N.05
Settembre/Ottobre 2019

Giulia di Barolo

Esuberanza di carità che varca il limite

Parigi, primi anni dell’Ottocento. Napoleone Bonaparte raduna attorno a sé – nella propria corte sempre più ricca e sfarzosa – non solo la nobiltà di recente costituzione, che egli stesso aveva voluto, ma anche qualificati rappresentanti della vecchia aristocrazia, duramente provata dalla Rivoluzione e dal Terrore. Vi viene pertanto ammesso anche Édouard Colbert, un conte discendente dalla famiglia che aveva dato alla Francia di Luigi XIV il celebre statista Jean-Baptiste Colbert.

Così – quando il Bonaparte si incorona imperatore nel 1804 –, la figlia di Éduard, Juliette, è tra le dame di compagnia della regina Giuseppina di Beauharnais. È «vivace e spiritosa», bella e con una invidiabile caratteristica: «fondava le sue idee sulla ragione e i suoi giudizi sulla propria coscienza». Ciò le garantiva visibilità e stima e le attrae l’ammirazione di un giovane: Carlo Tancredi, dei marchesi Falletti di Barolo, originari delle Langhe. Lei è «ardente, generosa e volitiva», lui «meno espansivo […] e facilmente remissivo». Caratterialmente complementari, condividono una solida visione cristiana della vita. Si sposano il 18 agosto 1806. Juliette ha 20 anni e diventa la marchesa Giulia di Barolo, sempre più orientata su Torino che dal 1814 è dimora definitiva della coppia. Proiettata in un mondo che avrebbe potuto essere molto diverso dal proprio, Giulia vive per qualche tempo la tensione tra vivacità caratteriale e un immenso bisogno di amare e di essere amata. Per esempio, scappa più volte quando a casa arriva padre Pio Bruno Lanteri (Venerabile), che confessava la suocera ma provava ad avvicinare anche Giulia: le servirà del tempo per capire che non aveva nulla da temere e affidarsi alla sua guida spirituale. È tuttavia generosa e pronta nel bene, che non fa consistere tanto nei sentimenti, quanto nella concretezza di un interessamento partecipe. Malato Carlo Tancredi, scrive per esempio alla madre di lui: «Viaggeremo adagio e avremo la massima cura di vostro figlio, che io amo molto, come voi sapete». Questa esuberanza di carità le apre le porte della casa e dei cuori.

Gli anni tuttavia passanno e la coppia – giovane, bella, erede di importanti patrimoni e con crescenti responsabilità sociali (Carlo Tancredi per esempio sarà decurione e due volte sindaco di Torino) – deve arrendersi all’impossibilità di avere figli: era non solo la disillusione circa una personale aspettativa di fecondità, ma anche l’umiliante constatazione che con loro il prestigioso casato dei Falletti di Barolo si sarebbe estinto. Persino Napoleone, a un ballo di corte, se ne preoccuperà con Giulia: «Che pensate di fare?», le chiede tra il galante e l’impertinente. Ma Giulia non è mai stata timida nel parlare: «Continuare a ballare, Maestà»! E riesce così – in un sol colpo – a custodire l’intimità della sua vita di sposa e ad attestare la sapienza dei santi, intenti a vivere l’unico tempo che da loro dipenda, ovvero l’istante presente.

In un crescendo di dolore e di offerta, Carlo Tancredi e Giulia – sapendosi liberi da doveri verso futuri eredi – si dedicano peranto a un più pieno impegno nelle opere di carità. Nell’atrio del loro palazzo torinese accolgono poveri e bisognosi: la marchesa lava le piaghe e insegna loro a curarsi. Sa che la vera carità promuove la persona e la sua autonomia.

Poi, il 17 aprile 1814, quell’anno domenica in Albis, anche per Giulia arriva il momento della “vocazione nella vocazione”. Un prete, accompagnato da alcuni fedeli, sta portando il Viatico a un malato. Giulia è per strada. Vede. Si inginocchia. Ma alle sue spalle risuona un grido blasfemo: «Non il Viatico vorrei, ma la zuppa!». Proviene dalle carceri. Lei decide di entrare, di capire. Scopre che della zuppa non c’era bisogno, che si poteva essere beffardi per rabbia. I detenuti tuttavia le mostrano rispetto: la giovinezza innocente di Giulia ha su di essi un potere calmante. Chiede allora di addentrarsi nella sezione femminile. Ed è amore a prima vista per quella realtà – nei fatti per nulla amabile – di donne senza istruzione, pulizia, decoro, all’inizio oppositive e derisorie nei suoi confronti. Giulia di Barolo sperimenta sulla propria pelle la verità delle parole di San Vincenzo de’ Paoli: i poveri sanno essere padroni terribilmente suscettibili ed esigenti. Ma non retrocede. Chiede in famiglia il permesso di iniziare l’apostolato in carcere. Glielo negano. Il confessore le intima di obbedire al marito. Lei lo fa, ma più forte risuona in lei l’ammonizione di Dio. E lei, vinte le resistenze – donna modernissima – chiede e ottiene aria, spazio, pulizia; vincola le detenute a sottoscrivere un regolamento interno, da rispettare e far rispettare; introduce per loro la possibilità di lavorare e depositare in banca il modesto guadagno; le strappa all’analfabetismo. Sono provvedimenti che detteranno legge anche altrove. Giulia sarà nominata (prima donna in assoluto in tale ruolo) sovraintente del carcere delle Forzate.  Aveva, ormai da tempo, ottenuto  non solo di parlare con le detenute, ma persino di farsi chiudere comeloro dietro le sbarre. Sa farsi ascoltare perché aveva imparato a farsi amare. Sentenzia: «Non basta punire il malvagio togliendogli la libertà di fare il male. Bisogna anche insegnargli a fare il bene». Sa che il cuore trattato male si indurisce, trattato bene si apre: e ai cuori aperti annuncia allora il Cristo, traducendo per le detenute le letture in latino della Messa e familiarizzandole – lei donna dell’Ottocento – a quella consuetudine con la Parola di Dio che solo il Concilio Vaticano II avrebbe poi affermato con forza, per tutti. Saprà ammonire l’autore di un testo sulla riforma delle carceri con le parole: «[vi ho trovato] tutto, fuorché quello che avevo diritto di aspettarmi, cioè Gesù Cristo, senza il quale è impossibile consolare chi è afflitto».

Quando nel 1935 a Torino scoppia il colera, e tutti scappano, Carlo Tancredi e Giulia invece vi rientrano. Chiarissima la loro consapevolezza che si sta al sicuro solo nella volontà di Dio. Giulia assiste gli agonizzanti. Molti muoiono consolati sapendo che i marchesi si sarebbero fatti carico delle loro famiglie.

Quando tre anni dopo, nell’ottobre 1938, il marito Carlo Tancredi muore in viaggio, Giulia tuttavia ammette: «Ieri ho veduto spezzarsi la mia ragione di vita». Donna dalla carità operosa, non aveva dunque proiettato sul sociale una dinamica di tipo compensatorio, ma vi aveva piuttosto trasfuso l’esuberanza di un amore custodito anzitutto nel sacramento del matrimonio. Carlo Tancredi aveva scritto: «Gesù solo amico perfetto! Dio di mia vita. Amore degli amori», e questo avevano vissuto insieme. Come scrive Silvio Pellico, che in casa Barolo visse a lungo, Giulia e Carlo Tancredi si erano tenuti al corrente dei loro pensieri per tutta una vita: impegnati su fronti diversi, senza però che la comunicazione tra sposi venisse mai meno.

Fondatrice delle Suore di Santa Maria Maddalena (oggi Figlie di Gesù Buon Pastore), una Congregazione religiosa che raccoglieva donne dal passato difficile – come il marito aveva fondato le Suore di Sant’Anna, dedite all’educazione dell’infanzia –, Giulia di Barolo vive un difficilissimo tratto conclusivo del suo cammino terreno, osteggiata da molti e perseguitata dalla massoneria. Muore il 19 gennaio 1864.

Oggi sia lei sia il marito sono Venerabili Servi di Dio, e si è in attesa che un miracolo possa dischiudere la strada della beatificazione.

 

La comunione d’amore tra Dio e gli uomini […] trova una sua significativa espressione nell’alleanza sponsale, che si instaura tra l’uomo e la donna.
(Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, 12)

 

Se vuoi vedere Dio, hai a disposizione l’idea giusta: Dio è amore. Quale volto ha l’amore? […] ha le mani, che donano ai poveri; ha gli occhi, coi quali si viene a conoscere colui che è nel bisogno […]. Tu dunque abita nella carità ed essa abiterà in te; resta in essa ed essa resterà in te. (Agostino d’Ippona, Commento alla Prima Lettera di Giovanni, Omelia 7, 10).

 

«Resto a Torino piuttosto che andare a Roma non per coraggio, ma per prudenza, convinta che si può ben più contare sulla protezione divina facendo il proprio dovere che fuggendo il colera.»
«È inutile credere di camminare con piede cauto nelle vie della carità; ci si lancia con ardore, accada quel che Dio vuole.»
(Parole di Giulia di Barolo durante la terribile epidemia di colera che colpì Torino nel 1835).

 

Si può constatare l’immensa disponibilità delle donne a spendersi nei rapporti umani, specialmente a vantaggio dei più deboli e indifesi. In tale opera esse realizzano una forma di maternità affettiva, culturale e spirituale, dal valore veramente inestimabile, per l’incidenza che ha sullo sviluppo della persona e il futuro della società. (Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, 9)

 

 

Juliette Colbert (poi Giulia di Barolo) nasce in Francia, nell’Anjou, il 26 giugno 1786 e muore a Torino il 19 gennaio 1864. Sposa ventenne di Carlo Tancredi Falletti di Barolo, visse nella Parigi e poi nella Torino ottocentesche una vita di intense relazioni con i potenti dell’epoca. Nel palazzo torinese dei Barolo non si ammiravano solo i dipinti di Giotto, del Guercino, di Bellini, Tintoretto, Giorgione, Caravaggio e Guido Reni (per citarne alcuni): ma si accoglievano i poveri, realizzando poi a loro vantaggio un’intensa opera di promozione umana e sociale. Autrice di una riforma delle carceri impensabile per una donna dell’epoca, Giulia – che non ebbe il dono della maternità fisica, ma ebbe due figli adottivi e aiutò migliaia di “ultimi” – imparò la mitezza e seppe farsi amare da molti. È oggi Venerabile Serva di Dio. Per meglio conoscerla: Angelo Montonati, Giulia Colbert di Barolo. Marchesa dei poveri(Paoline, Milano 2011); Cristina Siccardi, Matrimonio: quel vincolo chiamato libertà.L’unione di Fede, Speranza e Carità di Tancredi Falletti di Barolo e Juliette Colbert, La Fontana di Siloe [per Lindau], Torino 2013.

 

 

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