N.04
Luglio/Agosto 2018

Scendi nel cuore. Riconoscere emozioni sentimenti e desideri

1 Parte

Dopo aver visto il film La grande bellezza di Paolo Sorrentino ho provato un notevole disagio. Un mio confratello con il quale ero andato al cinema, ha commentato laconicamente: «meno male che hai pagato tu?». Credo che questo disagio nasca dal fatto di trovarsi davanti a scene giustapposte che non hanno un filo apparente che le leghi. Tendenzialmente, invece, davanti alla realtà noi cerchiamo un senso, qualcosa che tenga insieme i frammenti che ci accadono.

A distanza di tempo, tornando a riflettere su quel film, mi è balenata l’idea che forse proprio non raccontando una storia, Sorrentino ha raccontato la storia dell’uomo contemporaneo, un uomo che si ritrova continuamente davanti a fatti apparentemente senza senso e incapace di legare le cose tra loro, provandone un profondo disagio.

Il sociologo Zygmunt Bauman ha proposto un’immagine simile parlando dell’uomo contemporaneo come colui che si trova davanti alle perle sciolte degli eventi della propria vita, senza trovare il filo che le lega tra loro per farne una collana.

Cos’è l’esercizio di discernimento

Il discernimento può essere definito come quell’esercizio ermeneutico che ci consente di trovare un senso agli eventi disparati e frammentati della nostra esistenza. Ci troviamo continuamente davanti a situazioni, eventi, relazioni e percepiamo di mancare di qualcosa, non riusciamo a capire esattamente, non troviamo risposte, non abbiamo chiarezza.

È proprio questa mancanza che genera e mette in moto il discernimento. Il discernimento quindi non può essere appiattito sulla questione della scelta, ma esso presuppone una consapevolezza di quello che c’è in noi, a partire proprio da questa mancanza. Per usare un’immagine, potremmo dire che il discernimento presuppone la nostra interiorità come un setaccio. Attraverso il discernimento noi scopriamo anzitutto che cosa c’è dentro di noi, ovvero cosa c’è dentro il setaccio, dopo decideremo cosa farne.

Il punto di partenza è quindi la consapevolezza di una mancanza di senso. Questa mancanza può essere riletta in termini positivi come desiderio. Intraprendiamo un percorso di discernimento perché desideriamo trovare un risposta che non abbiamo.

Come dice la parola stessa de-siderio rimanda innanzitutto a un de– ovvero a una mancanza che ci costituisce. Ci portiamo sempre con noi un vuoto strutturale, una mancanza creaturale. Non possediamo la totale chiarezza sulle cose, ci manca sempre inevitabilmente un pezzo, ma paradossalmente è proprio questa mancanza che ci mette in moto, ci spinge a cercare, in altre parole ci fa vivere. Se non percepissimo più questa mancanza, saremmo morti!

Gesù Maestro di discernimento

Del resto è Gesù stesso che accompagna i discepoli e le persone che incontra in questo cammino di consapevolezza del proprio desiderio, necessario perché possa partire la vita spirituale. Anzi, il vangelo di Giovanni potrebbe essere riletto come un’educazione del desiderio: nel primo capitolo, Gesù si volge verso i discepoli che lo seguono e chiede loro «che cercate?» (Gv 1,38), cosa desiderate, cosa vi manca. Nel secondo capitolo manca il vino a Cana (cf Gv 2,1-12), a questa coppia manca ciò che serve per fare festa nella loro vita. Nel quarto capitolo non manca solo l’acqua, ma Gesù porta la donna samaritana a scoprire pian piano ciò che le manca veramente, un uomo da cui sentirsi veramente amata, lo sposo vero, Gesù che le parla (cf Gv 4,5-29). E poi nel capitolo sei le folle cercano il pane per continuare il loro cammino (cf Gv 6,1-14)… fino al capitolo 21 dove Gesù risorto chiede ai discepoli che sono andati a pescare: «avete qualcosa da mangiare?» e i discepoli non possono rispondere altro che «non abbiamo preso nulla», mettiamo davanti a te la nostra mancanza. Ed è ancora Gesù a donare loro quello che serve (cf Gv 21,1-12).

Il discernimento nasce dal desiderio…

Facciamo fatica a guardare in faccia il nostro desiderio perché significa riconoscere questo vuoto, fare i conti con l’ imperfezione e il nostro limite. Ma anche nell’accompagnamento non può che essere questo il punto di partenza: cosa stai cercando? Solo da questa domanda può nascere un percorso di discernimento.

Ma la parola de-siderio ha anche un’altra parte: sidussideris, che significa stella. È proprio questa mancanza che diventa anche direzione. La mancanza svela la strada su cui incamminarsi. Certo, le stelle possono essere viste solo di notte, ovvero in un momento di oscurità. I desideri emergono quando le cose non sono chiare. Chi infatti pretende di avere tutto chiaro o di controllare tutto, non lascerà mai spazio al desiderio e non intraprenderà mai un cammino di discernimento.

Un’immagine di questa capacità di cercare nella notte ci è offerta dalla figura dei magi nel Vangelo di Matteo (cf Mt 2,1-11): i magi lasciano le terre delle loro sicurezze per mettersi a cercare quello che desiderano. Provano gioia mentre seguono la stella, cioè il loro desiderio, ma prima ancora di aver trovato quello che cercano. E per cercare sono pronti a inoltrarsi anche in territori che non conoscono e che possono essere pericolosi.

Giocando ancora sulle parole, potremmo dire che quando nella nostra vita non ci sono desideri da seguire, la nostra vita diventa un dis-astro, una mancanza di stelle.

… coinvolge la nostra affettività

Se il discernimento parte dal desiderio vuol dire che coinvolge il nostro mondo affettivo. Se da un lato, questo può rendere il discernimento appetibile nella cultura di oggi, in cui le persone, e soprattutto i giovani, sentono l’esigenza di comunicare la loro affettività, dall’altro parte questo è un elemento che rende complicato il discernimento, a causa del nostro analfabetismo affettivo, cioè la nostra fatica a dare un nome a quello che si muove dentro di noi.

Abbiamo bisogno quindi di scende nel nostro setaccio e provare a vedere che cosa c’è. Il nostro corpo è il nostro punto di partenza: è nella nostra fisicità che si trova tutto quello che si muove in noi e che diventa oggetto del discernimento.

Il nostro corpo è innanzitutto costantemente stimolato in molti modi e il nostro corpo reagisce. Chiamo queste reazioni immediate e automatiche, in cui non c’è una componente cognitiva, emozioni. Le emozioni sono pubbliche: possono essere viste a causa delle loro manifestazioni somatiche o possono essere rilevate da tutti guardando i risultati della risonanza magnetica del mio cervello.

…interpella i nostri pensieri

Talvolta però noi cominciamo a pensare su quello che proviamo. Nascono così i sentimenti, che dunque sono generati dai nostri pensieri, opinioni, interpretazioni. Per questo i sentimenti sono privati, sono solo nostri e sono l’oggetto del nostro discernimento. Sentimenti e pensieri sono dunque sempre connessi: un sentimento svela che c’è un pensiero in atto di cui magari non siamo neanche pienamente consapevoli, così come un pensiero ha necessariamente un colore e genera un sentimento. Dovremmo perfino evitare di usare due termini distinti e provare a introdurre un unico termine che esprime l’indissolubile unità di pensiero e sentimento, potremmo parlare per esempio di pensimento.

Possiamo dunque individuare un primo livello di discernimento, in cui proviamo a riconoscere i pensieri che stanno dietro i nostri sentimenti. Prendiamo il caso per esempio che Mario debba sostenere un esame importante e che provi paura. Se Mario si chiedesse quale pensiero c’è dietro quella paura potrebbe scoprire forse che sta pensando «non ce la farò mai, non ho le capacità…», oppure la paura potrebbe evidenziare che Mario sta pensando «accidenti, ho l’esame tra una settimana e non ho ancora letto le ultime 100 pagine!». Nel primo caso la paura evidenzia un pensiero non utile, anzi dannoso e bloccante, sarebbe meglio perciò che Mario lasciasse perdere quel pensiero. Nel secondo caso, il pensiero è utile e può spingere Mario a darsi da fare. Analogamente sul piano spirituale ci chiediamo se dietro un sentimento ci sia un pensiero che viene da quello che Ignazio di Loyola chiama lo spirito buono o dallo spirito cattivo. Mettiamo il caso che Mario sia un novizio a cui il maestro vuole affidare un incarico, Mario sente dentro di sé un disagio perché è consapevole di non avere le competenze per rispondere a quella richiesta, ma d’altra parte non vuole dare l’impressione di non essere disponibile, vive perciò un conflitto tra due pensieri: «voglio riconoscere con onestà che il padre maestro non sa esattamente come stanno le cose» e «cosa ne sarà della tua immagine?». Discernere è quindi riconoscere, a partire dal sentimenti, quale pensiero c’è dietro e di conseguenza quale pensiero viene dallo spirito buono e quale dallo spirito cattivo.

Occorre anche precisare che talvolta i pensieri non vengono né dallo spirito buono né da quello cattivo, ma vengono semplicemente da me, da come io sono fatto, dalla mia personalità, dalla mia storia, dalla mia cultura… È fondamentale quindi riconoscere prima se un pensiero viene da me. Una volta riconosciuto che non viene da me, allora posso chiedermi da quale spirito mi giunge.

La preghiera luogo del discernimento

Il luogo privilegiato in cui riconoscere il materiale che c’è dentro il setaccio è la preghiera. Senza la preghiera, il discernimento diventa un processo strategico per prendere decisioni. Qui parliamo invece di discernimento spirituale.

Si tratta di una preghiera in cui ci lasciamo toccare dalla Parola di Dio. La premessa da cui partiamo è che Dio vuole spingerci verso il bene, ma al contempo, il Nemico cercherà di impedirci di raggiungere quel bene. Siamo dunque inevitabilmente una campo di battaglia in cui avviene la lotta degli spiriti.

Talvolta possiamo assumere atteggiamenti difensivi davanti alla Parola di Dio e può sembrarci che non riusciamo a provare niente, ma probabilmente intuiamo che possiamo essere toccati dalla parola e perciò costruiamo delle barriere. Avviene così per esempio nel primo capitolo del vangelo di Marco (cf Mc 1,21-25), quando Gesù entra nella sinagoga di sabato e c’è un uomo che probabilmente ogni sabato si recava nella sinagoga per ascoltare la Parola di Dio eppure non si era mai accorta di essere abitato da uno spirito impuro. Solo quando Gesù pronuncia quella parola con più forza, quell’uomo viene toccato. Lo spirito impuro dice infatti: «perché sei venuto a colpirci?». La Parola di Dio infatti ci colpisce e quando ci colpisce può farci male. Lo spirito impuro sa chi è Gesù. Così anche noi, proprio perché conosciamo Gesù, evitiamo di essere toccati dalla sua parola.

La Parola di Dio ci tocca e provoca in noi sentimenti che rivelano o nascondono i pensieri che sono in atto dentro di noi.

Il discernimento richiede tempo, autenticità, pazienza

Capiamo così perché il discernimento non riesca a essere di moda. Esso infatti richiede una responsabilità personale. Oggi invece viviamo in una cultura in cui si fa fatica a prendersi delle responsabilità, è un tempo in cui non ci sono né padre né maestri. Le persone, anche i giovani, preferiscono delegare le loro scelte, cercano il guru o il leader carismatico a cui trasferire la loro responsabilità di scegliere. Ci sono anche coloro che preferiscono affidarsi alla spontaneità, ma la spontaneità non è mai autenticità. Siamo autentici quando riconosciamo i venti che soffiano sulla nostra barca e decidiamo come usarli per andare dove abbiamo scelto di andare. Se invece ci lasciamo spingere dai venti senza riconoscerli o senza usarli, andremo a finire su spiagge che non abbiamo scelto o addirittura a sbattere sugli scogli. Il discernimento dunque richiede tempo, proprio come ci insegna la parabola del grano e della zizzania (cf Mt 13,24-30). All’inizio il grano e la zizzania sono simile, dobbiamo aspettare per vedere cosa toglie vita e cosa dà vita. Lo stesso vale per noi: occorre guardare dentro di noi e prendere consapevolezza pian piano di quello che viene da Dio e di quello che viene dal Nemico. Ma ad un certo punto ci sarà la chiarezza sufficiente per poter decidere e lì abbiamo la responsabilità di farlo. È un po’ come quando dobbiamo comporre un puzzle: non abbiamo bisogno di avere tutte le tessere per capire qual è l’immagine che sta venendo fuori. A un certo punto avremo tessere sufficienti per capire di cosa si tratta. Anzi, nella vita, di fatto non avremo mai tutte le tessere a disposizione. La vita è un puzzle in cui ci mancherà sempre qualche tessera. Alcuni si illudono di attendere di avere tutti i pezzi per decidere e proprio per questo restano indecisi a vita.

II Parte

Usa la testa.

Interpretare la voce di Dio tra pensieri, parole e spirito

Negli Esercizi spirituali Ignazio di Loyola ci propone alcune serie di regole per affrontare un discernimento. Ignazio le introduce con queste parole: «Regole per sentire e conoscere in qualche modo le varie mozioni che si producono nell’anima: le buone per accoglierle e le cattive per respingerle; e sono più proprie della prima settimana». Il presupposto antropologico che soggiace alle considerazioni di Ignazio è dunque che ci sia una regolarità nel modo in cui funziona la nostra interiorità, sebbene sia una regolarità approssimativa, non matematica, come dimostra l’espressione “in qualche modo” che Ignazio aggiunge nel titolo. Il termine regola è da intendere da un lato nel senso etimologico, ovvero ciò che ha a che fare con il ‘regolo’, con una misura con cui confrontare. Le regole sono misure grazie alle quali posso valutare quello che c’è in me. L’altro riferimento, che certamente Ignazio ha in mente, è l’uso della regola monastica: regole come modelli di riferimento. Le regole che vedremo fra poco sono specificamente adatte a un particolare momento in cui avviene l’elezione, cioè la scelta. Ignazio distingue infatti tre tempi dell’elezione [EE 175-177], cioè tre situazioni in cui ci possiamo trovare quando siamo in procinto di scegliere:

Primo tempo [EE 175]: possibilità di in intervento diretto dello Spirito santo sulla volontà, talmente convincente da portare a precise, indiscutibili, definitive scelte.

Secondo tempo [EE 176]: la ricerca della divina volontà tramite il discernimento delle mozioni. Ed è qui che si inserisce più propriamente l’uso delle regole che vedremo.

Terzo tempo [EE 177]: attivando la ragione.

Primo tempo: il tempo della rivelazione

  1. Green lo chiama tempo della rivelazione.

Ignazio stesso ne aveva fatto esperienza: nell’autobiografia racconta che, avendo fatto il proposito di non mangiare carne, una mattina gli si presentò la visione di carne pronta per essere mangiata e, nonostante il suo proposito, non poteva dubitare sull’assenso da dare a questa spinta. È importante notare quanto segue, ovvero che Ignazio verifica, quanto ha sperimentato, con il confessore.

Secondo tempo: il tempo proprio del discernimento

È il metodo che Ignazio predilige. Solo questo di fatto è il tempo propriamente del discernimento. In questo tempo la priorità è assegnata all’elemento affettivo, non a quello intellettivo. È qui che occorre considerare consolazioni e desolazioni. Questo metodo secondo Ignazio è da privilegiare rispetto al terzo tempo perché qui c’è un intervento diretto di Dio sebbene sia da riconoscere con prudenza.

Terzo tempo: il ragionamento intellettuale

Nel caso in cui il ricorso al discernimento degli spiriti non abbia prodotto i frutti sperati – o perché gli spiriti non ci agitano, o perché non si è pervenuti a soddisfacente soluzione, o perché quella prospettata “non sembra buona” – bisogna passare al “tempo tranquillo” o, come lo indica il Direttorio autografo, al terzo modo del ragionamento intellettuale. La condizione necessaria è che si goda di libertà e di tranquillità: «Quando l’anima non è agitata da vari spiriti e usa le sue facoltà naturali liberamente e tranquillamente» [EE 177,3].

La regola fondamentale

Oltre ai tempi dell’elezione, quando si tratta di considerare i nostri movimenti affettivi (secondo tempo), Ignazio distingue anche tra una serie di regole più adatte alla prima settimana (per chi è all’inizio di un cammino spirituale, ma che possono essere usate anche in altri momenti, in quanto ci capita di ritornare come all’inizio del nostro percorso spirituale) e regole della seconda settimana più adatte a chi si trova più avanti nel cammino spirituale. Questa distinzione si trova nelle prime due regole [EE 314-315] che condensano quella che potremmo definire come la regola fondamentale. Occorre chiarire a noi stessi se stiamo andando di peccato mortale in peccato mortale, cioè se stiamo andando verso il nostro io, verso l’egoismo, la sensualità, l’orgoglio, la vendetta… o se stiamo andando onestamente verso Dio, così come possiamo, cercando di impegnarci con le nostre forze. In ciascuna di queste due situazioni, lo spirito buono e lo spirito cattivo agiranno in modo diametralmente opposto:

  • Se una persona sta andando verso il suo io, allora lo spirito cattivo cercherà di confermarla in questa situazione agendo sui suoi canali affettivi, dando soddisfazione, piacere, autocompiacimento.
  • Se una persona sta andando verso il suo io, allora lo spirito buono cercherà di dissuaderla, creando agitazione, inquietudine, mediante il ragionamento, dal momento che i canali affettivi sono già occupati dallo spirito cattivo.
  • Se una persona sta andando verso Dio, lo spirito buono la incoraggerà, le darà conforto, sostegno, fiducia.
  • Se una persona sta andando verso Dio, lo spirito cattivo cercherà di frenarla, facendo leva soprattutto sui pensieri, creando false ragioni, ingigantendo gli ostacoli, confondendo il volto e la Parola di Dio.

Sebbene sia alquanto semplice riconoscere quando stiamo andando verso Dio, è più complicato ammettere a noi stessi quando stiamo andando verso il nostro io, quando cioè ci troviamo in una situazione di peccato. Per questo motivo è importante ricordare che le regole del discernimento sono inserite all’interno del percorso degli Esercizi che si svolge inevitabilmente in un contesto dialogico, dove cioè l’esercitante è accompagnato da colui che dà gli Esercizi. Questo aspetto è rilevante perché quando siamo in una situazione di peccato, solo un altro può farci da specchio e aiutarci a prenderne consapevolezza, come nell’episodio in cui il profeta Natan racconta a Davide una storia per aiutarlo a riconoscere quello che sta vivendo (cf 2Sam 12).

Dentro il nostro analfabetismo affettivo

Una delle difficoltà del discernimento è l’incapacità di dare un nome alle nostre mozioni ovvero ai nostri sentimenti. Il nostro analfabetismo affettivo è sicuramente uno dei motivi per cui non riusciamo a discernere. Per questo Ignazio definisce due grandi gruppi di sentimenti, in base alla direzione del movimento: quelli che ci fanno sentire che stiamo andando verso Dio, e che Ignazio raccoglie sotto il nome di consolazione, e quelli che invece ci fanno sentire lontano da Dio e che Ignazio chiama desolazione [EE 316-317]. Da questa distinzione deriva la prima regola pratica [EE 318]: quando siamo nel tempo della desolazione è meglio non prendere alcuna decisione o non cambiare la decisione presa in precedenza nel tempo della consolazione. Nella desolazione siamo infatti maggiormente esposti al soffio dello spirito cattivo, tenderemo a prendere decisioni sulla base della rabbia, dello scoraggiamento, della delusione… Ignazio dedica più attenzione alle situazioni di desolazione perché sono certamente quelle più rischiose (nonché più frequenti). Dal momento che nelle situazioni di desolazione non possiamo prendere decisioni o cambiare quelle prese in precedenza, possiamo però provare a cambiare noi stessi, provando a intensificare la preghiera, la meditazione, esaminandoci di più, mettendo in atto qualche penitenza [EE 319]. Già qui vediamo che Ignazio ritiene che la desolazione si possa vincere attraverso uno sforzo della volontà che reagisce alla tentazione di assecondare la direzione innescata dalla desolazione. La desolazione può anche essere, come abbiamo visto nell’esposizione della regola fondamentale, un modo in cui Dio vuole riportarci verso di lui o far emergere le nostre risorse. Ignazio precisa infatti che anche nella desolazione, sebbene abbiamo la sensazione di essere lontani da Dio, non siamo però lasciati senza la grazia sufficiente [EE 320]. Nella desolazione viene meno l’aiuto straordinario di Dio, ma non la grazia ordinaria con cui possiamo far fronte alle situazioni. Questa regola è da mettere in relazione con quanto Ignazio dice successivamente [EE 322] a proposito dei motivi per i quali Dio può talvolta metterci in una situazione di desolazione: occorre interrogarsi per esempio sul modo in cui stiamo portando avanti la nostra vita spirituale, forse Dio vuole scuoterci dalla nostra tiepidezza, dalla pigrizia, dall’accidia. In secondo luogo, potrebbe trattarsi di un modo per prendere consapevolezza delle nostre risorse: quando non abbiamo il vento in poppa, occorre mettersi a remare e così scopriremo la nostra forza senza adagiarci necessariamente sull’aiuto che può venirci dall’esterno. Per usare un’immagine è come un cavallo che impara a correre senza essere sempre sollecitato dalle zollette di zucchero. Può essere anche un modo in cui Dio ci fa prendere consapevolezza che la consolazione non dipende da noi e che non è dovuta a un nostro merito. Ignazio usa l’immagine di chi fa il nido in casa d’altri, cioè di chi si appropria di qualcosa che non è suo. Questa desolazione è dunque fisiologica nel corso del cammino di chi sta progredendo nella vita spirituale, ma che potrebbe essere indotto ad attribuire alle proprie capacità il merito dei suoi progressi. In altre parole, Dio ci rimanda alla gratuità di quello che viviamo. L’esercitante lo imparerà ancora meglio nella contemplazione per raggiungere l’amore [EE 230-237], quando, alla fine degli Esercizi aprirà gli occhi sul fatto che tutto quello che c’è nella sua vita è un dono. E questi doni comprendono ovviamente anche la consolazione. L’immagine di una barca alle prese con i venti diversi che continuamente la muovono potrebbe dare l’idea di una persona che si trova a vivere continuamente stati d’animo molto diversi. In un certo senso è vero, perché siamo sempre un campo di battaglia, per usare un’altra immagine di Ignazio, in quanto Dio ci spinge sempre verso il bene e il Nemico della natura umana cerca di impedirci di arrivare al nostro bene. Proprio per evitare questo spiacevole mal di mare tra i marosi della vita, Ignazio suggerisce alcune regole molto semplici, ma che ci aiutano a trovare un equilibrio nella vita per non risultare persone che passano da un estremo all’altro. Se infatti quando siamo nella consolazione siamo al settimo cielo e quando siamo nella desolazione sprofondiamo sotto terra, gli altri ci percepiranno come persone inaffidabili e imprevedibili.

Accorgimenti per vivere in equilibrio nell’ordinarietà della vita

Per questo motivo Ignazio suggerisce alcuni accorgimenti che ci aiutano a mantenere un certo equilibrio nell’ordinarietà della vita. Quando siamo nella desolazione, occorre esercitare la virtù della pazienza [EE 321]. La tentazione cercherà infatti di persuaderci che il tunnel non avrà mai fine. La pazienza ci aiuta a camminare per progredire verso l’uscita dal tunnel. Nella desolazione occorre ricordarsi che abbiamo la grazia sufficiente, cioè la forza necessaria, per affrontare le difficoltà della vita [324]. Pazienza e speranza sono dunque gli atteggiamenti che deve esercitare chi è nella desolazione. Dall’altra parte, quando siamo nella consolazione occorre progredire nella virtù dell’umiltà, ricordando che quella consolazione è un dono, non ci appartiene e potrebbe terminare. La consolazione è dunque il momento in cui facciamo il nostro rifornimento [EE 323], come le auto da corsa nel pit stop! Riceviamo energia per affrontare il tempo della desolazione che inevitabilmente prima o poi arriverà. Le ultime tre regole [EE 325-327] sono dedicate specificamente a descrivere alcuni modi in cui il Nemico opera dentro di noi per allontanarci dal bene verso cui Dio ci sta spingendo. La prima di queste regole possiamo chiamarla un invito ad agere contra, cioè a re-agire nella direzione opposta della tentazione, una volta che l’abbiamo scoperta. Ignazio usa l’immagine della relazione uomo-donna. Oggi questo paragone è alquanto impopolare, ma forse Ignazio aveva colto un aspetto della psicologia femminile. L’idea di Ignazio è che se ci facciamo vedere deboli davanti alla tentazione (paragonata appunto a una donna), la tentazione prenderà allora più forza e ci vincerà. Occorre dunque non farsi vedere deboli, non accettare passivamente quello che il Nemico sta operando dentro di noi. Pensiamo per esempio a quello che succede quando ci troviamo su un piano inclinato: se procediamo nella direzione del piano inclinato, non potremo che precipitare, se invece ci muoviamo nella direzione opposta, allora potremo rimettere il piano in equilibrio. Se per esempio siamo tentati di metterci sempre al centro delle situazioni e ce ne rendiamo conto, possiamo provare a metterci da parte anche quando non sarebbe necessario. Ignazio applicava questa regola per esempio al tempo della preghiera: se la preghiera è arida e ci viene voglia di ridurre il tempo che abbiamo fissato per la preghiera, il consiglio è di re-agire e di pregare un minuto in più del tempo fissato. Nella seconda regola Ignazio paragona invece il Nemico a un falso innamorato che cerca di sedurre la fanciulla di buona famiglia o la donna sposata. Ciò che Ignazio vuole mettere in evidenza nel modo di agire del Nemico è la spinta a tenere tutto nascosto, magari col pretesto della vergogna o della buona fama o dell’irrilevanza o dell’inutilità di una condivisione. Quando avvertiamo la spinta a tenere tutto nascosto, dice Ignazio, occorre invece trovare le occasioni opportune per confrontarsi su quello che sta avvenendo in noi. Con un’immagine moderna potremmo parlare della necessità di accendere la luce per vedere cosa sta avvenendo nella nostra stanza interiore. Il Nemico infatti vuole operare nel buio per non essere scoperto. Quando dentro di noi le cose rimangono in ombra e non le vediamo possono sfuggire al nostro controllo. Mantenendo tutto nascosto, la persona non può neppure essere aiutata. Pensiamo per esempio a un bambino che ha preso un brutto voto a scuola. La tentazione sarà probabilmente quella di tenere tutto nascosto per non essere rimproverato, in questo modo però si toglie anche l’opportunità di essere aiutato dai genitori. Se il bambino confida quello che è accaduto, probabilmente sarà rimproverato, ma i suoi genitori potranno anche aiutarlo. Il Nemico cerca quindi di evitare che noi stabiliamo un rapporto filiale, di fiducia, con Dio. Con un’altra espressione ancora potremmo dire dialogus versus diabolum, il dialogo allontana la tentazione, ovviamente si tratta di un dialogo con persone e in luoghi in cui possiamo sentirci sicuri e accolti. Nell’ultima regola Ignazio paragona il Nemico a un condottiero che gira intorno a una cittadella per scorgerne le brecce, i punti deboli attraverso cui passare. Noi siamo come questa cittadella e dunque può essere utile un’esplorazione della nostra interiorità per riconoscere i nostri punti deboli e ripararli per quanto possibile. Ancora una volta, come vediamo, il tema è quello della consapevolezza. Qui si tratta di conoscere la nostra fragilità, i nostri limiti, i luoghi che per noi rappresentano più facilmente occasioni di peccato. A tal fine può essere utile tenere un diario spirituale, perché nel nostro esame potremo fare attenzione a quello che ci ha allontanato dal bene. Con l’andare del tempo, rileggendo il nostro diario, noteremo che alcune cause si ripetono più spesso, probabilmente quelle sono le brecce da riparare in modo più urgente. Man mano che andremo avanti nella vita spirituale, il Nemico affinerà le sue strategie di seduzione e comincerà a parlarci con un altro linguaggio, questo sarà sviluppato nelle cosiddette regole della seconda settimana.

Nel tempo delle scelte

Quella che Ignazio chiama la seconda settimana è il tempo in cui la vita ci invita a decidere e a deciderci, è il tempo delle scelte, è soprattutto il tempo della scelta radicale di seguire Cristo. Se la prima settimana è il tempo della purificazione, il tempo in cui l’uomo ha guardato in faccia il bene e il male e si è deciso a scegliere il bene, la seconda settimana è il momento in cui scegliamo come incarnare il bene specificamente nella nostra vita. È la scelta del nostro modo di seguire Cristo. Attraverso i nostri sentimenti, Dio ci spinge verso il nostro bene, ci aiuta a vedere dov’è il meglio per noi, ma siamo comunque noi, nella nostra libertà e con la nostra responsabilità, ad essere chiamati a decidere della nostra vita. È fondamentale arrivare a questo momento dopo aver detto il nostro “no” al peccato. Siamo in una fase della vita in cui, sebbene ancora tentati e inclini al peccato, abbiamo imparato a riconoscere il bene e abbiamo deciso di perseguirlo con tutte le nostre forze, nonostante le cadute possibili. Il percorso della prima settimana ci ha purificati dalle false immagini di Dio e, liberando i nostri occhi, ci ha permesso di vedere noi stessi con lo sguardo stesso di Dio. Colui che si trova in questa fase descritta dal cammino degli Esercizi spirituali, comincia ad aprirsi probabilmente agli altri, desidera prendersi cura degli altri. L’esperienza della misericordia di Dio ci libera infatti dal nostro egoismo radicale e dalla nostra costante inclinazione a ripiegarci su noi stessi. La seconda settimana è la fase in cui l’esercitante ha trovato il suo vero bene, il fondamento della sua vita. Per questo, probabilmente, non andrà più in cerca di nuovi stimoli, non è più mosso da quella vana curiosità che in passato lo ha spinto a passare da un fiore all’altro in cerca di gratificazioni e risposte. Adesso ha trovato quello che cercava. I Padri del deserto suggerivano di imparare, in questo tempo, ad essere sobri, a non disperdersi, ma a custodire quello che sentiamo di aver trovato. Ovviamente anche nel tempo della seconda settimana non manca la lotta degli spiriti: lo spirito di Dio cercherà di confermarci nel nostro progetto, nel nostro fermo desiderio di seguire solo il Signore. Lo spirito buono ci incoraggia, ci sostiene, ci scalda il cuore.

Per aiutarci a capire lo stile dello spirito buono in questa fase, Ignazio lo paragona ad una goccia che cade su una spugna: non fa rumore, ma penetra dolcemente nell’interiorità. O, con un’altra immagine, Ignazio paragona lo spirito buono a un uomo che entra nella sua propria casa (la nostra anima), senza strepito, perché quella casa gli appartiene e può entrarvi quando vuole: il Signore ha le chiavi del nostro cuore. Al contrario, lo spirito cattivo cercherà di fermare il nostro cammino dietro al Signore, cercherà di scoraggiarci, di ricordarci il nostro peccato, ci farà vedere grandi ostacoli, ci farà credere che non possiamo farcela. Proprio perché il nostro cuore, i nostri affetti, sono riempiti, lo spirito cattivo dovrà agire, in questa fase in cui cerchiamo di seguire il Signore, soprattutto sui nostri pensieri, cerca di entrare nei nostri ragionamenti, distorce il nostro modo di pensare. In questa fase, perciò, occorre stare molto attenti al corso dei nostri pensieri, perché è soprattutto lì che il Nemico cercherà di annidarsi. Anche in questo caso Ignazio usa delle immagini: parla dello spirito cattivo come di una goccia che cade sulla pietra, fa solo rumore. Ancora, dice Ignazio, lo spirito cattivo somiglia a un ladro che per entrare deve scassinare la porta della casa (la nostra anima). Se stiamo cercando di seguire Dio generosamente, è molto probabile che la desolazione venga dallo spirito cattivo.

Imparare a riconoscere le strategie del tentatore

Essere nel tempo della seconda settimana vuol dire aver imparato a riconoscere il linguaggio e le strategie della tentazione. Proprio per questo, per sedurci, lo spirito cattivo cambia linguaggio e si mette ad imitare il linguaggio dello spirito buono per ingannarci. Potremmo dire che il Nemico usa la tecnica del cavallo di Troia. Ci propone dei pacchetti regalo, avvolti in carte brillanti e con fiocchi appariscenti, ma dentro, una volta che li abbiamo scartati, troviamo situazioni che ci intrappolano.  Presi per esempio dallo zelo di voler seguire il Signore, non ci rendiamo conto di dove ci possano portare certe scelte che in sé sembrano buone: possiamo ad esempio prenderci degli impegni, mossi dalla nostra generosità, che con il tempo ci inaridiscono, ci stancano, ci mettono davanti ai nostri limiti e ci fanno credere che non siamo capaci in realtà di seguire il Signore. In questa fase la tentazione può anche insinuarsi sotto la forma di un eccessivo amore per se stessi: con il pretesto di prenderci cura del nostro cammino spirituale, il Nemico può indurci ad occuparci eccessivamente di noi stessi, dimenticandoci delle persone e delle situazioni che sono intorno a noi. In altre parole, questo tempo è segnato dallo slancio e dal sacrificio, ma su questi fuochi soffiano entrambi gli spiriti, sia quello buono che quello cattivo! Accade infatti che la conversione lasci spazio all’azione nella propria vita. Il nemico prova allora ad insinuarsi nell’azione: pian piano può succedere che la persona cominci ad identificarsi con il proprio servizio, con la propria missione, con il proprio gruppo, con il proprio movimento di appartenenza. Dio, di conseguenza, viene messo a poco a poco in secondo piano. Quando si comincia a reagire ferocemente nei confronti delle persone o delle situazioni che mettono in discussione le nostre scelte, il nostro stile, la nostra missione o la nostra opera, vuol dire che il Nemico è riuscito a mettere di nuovo il nostro IO al posto di Dio.  Quando ci trasformiamo in giustizieri di Dio che condannano senza misericordia coloro che la pensano diversamente da noi, quando pretendiamo di fare della nostra esperienza di conversione un modello per tutti gli altri, quando ci si sente sempre in dovere di elargire consigli per la vita degli altri, allora il Nemico è riuscito a farci perdere di vista la nostra vita spirituale, il nostro bisogno di conversione. Il Nemico è riuscito ad ingannarci, mostrandoci una falsa immagine di noi stessi.

Un cammino che chiede confronto per riconoscere e decidersi

L’antidoto contro queste tentazioni sta nel mantenere vivo il confronto con un altro: sia con la propria guida spirituale sia con la lettura di testimoni del Vangelo che ci hanno preceduto nell’esperienza di conversione. Nella vita dei testimoni del Vangelo possiamo più facilmente riconoscere le analogie con il modo in cui lo spirito buono e lo spirito cattivo operano anche dentro di noi. Nel colloquio spirituale possiamo abbandonare il nostro punto di vista e lasciare che nel confronto con il punto di vista di un altro fiorisca la proposta dello Spirito santo.