un’ispirazione che viene dallo Spirito, dall’amore, che non si impone ma suona come una proposta: «“Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”. Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni» (vv. 21b.22). Per la mentalità semita quando manca una cosa, non manca un dettaglio ma tutto. Ciò che manca lo si evince dalla reazione dell’uomo all’invito di Gesù. L’uomo va via senza porsi alla sequela perché non vuole separarsi dai suoi molti beni. Sembra li possegga, mentre in realtà ne è posseduto. Ciò che manca è la capacità di donare, di perdere qualcosa per guadagnare tutto. Si comprende così che si possiede veramente solo quello che si è disposti a perdere donandolo, come aveva detto Gesù ai suoi discepoli: «chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà. Infatti quale vantaggio c’è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita?» (Mc 8,35-36). La tentazione sempre latente sta nell’illudersi che il proprio bene si moltiplichi in proporzione alla ricchezza di cui si dispone, che la vita dipenda dall’avere e che il proprio valore provenga dalla quantità delle cose che si possiedono. La tentazione di individuare il valore della propria vita sulla base di ciò che si possiede rappresenta uno sbarramento nel proprio itinerario pasquale. Gesù chiede al giovane di fare dei suoi beni non un idolo, ma un dono ai poveri per entrare nella vera libertà.

La forza attrattiva della chiamata

Dopo l’invito ad alleggerire il cuore e a diventare libero, Gesù rivolge all’uomo l’invito che ha rivolto a quanti costituiscono la sua nuova famiglia: «vieni! Seguimi!» (v. 21). È l’esperienza che può segnare l’inizio di una pagina nuova segnata dal tripudio della vita sulla morte. Essere chiamati infatti equivale a diventare intimi di Dio, lasciandosi espropriare, rinunciando a ogni rivalsa egoica per sposare la logica del dono. Gesù elegge quest’uomo come ha fatto con i suoi discepoli i quali, pur essendo intenti a pescare, al suono della sua voce hanno subito lasciato tutto per seguirlo (cf. Mt 4,19-20.21-22; 9,9). Lasciare significa accantonare le priorità del momento, le attese degli altri sulla propria vita, l’attaccamento ai bisogni che rendono schiavi, per ridisegnare il proprio orizzonte e mettersi in gioco per uscire da sé e rendersi disponibili ad ascoltare la Voce che invoca l’ascolto e invita al dono.

La tristezza delle catene

Dinanzi alle parole di Gesù l’uomo «si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni» (v. 22). L’incontro si conclude con un volto che non è nuovo nella Scrittura, ma appare già in Gen 4,5, quello di Caino, il volto di chi è uscito dal suo posto, dalla sua vocazione. Sorprendentemente, nonostante la cura pedagogica di Cristo, l’uomo ricco non diventa un discepolo, non si lascia raggiungere interiormente per essere liberato dalle sue catene. Il passo leggero dell’inizio si fa trascinato e lo spinge a cambiare direzione, lontano da Gesù. L’abilità narrativa di Marco descrive qui uno dei più radicali cambiamenti del vangelo con grande finezza psicologica. Cosa ha causato questo fallimento della sequela? Con la sua domanda l’uomo ricco si era proiettato verso il futuro definitivo, fatto di orizzonti non limitati e passeggeri, ma ampi e profondi. Questo sguardo al futuro però trova un ostacolo, la ricchezza, che diventa «una pericolosa interferenza con una sequela radicale e incondizionata»[7].

Il brano evangelico si conclude con una parola di Gesù che non viene accolta e con il fallimento dell’incontro. Sembra che l’uomo fallisca come discepolo e che anche Gesù fallisca come Maestro[8]. La Scrittura ci ricorda in tal modo che tra la parola che ci raggiunge e l’adesione ad essa c’è lo spazio della nostra libertà, il cammino dell’abbandono a Dio, dello spogliarsi dagli attaccamenti. La mancata sequela dell’uomo ricco dà vita a una riflessione che Gesù fa ai suoi discepoli sulle ricchezze come intralcio alla salvezza (cf. Mc 10,23-27). I discepoli restano impressionati dall’esito di questo incontro: se abbandonare le ricchezze è la condizione per entrare nel Regno di Dio, chi mai potrà essere salvato?

La moltiplicazione e la grazia di un nuovo inizio

Gesù s’indirizza ai discepoli chiamandoli «figli», titolo con cui vuole rigenerarli ad una vita che non si fonda sulle cose ma sul primato di Dio, e invita loro a comprendere che la salvezza non è opera umana, ma divina; non è un fare ma un lasciarsi fare: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio» (v. 27). È Dio che opera la trasformazione, che dà la spinta verso il futuro, che dà fecondità alla fede e fa della ricchezza uno strumento di condivisione e di carità. A questo punto entra in scena Pietro che ricorda a Gesù di aver lasciato tutto per seguirlo (v. 28). Se Pietro lo sottolinea, in fondo in fondo, non ha ancora lasciato tutto e fa i calcoli. Egli è l’esempio di chi ha conosciuto la dimensione della totalità ma fa fatica a restare fedele alla logica del dono. Per questo il Signore lo apre al senso della moltiplicazione che accade quando la propria vita è immersa in Dio e ha Gesù come fondamento. C’è una promessa per chi lascia le sicurezze asfittiche: il centuplo, cioè la grazia della moltiplicazione dei legami, e la vita eterna che l’uomo ricco desiderava (vv. 29-30). La presenza di Pietro, a conclusione di questo incontro degenerato in una sorta di blackout relazionale, non è casuale. Nei Vangeli egli è testimone del fatto che lo smarrimento e l’abbandono della sequela non sono l’ultima parola. Così forse anche per l’uomo ricco e anche per noi. Dopo il rinnegamento, Pietro torna a pescare e con lui anche gli altri ma non prende nulla (cf. Gv 21,5). La notte è segnata dall’improduttività, ma segue l’alba e accade un incontro. Gesù si avvicina ai suoi che non lo riconoscono e interviene con una parola di comando: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete» (Gv 21,6). È la consegna della parola oltre a chi vorrebbe adagiarsi sull’ormai, parola del ripiegamento e dell’autogiustificazione. Questa parola feconda viene accolta e l’effetto è l’abbondanza, la moltiplicazione. «È il Signore!»: dice il discepolo che non ha mai smesso di sentirsi amato, che sa discernere e vedere la firma del Maestro in ciò che sta accadendo. Dopo il riconoscimento, Gesù prepara da mangiare ai suoi attraverso una liturgia di ospitalità e di premura. È il barbecue del Risorto che non solo rivitalizza la loro fede nella sua Parola, ma si occupa concretamente della loro vita nutrendoli: «venite a mangiare» (Gv 21,12). Da questo pasto riparte il viaggio dei suoi, soprattutto quello di Pietro. A lui infatti Gesù dice: Mi ami? La risposta del discepolo alla domanda del Maestro – Tu sai che ti voglio bene – è la verità che può far ripartire il cammino: l’amore di Pietro non è ancora maturo per dare la vita. Gesù gli dice: «Seguimi» e inizia una fase nuova del discepolato. Pietro non si basa più sulle sue forze e il suo entusiasmo, ma sull’alleanza nuova offertagli dal Risorto che gli permetterà di diventare pastore fino al dono del suo sangue che sarà seme di nuovi cristiani[9]. Con Pietro impariamo anche noi a fare i conti con i nostri limiti ed aprirci alla grazia dell’incontro con Cristo che forgia il cuore, lo impregna di amore e lo spinge a quel compimento che si realizza solo nel dono di sé. Allora anche per l’uomo ricco di ieri e di sempre c’è ancora speranza: per Dio sarà sempre possibile riaccendere in noi il desiderio di «partecipare alla sorte dei santi nella luce» (Col 1,12).

 

 

 

[1] Per le varie interpretazioni del testo cf. V. Fusco, Povertà e sequela. La pericope sinottica della chiamata del ricco (Mc. 10,17-31 parr.), Paideia, Brescia 1991, 18-37.

[2] In Mt 19,16-22 l’interlocutore di Gesù è un giovane. Lc 18,18-23 aggiunge che era un notabile, una persona con una posizione di spicco. Tutti e tre i sinottici sottolineano che è una persona religiosa che ha una buona conoscenza della Legge.

[3] M.I. Rupnik, L’arte della vita. Il quotidiano nella bellezza, Lipa, Roma 2011, 19.

[4] G. Perego (a cura di), Marco. Introduzione, traduzione e commento, San Paolo, Cinisello balsamo (MI) 2011, 210.

[5] «Ogni uomo può sperare perché è atteso nello sguardo di un altro. Non controllato, non divorato» (A. D’Avenia, «Una parola da salvare: futuro», Il fatto quotidiano, 06.09.2013).

[6] Nel Documento Preparatorio al Sinodo dei giovani viene citata la sapienza della chiesa d’Oriente, più precisamente i Discorsi di Filosseno di Mabbug, vescovo siriano del V secolo, che parla di tre nascite: la nascita naturale; la nascita del battesimo quando si diventa figli di Dio per grazia e la terza nascita, quando avviene il passaggio «dal modo di vita corporale a quello spirituale».

[7] A. Guida, Vangelo secondo Marco. Traduzione e commento, in R. Virgili (a cura di), I Vangeli tradotti e commentati da quattro bibliste, Ancora, Milano 2015, 648.

[8] Nella Bibbia vi sono tante vocazioni mancate: Lot è un patriarca mancato; Sansone, un giudice mancato; Saul, un re mancato; Giona, un profeta mancato; Giuda, un discepolo mancato (cf. W. Vogels, I falliti della Bibbia. Storie bibliche di insuccesso per imparare a vincere, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008). In Mc 10,17-22 troviamo un figlio spirituale mancato, un uomo che fa fatica a lasciarsi rigenerare.

[9] Cf. Tertulliano, Apologeticum 50,13.