N.05
Settembre/Ottobre 2018

Accompagnamento si, acompagnamento no

ACCOMPAGNAMENTO SÌ, ACCOMPAGNAMENTO NO

L’accompagnamento appartiene alla Tradizione: i Vangeli narrano il percorso di discepolato degli apostoli e di coloro che, affascinati dalla persona di Gesù, da lui si sono lasciati condurre in un itinerario di trasformazione interiore. In seguito, tutta la storia della Chiesa è attraversata da figure di grandi e piccoli accompagnatori, capaci di favorire in chi li seguiva il discernimento e l’apertura del cuore. Molto prima di Gesù, però, le pagine della Scrittura ci presentano il più grande modello di accompagnatore. Nel giardino dell’Eden quando – a causa della trasgressione commessa – l’uomo si ritrova fragile e peccatore, Dio non interviene rimproverando e castigando. Egli preferisce porre delle domande: “Dove sei?”, “Chi ti ha fatto sapere che sei nudo?”, “Hai forse mangiato dell’albero che ti avevo comandato di non mangiare?”, “Che hai fatto?” (Gen 3, 9 ss.). Dio non ha certo bisogno di chiedere ad Adamo dove è, per trovarlo; Adamo ed Eva, invece, abitati per la prima volta dalla percezione della loro vulnerabilità, necessitano di qualcuno che impedisca loro di nascondersi e fuggire, e sappia aiutarli a “trovarsi”, a diventare consapevoli di tale drammatica novità. Questa presa di coscienza, tuttavia, avviene all’interno di una relazione con Colui che – realisticamente – descriverà le drammatiche conseguenze del loro atto, ma in un contesto aperto alla fiducia e alla speranza: quella della distruzione del serpente seduttore, le cui parole sono all’origine della tentazione e della caduta. La Parola e la Tradizione attestano la necessità dell’accompagnamento come esperienza di consapevolezza, di discernimento, di ricerca di senso, di attrazione verso valori capaci di dare spessore e significato all’esistenza. Con uno sguardo diverso, ma complementare, anche le scienze umane – in particolare la psicologia – mettono in risalto il profondo bisogno, presente in ogni individuo, di essere messo in questione, guidato, orientato verso una vita piena. Tale necessità è confermata da due possibili approcci, – differenti ma non discordanti – all’analisi dell’essere umano: la prospettiva psicodinamica e quella evolutiva.

La prima evidenzia la presenza – nell’interiorità di ogni persona – di spinte complesse e talvolta anche opposte, che spesso sfuggono alla nostra consapevolezza in quanto presenti a livello inconscio. Da queste forze contraddittorie, infatti, ognuno di noi spesso si protegge, senza volerlo, a causa dell’utilizzo spontaneo di meccanismi di difesa, funzionali ad evitare la presa di coscienza di verità scomode, che potrebbero offuscare l’immagine di sé. Già nel racconto della Genesi troviamo un esempio evidente di tale atteggiamento difensivo: sia Adamo che Eva, invece di riconoscere il proprio peccato e di assumerne la responsabilità, rimandano ad un altro – la donna, il serpente, se non addirittura a Dio nel versetto “che tu mi hai posto accanto” (Gen 3,12) – la colpa del loro atto. L’approccio evolutivo, invece, considera la persona come un individuo in crescita, chiamato ad attraversare, superandole, un certo numero di fasi, ad ognuna delle quali corrisponde la risoluzione di compiti caratteristici di un determinato periodo di vita.

Accompagnamento e aiuto psicologico

L’accompagnatore non è chiamato ad essere psicologo. Come annota giustamente il Documento preparatorio al sinodo dei Vescovi: “Lo psicologo sostiene una persona nelle difficoltà e la aiuta a prendere consapevolezza delle sue fragilità e potenzialità; la guida spirituale rinvia la persona al Signore e prepara il terreno all’incontro con lui[1]”. Il modo in cui il Documento descrive il compito della guida spirituale, oltre a differenziarla rispetto all’esperto in scienze umane, ne mette in risalto due aspetti: il favorire, alimentare, far crescere la relazione con il Signore e la preparazione del terreno. L’attenzione dell’accompagnatore è dunque chiamata a focalizzarsi su tre dimensioni: quella spirituale, quella psicologica – non intesa però in senso clinico, ma come dimensione dell’esistenza – e l’interrelazione fra questi due elementi, che possono opporsi l’un l’altro o energizzarsi reciprocamente. Pensiamo, per esempio, a quanto può essere utile per un giovane costruire un rapporto di fiducia con un padre o una madre spirituali e come tale relazione possa trasformarsi anche in una via a Dio, in occasione di approfondimento del rapporto di fiducia con Gesù e con il Padre. Per contro, preparare il terreno potrà voler dire anche l’individuazione da parte della guida di bisogni, atteggiamenti, emozioni – quali, per esempio, l’insicurezza, l’aggressività, la passività – che si collocano a livello psicologico benché possano anche costituire un ostacolo alla crescita nello spirito. Compito dell’accompagnatore, di conseguenza, è di collaborare con l’azione dello Spirito Santo in un’attività che si attua su due fronti: su quello dello spirito, egli è chiamato a suscitare attrazione verso “il mondo di Dio” con la testimonianza e la proposta (scoprire il vangelo, i sacramenti, la preghiera, la lettura degli autori spirituali, le esperienze comunitarie e di servizio); sul versante psicologico, suo compito è di educare al discernimento per aiutare il giovane a “interpretare i movimenti del cuore”[2]. In questo compito delicato e impegnativo, sarà importante fare ricorso a due strumenti che risultano preziosi nel colloquio spirituale: il porre domande e il confrontare. Le prime favoriscono l’interrogarsi su se stessi, sulle motivazioni personali, sull’agire; esse aiutano anche a dilatare l’orizzonte – spesso così ristretto – a riconoscere e valorizzare i talenti, a esplorare nuove possibilità, vincendo la tentazione di pensare la propria esistenza come un quadretto ricamato a mezzopunto, quando Dio vorrebbe farne un meraviglioso arazzo. Emblematica, in questo senso, è la domanda che Gesù pone ai suoi all’inizio del vangelo di Giovanni: “Che cosa cercate?” (Gv 1,38), domanda capace di trasformare la vita dei discepoli in un continuo percorso di ricerca, che culminerà nel ritrovamento – il giorno di Pasqua – della perla di inestimabile valore: Gesù risorto, presente in mezzo a loro. La confrontazione, invece, ha lo scopo di sottolineare le contraddizioni, le incongruenze presenti in comportamenti talora incoerenti o il divario presente tra le dichiarazioni verbali, che fanno supporre un reale interesse per la sequela di Gesù, e il vissuto quotidiano, in cui prevale l’attrazione per le mode e i valori di una società scristianizzata. Anche l’approccio evolutivo non solo giustifica ma mette in risalto la necessità di un accompagnamento. Il suo scopo, infatti, può essere ben descritto dalle parole della lettera agli Efesini: “Finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4,13). Siamo chiamati a diventare creature nuove, uomini e donne psicologicamente e spiritualmente maturi, lasciando da parte i residui dell’infanzia e dell’adolescenza in tutto quanto riguarda la nostra vita, inclusa l’esperienza di fede. Anche in essa, infatti, rischiamo di mantenere atteggiamenti infantili e adolescenziali quali la superstizione, il disimpegno, l’incostanza, la superficialità, il moralismo grandioso e tutto ciò che rischia di trasformare Dio in un idolo. L’accompagnare si colloca allora all’interno di quel compito tipico dell’adulto: la generatività[3]. Tale termine rimanda alle teorie dello psicologo evolutivo Erik Erikson, secondo il quale lo sviluppo umano dall’infanzia alla vecchiaia si dispiega lungo un percorso costituito da otto fasi; ogni fase è caratterizzata da un comportamento che pone la persona di fronte a una crisi di cui è necessario trovare la risoluzione. Il neonato, per esempio, si trova a dover affrontare il difficile compito di sviluppare una fiducia di base, superando così la paura e il senso di minaccia che possono accompagnare la drammatica esperienza del venire al mondo. L’accompagnamento – dato e ricevuto – riguarda in particolare tre fasi specifiche all’interno del percorso elaborato da Erikson: l’adolescenza, stadio dello sviluppo dell’identità come salvaguardia dalla diffusione dei ruoli; la giovinezza, fase dell’intimità in alternativa al pericolo di isolamento; e l’età adulta, in cui il conflitto si presenta tra generatività e stagnazione. Tale itinerario risponde, quindi, a un bisogno particolarmente importante per l’adolescente, rafforza il cammino del giovane e permette all’adulto di esprimere le potenzialità specifiche della sua età. Più precisamente, l’adolescente, alla ricerca della propria identità, ha bisogno di superare la confusione e le contraddizioni che caratterizzano questa fase della vita, esplorando sé diversi, diventando consapevole dei propri gusti, passioni, interessi, potenzialità e limiti, ma anche affacciandosi a un mondo di valori in cui trovare il senso dell’esistenza. Dal canto suo, il giovane, è orientato al consolidamento della propria identità che realizza intessendo rapporti di amicizia maturi e coinvolgendosi affettivamente con un partner. È questo anche il tempo in cui orientarsi verso scelte definitive, dopo aver intuito qual è la chiamata a cui si vuole rispondere.

In entrambi i casi la figura di un adulto, come modello positivo di identificazione, come esempio e testimone, come facilitatore di un saggio discernimento e propositore di valori e ideali, risulta insostituibile. La generatività, intesa come capacità di occuparsi dell’altro e di prendersene cura, assumendo la responsabilità di garantire l’inserimento nella vita delle generazioni successive, appare allora come l’opportunità per l’adulto di realizzare il compito che caratterizza la sua fase di vita e, nello stesso tempo, di rispondere alle esigenze dei più giovani.

Capaci di accompagnare?

La Scrittura, la Tradizione e le scienze umane sembrano, dunque, convergere nell’affermare la necessità di un accompagnamento. Dal punto di vista psicologico esso si configura come lo strumento che permette di evitare i tre grandi rischi presenti nelle fasi della vita prese in considerazione: il pericolo della diffusione di identità, in cui il ragazzo non riesce a individuarsi, vive una sorta di confusione rispetto al proprio Sé, che percepisce come instabile, incoerente e non adeguatamente separato dagli altri. Il giovane, invece, può incorrere nel grande rischio dell’isolamento, in cui si rifugge dalla relazione, evitando sia l’intimità sia le naturali spinte all’amicizia e alla solidarietà. Se l’accompagnamento ricevuto costituisce – se non una necessità – almeno un aiuto utilissimo e importante per l’adolescente e il giovane, l’accompagnamento offerto rappresenta invece per l’adulto un’occasione favorevole, che gli permette non solo di esprimere i propri talenti, ma di realizzare i compiti evolutivi tipici di questa fase dell’esistenza. L’alternativa alla generatività, infatti, è la stagnazione, intesa come condizione d’immobilità, chiusura rispetto all’alterità, indifferenza e disillusione, incapacità di porsi con realismo rispetto alla propria condizione di vita.

La grande domanda che si pone, quindi, alla nostra epoca e al nostro contesto culturale non riguarda tanto la necessità dell’accompagnamento quanto la sua possibilità di concretizzazione. All’interrogativo preso in considerazione – “Accompagnamento sì. Accompagnamento no” – se ne potrebbe forse sostituire un altro: “Oggi è possibile accompagnare?”. Si tratta di una domanda che forse rimanda a tante fatiche, frustrazioni, problematiche che le guide spirituali attualmente si trovano a dover affrontare. In un’epoca di cambiamenti epocali l’adulto si interfaccia con un mondo di adolescenti e di giovani i quali non solo “funzionano” in modo estremamente diverso rispetto alle generazioni precedenti, ma che devono anche affrontare problematiche del tutto nuove rispetto al passato. L’interrogativo sarebbe, tuttavia, affrontato solo in parte se, di fronte a tale problema, gli accompagnatori spirituali non mettessero prima di tutto in questione se stessi. È quindi indispensabile interrogarsi rispetto alla qualità dell’accompagnamento e alla capacità dell’adulto di essere credibile. Sarebbe, infatti, molto riduttivo, da parte degli accompagnatori, focalizzarsi unicamente sulle difficoltà – realistiche e oggettive – incontrate, senza mettersi in questione rispetto al proprio ruolo e ai compiti a esso connessi. La nostra epoca, infatti, è attraversata da molte crisi, non ultima una crisi di generatività, che si riflette non solo nel mondo familiare e nelle istituzioni, ma anche nella Chiesa. Solo se sappiamo attraversare questo nostro tempo così complesso, avendo il coraggio di riconoscere i nostri limiti e di intercettare le vere esigenze dei giovani d’oggi, potremo offrirci come accompagnatori capaci di favorire l’incontro e la sequela dell’unico vero Maestro. È dunque necessario interrogarsi sulla propria generatività, cercando di individuare quali possono essere i condizionamenti a cui l’accompagnatore è sottoposto, a motivo del potere esercitato su di lui/lei dal contesto culturale in cui è inserito. La seconda domanda importante riguarda invece gli ambiti di crescita umana e spirituale da privilegiare, per evitare che l’adolescente e il ragazzo rimangano fortemente dipendenti da una società che non favorisce la loro maturità psicologica e spirituale.

L’accompagnatore non generativo

L’epoca contemporanea, contrassegnata dalla fine delle grandi narrazioni, in cui è venuto a mancare un principio capace di ricomporre in unità la storia, lo sviluppo, la cultura, ha portato con sé la caduta di tante certezze un tempo considerate stabili e immutabili. Questa destabilizzazione si è manifestata in modo particolare attraverso la crisi del principio di autorità. La critica al potere, che ha caratterizzato la contestazione sessantottina, si è infatti spostata verso ogni tipo di autorità considerata esclusivamente in modo negativo e di cui sono state dimenticate le elevate potenzialità generative. Il mito dell’accoglienza incondizionata delle persone, fortemente sostenuto dalle correnti psicologiche umanistiche, ha indotto a considerare come atteggiamenti prevaricatori il proporre percorsi, il definire e domandare l’adesione alle regole, il contenere, il suggerire comportamenti e presentare modelli. Tutto questo sembra essere considerato lesivo della libertà della persona e della sua espressività e spontaneità. All’ insignificanza del ruolo di autorità si accompagna il relativismo etico, che provoca nel soggetto o il disorientamento e la confusione o il rafforzarsi di tratti narcisistici, dove un io arrogante e ipertrofico pare preoccupato unicamente della propria gratificazione personale.

Tali cambiamenti culturali interpellano, quindi, in merito ai rischi in cui può incorrere una guida che si lascia condizionare dalla cultura dominante, rischi che si ripercuotono sull’adolescente e sul giovane e suscitano numerosi interrogativi. Un accompagnatore che, per il timore di risultare autoritario, non è in grado di porsi in modo autorevole, sarà capace di proporre esperienze atte a favorire la maturazione della persona, in primo luogo l’esperienza del limite, di quel “qualcosa oltre al quale non si può andare”, elemento imprescindibile per lo sviluppo umano e spirituale? Quale sarà il suo modo di intendere e interpretare la comunità e l’esperienza di gruppo: come un insieme di giovani individui isolati, che si ritrovano insieme per condividere delle attività interessanti o appaganti, o come esperienza atta a favorire la crescita nelle relazioni, per iniziare a introdurre i giovani al mistero della Chiesa? Una guida, cresciuta in un contesto orientato al successo e all’affermazione di sé, saprà resistere alla tentazione dei grandi numeri, dell’iper-attività, del giovanilismo, della superficialità, della proposta di attività ed esperienze che, di fatto, costituiscono una versione annacquata di quanto suggerisce il mondo contemporaneo?

Dove focalizzare l’attenzione?

In ogni epoca l’accompagnatore si trova ad affrontare delle “zone scoperte”, degli aspetti del cammino personale in cui il giovane o l’adolescente sembrano seguire lo stile del tempo in modo automatico, senza rendersi conto di come questo possa ostacolare la loro crescita umana e spirituale. Si pensi, per esempio, al moralismo e alla mancata autonomia che hanno caratterizzato la cultura passata, favorendo nelle persone scrupolosità o dipendenza eccesiva. Quali sono, invece, i rischi che oggi l’accompagnatore deve intercettare, per poi individuare e proporre gli antidoti capaci di favorire un processo di maturazione? Ne elenchiamo solo alcuni, quelli forse attualmente più significativi[4]. La fragilità negata: in un’epoca in cui prevalgono tratti grandiosi e narcisistici, la tendenza prevalente orienta verso la negazione della vulnerabilità e l’incapacità di accettare umilmente i propri limiti. Non esiste tuttavia possibilità di sequela di un Dio che “svuotò se stesso …” (Fil 2,7), se non riconoscendo la propria debolezza; nello stesso modo, nessuna crescita umana può verificarsi là dove l’Io rimane chiuso in se stesso, nell’illusione di una irrealistica perfezione e superiorità. Il mettere alla prova si pone allora come antidoto alla paura, tanto eccessiva quanto negata, della fragilità. Per tale motivo l’accompagnatore non deve temere di accompagnare i “sì” con altrettanti “no”, di frustrare i desideri più superficiali, per permettere a quelli più profondi di farsi strada e di emergere nell’interiorità del soggetto; non deve nemmeno evitare di proporre esperienze apparentemente non appaganti – quali il servizio faticoso o il silenzio – che, una volta affrontate, aprono nuovi orizzonti e permettono di scoprire dimensioni di sé fino a quel momento sconosciute.

La disillusione: gli adolescenti e i giovani d’oggi spesso sembrano guardare al futuro con disincanto, incapaci di desiderare e di attendere qualcosa di positivo dalla vita. Per tale motivo il loro sguardo è concentrato sul presente, da cui cercano di ottenere tutto il bene possibile. Vivere e crescere, tuttavia, significa anche sperare, custodire la certezza di una possibilità di bene che ci verrà offerto nel futuro. Questo permette al giovane di progettare, di nutrire desideri e all’ adolescente di superare i turbamenti tipici della sua età nella prospettiva di un compimento futuro. Per tale motivo, dal punto di vista esistenziale perdere la speranza coincide con il perdere la vita: la nostra esistenza, infatti, si configura come un dinamismo, un processo di trasformazione che necessariamente deve comportare una prospettiva futura, la possibilità di una crescita, di un cambiamento. Non c’è possibilità di accompagnamento là dove viene a mancare la speranza, perché non c’è possibilità di vita psichica e spirituale. È dunque compito fondamentale della guida sostenere e far maturare uno sguardo positivo nei confronti del futuro, inteso come tempo di attesa e maturazione e realizzazione dei desideri. Se ciò non avviene, ci troviamo di fronte a una vita-non vita, rispetto alla quale l’accompagnatore deve assumersi le proprie responsabilità, ricordando che: “se non si è in grado di presidiare la speranza allora è meglio tirarsi in disparte, poiché un adulto disperato è un killer di adolescenti”[5].

Superficialità: se un tempo il grande rischio corso dalle guide spirituali era di incentivare il volontarismo, ora ci si può imbattere nel pericolo opposto, privilegiando l’emotività, la sensazione, il piacere fugace del momento, che può essere cercato anche nell’esperienza religiosa. Grande attualmente è la tentazione di favorire esperienze momentanee, senza continuità, in cui si sperimenta una gioia fugace e superficiale, che però non ha molto a che vedere con il vangelo. È importante allora che l’accompagnatore educhi innanzitutto alla perseveranza, perché non esiste relazione – e dunque anche relazione con Dio – che non si basi sulla continuità, sulla fedeltà. Egli deve anche valorizzare lo strumento più efficace del suo agire – la parola – per favorire nella persona accompagnata la capacità di “dare spessore” alla propria esistenza. La parola è premessa e strumento di discernimento, perché permette di attribuire significati, di giudicare e valutare, di mettere ordine nella propria interiorità ma, ancor prima, di costruirla e strutturarla, proprio perché solo pronunciando nomi, che qualificano e identificano, è possibile uscire dal magma dell’inconsistente e dell’indifferenziato. Nella nostra epoca non è dunque possibile mettere in discussione l’utilità dell’accompagnamento. Le sue criticità devono piuttosto interpellarci, farci riflettere e renderci capaci di intercettare rischi e possibilità, criteri di valutazione e strumenti utili per favorire quella sequela del vangelo a cui ognuno è chiamato, prescindendo dal contesto socio-culturale in cui è inserito.

[1] Sinodo dei Vescovi. XV Assemblea Generale ordinaria, I giovani, la fede e il discernimento vocazionale, I,4.

[2] Ibidem

[3] E.H. Erikson, Infanzia e società, Armando, Roma 1966.

[4] Per una riflessione più ampia ed elaborata su questi temi, cf C. Verna, Diventerai. Accompagnare alla vita adulta educando alla generatività, Manoscritto non pubblicato.

[5] G. Pietropolli Charmet, I nuovi adolescenti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 163.