N.01
Gennaio/Febbraio 2019

The Greatest Showman

Uno show per l'inclusione

È un fuoco d’artificio di colori, canzoni e suggestive scene corali “The Greatest Showman”, film di genere musical uscito nel Natale 2017 diretto da Michael Gracey, con protagonisti Hugh Jackman, Michelle Williams e Zac Efron. A firmare il copione sono Jenny Bricks e Bill Condon, quest’ultimo un veterano di opere ad alto budget tra cui “La bella e la bestia” (2017). La storia attinge alla vita vera, al mito dell’imprenditore circense Phineas Taylor Barnum (1810-1891), che nel XIX secolo ha segnato l’immaginario statunitense (ma non solo) inventando un circo stravagante, puntando tutto su personaggi atipici e originali come la donna barbuta.

 

La vicenda del film rinuncia a una carica problematica, per privilegiare una linea di racconto rassicurante e tendenzialmente favolistica, dove i numeri musicali e le performance canore sono l’elemento portante. Protagonista è Phineas (Jackman), uomo cresciuto in estrema povertà ma ricco di sogni e progetti. Sposato con il primo amore, Charity (Williams), e padre di due figlie, l’uomo coglie l’occasione della perdita del posto di lavoro come impiegato per investire tutto quello che possiede (e anche quello che non ha) in un teatro-museo, dove aduna ben presto talenti e stranezze. Tutto sembra andare per il verso giusto, sino a quando Phineas inciampa in se stesso, nelle proprie ambizioni. Grazie all’amore per la famiglia e alle sue umili origini riuscirà a ricentrarsi sulla strada giusta.

 

Nel film tra i temi in primo piano troviamo anzitutto il percorso di formazione di un giovane verso l’età adulta, artefice del proprio riscatto sociale e insieme capace di preservare – nonostante le cadute – nel proprio orizzonte valoriale. C’è poi un elemento narrativo che forse è ancor più significativo: la riflessione sull’inclusione sociale. Nell’opera, infatti, gli artisti del circo Barnum sono degli scartati dalla società, degli emarginati nelle periferie della vita, perché deformi; il racconto però ribalta questa prospettiva, accompagnando lo spettatore a cogliere le ricchezze che albergano in ciascuno di noi. Uno sguardo inclusivo nel segno dell’incontro e del dialogo.

 

Ed è proprio in questa chiave che si apre una riflessione vocazionale: «Per chi sono io?» (EG 273). Questa è la domanda che il protagonista sembra porsi e che innesca una svolta decisiva e un esito inaspettato: «Forse siete solo un impostore, forse volevate solo guadagnarci qualcosa, ma ci avete dato una famiglia». E, sorprendentemente, nasce l’inatteso.

 

 

 

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