Studi /

Sorpresi e chiamati alla gioia

Cercherò di considerare il nucleo della nostra vocazione. E a tal proposito, due o tre anni, fa ero in Sicilia per un incontro con giovani-adolescenti e ho chiesto: “Qual è secondo voi l’essenza del cristianesimo?” hanno iniziato a rispondere in vario modo, naturalmente, perché non c’è una voce nel dizionario che possa rispondere, anche se andando a fondo nella Bibbia, riusciamo a cogliere una risposta. Ho dato un indizio: comincia con la A. Allora quasi all’unisono tutti hanno detto: Amare. Ho detto che la parola è fuorviante. E vi do qualche esempio: io ho dei vicini che dal novembre scorso hanno una sveglia che inizia a suonare molto presto e finisce finché non si scarica la batteria, perciò per due o tre ore la mattina suona.

 

 

Sentire qualcuno che mi dice devi amarli senza se e senza ma, non so voi, ma io in questo non trovo una buona novella, non trovo un evangelo.

Questo modo di amare è una conseguenza, il cuore del cristianesimo è altrove, inizia con la A, ma è la A di essere Amati. Dio ha tanto amato il mondo da consegnare, da dare, da sprecare il suo Figlio per noi. Questa è la grande sorpresa che genera gioia.

Vorrei partire dal cuore della CV, perché penso che quello che ci ha detto il Papa in questa esortazione post-sinodale sui giovani, valga per tutti noi che speriamo che la morte ci trovi giovani, speriamo di non morire invecchiati. Cristo che è vivo vuole che tu sia vivo e vuole che tu sia vivo dandoti la sua vita, regalandoti la sua pienezza. Penso a voi più come formandi che come formatori: questa è la notizia più nota del cristianesimo ma, come insegna Heghel “ciò che è noto, spesso non è conosciuto”, non è conosciuto nel senso profondo del termine, non c’è una conoscenza intima che risuona. Ovvero possiamo anche conoscerlo, ma col tempo diventa un sapere abituale, che dimentichiamo di lasciar risuonare dentro la nostra vita, di lasciar vibrare nella nostra vita.

Per chiudere con questo primo punto che intitolerei così “Ci ha amati per primo”, citando san Giovanni, parto dalla nostra mentalità, volenti o dolenti cartesiana, il cogito ergo sum che non è totalmente cristiano se non aggiungiamo una R cogitur ergo sum “sono pensato”, sono amato. Questo mi dà la forza di tollerare anche un vicino molesto o un confratello o una sorella che non sono tagliati secondo un mio modello ideale, o un formatore che non è sant’Ignazio Di Loyola…

E passo la secondo punto. Cito la Christus Vivit: “Anzitutto vorrei dire ad ognuno di voi la prima verità, Dio ti ama, se l’hai già sentito non importa, voglio ricordarti che Dio ti ama, non dubitarne mai. Qualunque cosa ti accada nella vita, in qualunque circostanza, sei infinitamente amato”. Bellissimo, ma quanti di noi riescono a sentirlo? E perché non riusciamo a sentirlo? Perché l’amore di Dio noi lo percepiamo tramite il filtro delle nostre esperienze di amore. Quindi un amore assente, un amore fatto solo di regali occasionali, quando entro nella vita religiosa non svanisce nel nulla, non lascio lo spazio in maniera spontanea all’amore di Dio, come è rivelato in Cristo Gesù. Ed è bello che nel numero successivo il Papa lo sottolinei: “Forse l’esperienza di paternità che hai vissuto, non è stata la migliore, il tuo padre terreno forse è stato lontano e assente o al contrario dominante e possessivo, lo stesso può valere per l’immagine materna, lo stesso può valere per l’immagine di un catechista, una catechista, un parroco”, stavo per dire una “parroca” … L’esperienza con le figure che dovrebbero essere il riflesso del volto di Dio per noi, sia biologicamente che teologicamente, non sempre trasmettono questo. Per cui dopo questo primo annuncio, un annuncio fatto in assoluto: “Sei amato”, c’è la necessità di vivere l’esperienza che fa Paolo “mi ha amato e ha dato se stesso per me”, sottolineo questo me, non per fare un grande cerchio e mettere in grassetto l’ego, ma perché in fondo noi non possiamo annunciare un amore che non abbiamo vissuto personalmente. Non possiamo aprire il cuore, se non ci siamo visti negli occhi. Se non ci siamo guardati e amati, per questo bisogna evangelizzare l’immagine di Dio in noi e l’immagine del padre in noi. Devo pensare a Dio come Padre o come madre, perché questa analogia della maternità di Dio, soprattutto a partire da Giovanni Paolo I, è stata fortemente sdoganata e recuperata nella riflessione biblica: dove Dio ama con il cuore di Padre, ma anche con il cuore di una Madre.

Evangelizzare l’immagine di Dio induce e conduce alla soglia di una doppia rivelazione: la rivelazione di Dio e la rivelazione dell’io e non sto entrando necessariamente nel campo della psicoanalisi, cioè non è che appena si parla di scrutatio di se stessi, di conoscenza di se stessi, di rilettura della propria storia, necessariamente stiamo psicologizzando la fede. Vi porterò anche qualche esempio.

Parto dalla lettera enciclica Fides Ractio, un bel punto magisteriale della convergenza tra fede e ragione. Dove trova questa convergenza Giovanni Paolo II? In questa lettera bellissima che ha quasi chiuso il secondo millennio, nel “conosci te stesso”, cioè il punto in cui nella ricerca umana di Dio, l’uomo eleva il proprio cuore verso Dio: è la rivelazione di Dio; Dio che apre condiscendentemente il cuore all’uomo e l’uomo che è invitato a conoscere se stesso. A livello teologico, a livello esistenziale c’è una conoscenza di me e una conoscenza di Dio che vanno di pari passo. Il che significa che io posso illusoriamente scrutare l’essenza della divinità, conoscendo tutti i libri della teologia, ma se non vedo l’impronta di Dio nel mio cuore, nel mio cammino, sarò soltanto un cembalo che tintinna, sarò soltanto un motore di ricerca, potrò anche citarvi a memoria alcuni passi della Summa teologica o del De Trinitate di Agostino, ma se non c’è questa scrutatiointeriore, manca l’essenziale. Allora c’è una convergenza reciproca e a tal proposito raccondo la storia di un pesciolino che cercava l’oceano.

“Cercava con ansia e senza sosta, cercava e non trovando si sentiva frustrato, impaziente chiedeva ad amici, vicini e passanti: cerco l’oceano, cerco l’oceano, qualcuno mi potrebbe aiutare, qualcuno sa dove si trova? Ma perché cerchi l’oceano, vivi e fregatene, gli disse uno che ostentava sicurezza anche se non era del tutto convincente per la faccia scontenta e per il labbro incurvato verso il basso che tradiva delusione e amarezza. Un altro, con fare saccente, disse continuando a nuotare e senza nemmeno guardarlo: amico l’oceano è una illusione, concentrati sulla realtà. Uno, abbastanza arreso, lo fissò con occhi delusi e dopo alcuni istanti di silenzio gli si avvicinò e sussurrò: figliolo mi ricordi la mia giovinezza, arrenditi anch’io l’ho desiderato, anch’io l’ho cercato, ma invano, l’oceano forse esiste, ma non lo troverai mai. Finalmente un giorno si imbatté in un pesce che, guardando il giovane, guardò il desiderio del suo cuore e lo amò e gli rispose: certo figliolo io so dov’è l’oceano. Dov’è? dov’è? interruppe impaziente il piccolo pesce guardandosi tutto intorno, tentando di anticipare in quale direzione avrebbe puntato il saggio. Con calma e con un sorriso che trapelava infinita tenerezza e infinita pace, il saggio rispose: l’oceano è qui, è tutto intorno a te, tu vivi nell’oceano, non lo vedi? L’oceano vive in te, non lo senti? Cosa? Rispose incredulo e furioso per la sua risposta, il pesciolino rimase per qualche istante ammutolito, con il labbro superiore alzato da un lato e rispose: questo? Questo non è l’oceano! È solo acqua! Si voltò e proseguì la sua ricerca sperando in una più effervescente risposta”.

Pensavo che fosse una storia per bambini, ma è innanzitutto per noi adulti. I bambini hanno un senso simbolico della realtà più acuto, noi a volte inaridiamo e secchiamo la realtà. Vi leggo una parte della risposta di un’amica claustrale a proposito della favola. Mi ringrazia e mi dice che le ho dato tanta gioia con questo regalo inatteso, “mi ha fatto un gran bene e all’orazione della sera mi sono identificata con il pesciolino del racconto, perché anche dopo venticinque anni di monastero, si può avere il miraggio di un oceano altro rispetto all’oceano con la O maiuscola, l’Oceano della storia, che è in noi”.

Perché vi ho letto questo? Per dirvi che l’incontro con la sorpresa della gioia del Vangelo, non avviene se non dentro il nostro cuore. C’è il primato dell’amore di Dio, ci ha amati per primo, ma questo se non trova casse di risonanza aperte, se non trova quella capacità, per citare un’immagine bella di Santa Caterina da Siena, non diventa effluvio. Fatti capacità, diceva Gesù a lei, e io ti farò corrente. Fai vuoto, fai spazio, e lo dico soprattutto a me stesso: nel nostro cammino formativo verso i nascondigli della gioia, verso le sorprese della gioia, non bisogna solo udire, ma bisogna badare a come udiamo e facciamo udire l’annuncio dell’amore di Dio. E’ un annuncio che richiede tempo, che richiede una fedeltà alla preghiera, perché più passa il tempo più diventa difficile, perché la quantità di aridità che ti riservano le ore di preghiera rispetto ai momenti di consolazione, sono veramente molte.

E qui vorrei citarvi un paio di maestri spirituali il primo è Giovanni Climato che ci dà una piccola definizione di chi è la persona che ha raggiunto la pace interiore. “E’ colui che aspira a circoscrivere l’incorporeo in una dimora corporea”. Come avviene questo? Bisogna vivere lo spirito, lo spirituale nella mia carnalità, che sente freddo che sente caldo, ha bisogno di nutrirsi, ha bisogno di riposare, eppure è in questa materia, in questa incarnazione che Dio, fattosi carne, si fa incontrare. Un altro testo che manifesta la convergenza di questi aspetti molto prima della nascita della psicologia come la conosciamo, è un testo di sant’Isacco di Ninive, vescovo del IV secolo, scrive così “Sforzati di entrare nella tua camera interiore, e vedrai la camera celeste”. Cioè c’è una convergenza tra questo essere tecum, con se stesso e essere con Dio. ”Infatti, un tutt’uno” continua sant’Isacco “è una sola entrata che permette di entrare in entrambe”. Qual è l’entrata? Rientra in te stesso. “La scala di questo regno è nascosta dentro di te, nella tua anima, lavati dunque dal peccato e riscoprirai i gradi per mezzo dei quali potrai salire”. Certo questo potrebbe diventare intimismo, e quindi si potrebbe confondere la mistica con l’intimistica. Il cristianesimo è intimo e mistico, ma non è intimistico.

Innanzitutto, questa conoscenza di Dio è una conoscenza trasformativa. Non posso non citare un mio connazionale, un filosofo sacerdote che crea una distinzione tra due verità, dice c’è una verità blocco e una verità invito. Cos’è la verità blocco? Io sfido chiunque a discutere quello che sto per dire ora: 2+2 uguale 4. Sto imponendo, adesso nella vostra mente, un dato che non potete che accettare; è una verità blocco, la prendi così com’è. 1+1+1 uguale 3; la matematica non è un’opinione. La verità invito, cos’è? La verità invito è una verità che non s’impone, ma si propone, e la nostra verità cristiana, la verità del Dio che ama follemente prima ancora di qualsiasi iniziativa dell’uomo, anzi quando ancora eravamo lontani, ci dice Paolo, ci ha amati; è la verità invito, è la verità relazionale e alla verità relazionale c’è una risposta ben diversa della risposta alla verità blocco. La verità invito è innanzitutto dimorare in Dio, è  vivere l’insiemità, vivere la comunione, e poi andare per conto di Cristo, essere missionari.

Cerco di spiegarvi, col tempo che mi rimane, cosa intendo con questi tre punti, che sono sempre punti che convergono verso il cosiddetto nascondiglio della gioia.

 

Ciascuno risponde a una chiamata

Innanzitutto chiunque di noi risponde ad una chiamata: li chiamò affinché stessero con Lui. Chi accoglie il proprio stato di vita come una chiamata non può non accoglierlo come un invito a stare con Lui, e un ritorno alla nostra vocazione è sempre un ritorno a questa verità fondamentale, che non è una verità utilitaria “servo a Dio”. Che illusione! illusione che si sono fatti gli apostoli nell’orto degli ulivi, l’illusione che ci facciamo noi, “io sono necessario per Dio, perché conosco le lingue e, in un modo globale, un evangelizzatore come me è importante!”. Che idiozia. Io non servo a Dio e questo è Vangelo, questa è una bella notizia, non servo a nulla: sono un servo inutile. E sono chiamato veramente, in primo luogo, a godere della dimora con Dio. Il beato Giuseppe Allamano diceva così alle prime missionarie: “Siate missionarie prima di tutto e siate missionarie per farvi sante, chi non è deciso a farsi santa, torni a casa”. E poi aggiungeva: “senza santità non sarete che ombra di missionarie e farete più male che bene”. Quindi il nostro fare è radicato in questo essere; c’è una frase lapidaria della Redentori Missio di Giovanni Paolo II: “il vero missionario è il santo”. Che vuol dire questo? Vuol dire che innanzitutto tu sei chiamato ad una relazione e ciò che darai è quella relazione che vivi, non sono le scuole che apri, gli oratori o il tuo sistema educativo per quanto bello e fondamentale, innanzitutto tu sei testimone di un incontro, sei una sposa che annuncia lo Sposo. Ciascuno di noi ha superato la fase dell’innamoramento, la fase di quel fidanzamento spirituale con il quale il Signore ci seduce; ci siamo resi conto che ci sono diversi mostri che attanagliano la nostra esperienza, e per questo vi vorrei portare un altro piccolo passo dalla sapienza dei padri del deserto. Abba Marco scrive al suo figlio spirituale Nicola, gli scrive parlandogli delle vittorie contro le passioni e dice così: “Se dunque tu vuoi ottenere la vittoria contro le passioni, con la preghiera e il concorso di Dio, rientra in te stesso, immergendoti negli abissi del cuore, segui le tracce di queste tre passioni giganti l’oblio, l’indolenza e l’ignoranza”. Soffermiamoci un attimo, sembrano così innocue proprio perché sono sottili, ma sono in realtà delle passioni, conoscete il senso delle passioni per i Padri, sono negative, ci fanno morire lentamente, sono una specie di eutanasia spirituale.

L’oblio, è la mancanza di riconoscimento, di riconoscenza, l’oblio di sè, l’oblio di Dio, l’oblio della storia, l’oblio dell’amore di prima.

E dall’oblio nasce l’indolenza, l’indolenza per chi è straniero come me è semplicemente la pigrizia, la pigrizia spirituale, la pancia piena. Questa cosa ci invade anche nella vita matrimoniale; ormai sei abituato, hai una certa stabilità, hai certi tempi di pace, oppure di ritmo che sembra pace, e che ti assorbe e che non ti permette di aver coscienza che devi avanzare, che devi camminare. I momenti in cui il popolo di Israele non era in cammino erano momenti in cui solitamente veniva inquinato con l’idolatria. Perché poi l’idolo è simpaticissimo, lo modelli come ti piace, lo colori come ti piace, proietti una divinità molto meno esigente del Dio Vivo e Vero.

E il terzo punto è l’ignoranza, questa ignoranza potrebbe avere tante facce, tante sfaccettature. Come docente universitario capita che perché sei preso da tante cose che devi fare, ricicli i tuoi appunti, i tuoi corsi degli anni passati, a volte non per pigrizia, ma semplicemente perché non hai tempo; il cuore è nutrito anche dalla mente. Detto in altri termini, il tuo annuncio, il tuo amore di Cristo ha bisogno di una formazione, di una informazione, sull’amore. Non puoi amare ciò che non conosci, non puoi continuare ad amare chi continuamente non riconosci. Quindi, l’ignoranza fa parte di queste passioni che minano l’esperienza dell’annuncio, l’esperienza di essere amati. Non vorrei insistere molto perché penso che siano esperienze che fate nella vostra vita personale. Quando certe volte senti che qualcosa sta soffocando nella calma, perché non c’è una novità, non c’è un rinnovamento, perché hai bisogno di vedere da prospettive diverse, hai bisogno di rinnovare. Questa conoscenza, che parte dalla conoscenza di sé, dalla conoscenza di Dio, da un rinnovato aggiornamento della stima che Dio ha di noi facendoci anche Homo Sapiens, esseri umani che hanno un logos.

Marco li chiama “invasori spirituali” sembrano cose innocue, “eppure tramite esse” continua il buon Marco “le altre passioni malvagie si insinuano, operano, vivono e prevalgono nelle anime”. La cosa che era passiva, suscita altre passioni attive. Alla fine, Marco dà il consiglio: “Con l’aiuto della grazia, sforzati di stabilire nel cuore (ecco la dimora) di custodire con cura la vera armonia della conoscenza, del ricordo della Parola di Dio. Allora ogni traccia di oblio, ignoranza e indolenza sparirà dal cuore”. E’ questo il frequentare la Parola vivente che non scende sulla terra senza portare frutto.

 

Una chiamata unica e personale

Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me! Non vivo la chiamata da solo.  “Li chiamò a due a due” o “li inviò a due a due”, in fondo noi siamo il frutto di una insiemità, siamo frutto di una comunione. Noi nasciamo da una comunione, la nostra vita dipende da una prolungata comunione con il corpo di un’altra persona, impariamo a parlare grazie ad un’altra persona, la passione nasce con l’incontro; spesso noi leggiamo di una determinata cosa, ma finché non incontriamo un appassionato, quella realtà non suscita in noinulla. “Non è bene che l’uomo sia solo” vale anche per l’anacoreta, vale anche per l’eremita, per il consacrato e la consacrata, anche se siamo chiamati a vivere un celibato non siamo chiamati a vivere una interruzione dei rapporti umani perché una delle prime parole per la nostra umanità vale per tutti, nessuno è escluso. Su questo vorrei portarvi l’esempio di un mio amico frate che mi disse: “Da noi a tavola è vietato parlare di Dio” perché? “ne parliamo già fin troppo, in chiesa e a lezione”. In quella comunità c’è una specie di aridità di comunione e di comunicazione spirituale. Non voglio che mi fraintendiate, c’è una temperanza che i padri del deserto indicano per poter sostenere una prolungata vita spirituale, ma mettere una regola così quando magari riportare una frase ascoltata a lezione e che è piaciuta, mi sembra un estremo. E questo mi riporta ad un testo bellissimo di san John Henry Newman, il mio carissimo amico del cuore; ci sono queste amicizie bellissime che la carta ci permette di incontrare. Lui si interroga sul motivo della mediocrità del vissuto di tanti cristiani e tra i vari motivi che porta c’è quello della mancanza di conversazione spirituale, di condivisione del proprio vissuto intimo. Lascio la parola a lui: “Probabilmente, il motivo per cui lo standard di santità tra di noi è così basso o le nostre realizzazioni così povere, la nostra visione della verità così offuscata, la nostra fede così irreale e le nostre emozioni generali così artificiali ed esteriori è questo: che non osiamo confidare gli uni gli altri il segreto dei nostri cuori”. È il parlare che parte dalla nostra intimità, e penso che chi vive amicizie spirituali e ve lo dico anche per le coppie che condividono anche nella semplicità, senza istituzione, un cammino, un parlare della propria passione; c’è uno scarto così grande tra le amicizie del parcheggio o dei bambini che portiamo al catechismo, le amicizie dell’attesa dei bambini all’uscita dalla scuola, le amicizie del calcio, le amicizie della piscine e le amicizie spirituali, c’è uno scarto così grande che quasi devi fare un atto di morte a te stesso per continuare a nutrire gli altri rapporti.

C’è una profondità in quella amicizia in cui l’altro lo conosci com’è veramente al cospetto di Dio e lui ti conosce veramente come sei al cospetto di Dio.

 

La coscienza di essere inviati per conto di Cristo

C’è una bella immagine sulla felicità di Kierkegaard che dice “la porta della felicità si apre soltanto verso l’esterno” chi cerca di forzarla verso l’interno non fa altro che chiuderla ulteriormente. Questa riflessione volutamente è stata concentrata fino ad ora sull’intimità, pur avendo sottolineato che il cristianesimo è intimo, ma non intimistico. Siamo chiamati alla gioia, ma la vera gioia non la incontri cercandola ripiegato su te stesso, ma quando ti apri. Quando entri nella tua vocazione cristiforme, di Cristo è Dio che si dona. È Dio che si spreca, è il Dio dalle mani bucate!

Siamo sorpresi dalla gioia di essere amati da Dio, ma questa gioia tu non la percepisci se sei incelofanato, sei nel cellofan del tuo ripiegamento su te stesso. I padri che parlano del rientrare in se stessi non volevano dire di essere ripiegati su se stessi. Penso di riassumere il tutto con una bella espressione dei Madre Teresa di Calcutta: “Esci dall’egoismo, passa dalla parte dell’amore, vieni, ti aspettiamo per farti felice, perché non accadrà mai che un egoista sia felice, te lo assicuro”. Teresina racconta di quel momento in cui lei arriva alla felicità: quando contempla l’amore di Cristo, contempla il suo sangue che cola e non c’è chi lo raccoglie e decide di donarsi, di dimenticarsi e dice “e allora fui felice”. E’ una questione a cui riconvertirsi continuamente, ma è proprio in questa continua riconversione, che noi sperimentiamo anche questa gioia, perché non basta saperlo, altrimenti io sarei l’uomo più felice al mondo! Bisogna uscire dall’oblio, uscire dall’indolenza, uscire dall’ignoranza.

Il nostro uscire, non dovrebbe essere un uscire giusto così, per essere missionari di questo amore senza criterio, sarebbe una grandissima responsabilità, sarebbe anche una grandissima fatica, che ci obbligherebbe a fare qualsiasi bene, invece nel testo di Luca quando Gesù li invia a due a due, c’è un inciso che specifica questo nostro uscire. “Quindi dopo questi fatti il Signore ne designò altri settantadue, e li inviò a due a due, davanti a sè, in ogni città e luogo dove stava per recarsi”. Siamo inviati per conto di Cristo. Stavo leggendo recentemente un testo sulla missione e diceva l’autore di questo testo “ciò limita al massimo il nostro ruolo in quanto inviati. Noi non partiamo di nostra iniziativa, è Lui che ci manda, noi non andiamo dove vogliamo, (…) sono infatti incaricato a mettermi al servizio tra Dio e l’uomo” è bellissimo questo fatto che la mia missione verso gli altri passa in Cristo e non solo per conto di Cristo e in vista di Cristo.

L’amore di Dio non è solo un amore conosciuto, è anche un amore attivo perché lo Spirito Santo è Dio stesso che opera in noi. Noi siamo chiamati ad essere disponibili marianamente a questo amore. C’è una bellissima frase di san Giovanni Calabria che dice così “non dimenticate mai è Dio che fa tutto, noi facciamo il resto”. È verissimo c’è questa convergenza tra la sua grazia e le nostre opere, dove le nostre opere non sono altro che l’eco della sua grazia. E’ la teologia della grazia di Agostino.

E chiudo con un passo di san Newman, che non ha bisogno di essere introdotto perché in qualche modo riassume tutto quello che vi ho detto, riassume il fatto del riconoscimento profondo di essere amato, della propria identità e di questo essere amato quindi chiamato, chiamato perché amato e amato quindi chiamato. C’è un rimando reciproco che manifesta e mi permette di sperimentare questa esperienza di essere amato. “Dio mi ha creato per rendergli un servizio specifico. Egli mi ha affidato un lavoro che non ha affidato ad un altro, ho la mia missione. Forse non lo saprò mai in questa vita, ma mi sarà chiaro nella prossima. Sono un anello in una catena, un legame di collegamento tra le persone. Egli non mi ha creato per nulla: farò il bene, farò la sua opera, sarò un angelo della pace, un predicatore della verità. Ma non lo farò se non osserverò i suoi comandamenti. Pertanto mi affiderò a Lui in qualunque situazione. Se sono nella malattia, la mia malattia può servirlo, se sono nella perplessità, la mia perplessità può servirlo, se sono nel dolore, il mio dolore può servirlo. Non fa nulla invano, Egli sa cosa fa. Può portare via i miei amici, può gettarmi tra gli estranei, può farmi sentire desolato, può fare affondare il mio spirito, nascondermi il mio futuro, eppure Egli sa cosa fa! Amen

 

Dibattito

 

Don Michele: Abbiamo ascoltato questa relazione, questo racconto, molto ricco di spunti e pieno di sapienza, di tanti racconti di Padri, di figure della storia, della spiritualità, di esperienza di vita, credo che sia una miniera dalla quale possiamo attingere. Trovo che l’aspetto intimo e mistico del cristianesimo sia molto interessante. La vocazione ha proprio questa polarità, è una parola che viene seminata nel cuore, ma è una parola che ti introduce in quel grande mistero che è Dio, nel mistero della vita nella quale noi siamo immersi.

 

  • Ti ringrazio tantissimo di quello che ci hai donato questa mattina. Puoi dire qualche parola sull’inabitazione della santissima Trinità che ognuno di noi è per la parola di Gesù, “se uno mi ama, io e il Padre mio verremo a lui e prenderemo dimora dentro di lui”.
  • Come possiamo aiutare i giovani a scoprire la bellezza di Dio e a uscire dalla tiepidezza?
  • È una domanda esperienziale. Oggi i giovani, soprattutto quelli che si accompagnano nell’esperienza spirituale vocazionale, vivono dei fallimenti, delle cadute, spesso anche delle relazioni frammentarie. Come far sperimentare la bellezza della resurrezione?
  • La domanda che mi sorgeva, alla luce del racconto anche molto simpatico del pesciolino rosso, è questa: come far emergere all’interno dei contesti dei giovani, delle realtà ecclesiali che abitiamo, anche nelle nostre stesse famiglie, la bellezza della gioia? Spesso, portata di mano, abbiamo una felicità a poco prezzo, e sappiamo che la felicità ha a che fare solo con l’aspetto esterno o come un fuoco d’artificio e poi torna la notte, mentre la gioia è qualcosa che permane. Come far emergere questo oceano che portiamo e che portano dentro le persone che accompagniamo?

 

Ognuna delle domande, delle quali ringrazio, richiederebbero una conferenza. Però cercherò rispettando anche il vostro tempo di essere breve, con rinvii piuttosto che con spiegazioni interminabili.

Nell’oblio della Trinità, come è stato detto anche da alcuni teologi italiani, tra l’altro nel recupero della Trinità nel XX secolo, ci sono due punti luminosi. Si potrebbe dire tantissimo, ma una delle maestre che ci hanno insegnato molto nel secolo scorso sulla Trinità è Santa Elisabetta della Trinità. Cogliere nel nostro essere non un’anima che si eleva verso Dio, che s’incammina verso Dio, ma un’anima già abitata da Dio. A Santa Elisabetta della Trinità, viene detta una etimologia non proprio esatta del suo nome, le viene detto che lei è dimora della Trinità. Non è il senso esatto in ebraico del nome, ma con questa inesattezza interpretativa, ha colto una grande vocazione; ci insegna che dobbiamo vivere una vita di preghiera fondata non tanto sullo sforzo, ma accogliendo le vampate di preghiera che sono nel nostro cuore. In che senso? Piuttosto che iniziare a pregare, noi siamo chiamati ad entrare nella preghiera di Dio. Dio, nel nostro essere, vive uno scambio d’amore, il Padre ama il Figlio e il Figlio ama il Padre nello Spirito Santo e noi siamo chiamati ad entrare in questo. Certo è uno stato di preghiera elevato, è una grazia di Dio, entrare in questo vissuto teologale. E’ un approfondimento che devo vivere, che siamo chiamati a vivere: accorgerci che siamo santuari trinitari.

 

Per aiutare i giovani a scoprire la gioia e ad uscire dalla tiepidezza, penso che sia indispensabile l’autenticità. Un’autenticità fondata sul rapporto vero con il Signore e che ci doni di saper essere presenti come sfida nelle loro gioie. Nel mercato del vissuto delle persone ci sono tantissime proposte, tantissime possibilità di felicità che può essere anche buona, nel senso che non sono tutti prodotti che fanno male, le felicità proposte nel mercato della vita, però tante volte assolutizzarle porta questi giovani ad una dipendenza dannosa. Per non essere astratto, vi vorrei fare due esempi. Il primo esempio viene da mio figlio, il grande che ha dieci anni, noi siamo un po’ restrittivi sui giochi digitali, mia moglie molto di più, avendo io da bambino giocato e non essendo diventato un serial Killer, non sono così demonizzante su questi giochi, per cui ogni tanto, gli permetto di giocare e gioco anche con lui o con loro, cercando di essere presente anche come educatore nell’esperienza. Stavamo facendo un gioco, e mi chiede “ma può esistere un gioco che non finisce mai? Un gioco infinito?”. E’ una domanda che fa trapelare quell’infinito che desideriamo in ogni nostra esperienza. Quando Rahner parla di con- conoscenza di Dio in ogni esperienza che facciamo, che può sembrare una cosa molto astratta, molto costruita, in realtà è quello che noi cerchiamo in ogni esperienza. Vuoi essere felice? Ma lo vuoi all’infinito. L’inganno è pensare che l’infinito sia una infinità di finiti o, peggio ancora, dei finti infiniti. Cioè quando ti viene proposta nella pubblicità, una crociera o un night club o un telefono che ti farà felice, sono finti infiniti. Mentre pensare che la tua felicità sia avere un gioco che non finisce più è un inganno, è un rimandare il tuo desiderio di infinito. Per cui il nostro lavoro dev’essere quello di rilettura dell’umanità alla luce dei suoi veri desideri. Non in chiave moralizzante, in chiave bacchettona, ma in chiave veramente sapienziale. Che richiede presenza e conoscenza di sé, con la quale si rispecchia la conoscenza dell’altro. Ecco il secondo racconto. Tra i luoghi in cui insegno quello più sfidante, più semplice quanto ai contenuti, ma più sfidante quanto alle relazioni, è l’insegnamento alla università cattolica dove devo insegnare Teologia a studenti di medicina o di economia ospedaliera, che devono fare dei corsi di Teologia. Io, diciamo, sono l’elemento di disturbo perché si chiedono perché devono fare Teologia, per cui c’è anche una specie di odio iniziale verso la mia figura. Col tempo, però, nascono dei contatti, nascono delle relazioni, nascono dei dialoghi. E una di queste persone è un ragazzo che è stato un po’ attirato dalla curiosità, perché mi diceva “Vedo in lei una gioia che io in tutto quello che faccio”, e ne fa di cose, “non ho sperimentato”. È iniziato un dialogo basato su questa ricerca per capire che “prodotto usi?” o “cosa hai di più?”. In uno di questi dialoghi, eravamo al bar, stavamo prendendo un caffè, gli ho chiesto un po’ come si declina la sua esistenza. Mi ha detto: “Io vivo in funzione del weekend, cioè il venerdì sera è l’apice verso cui corre la mia vita. Poi se riesco a racimolare anche qualche creatura da portare a letto reputo che il mio weekend sia di successo”. Diciamo che è la vita di un figlio unico riccone che veramente ha perso il bersaglio. Piuttosto che fare il moralizzatore, cose che penso fanno il papà e la mamma, gli ho fatto una domanda, secondo lo stile gesuano di educare, di evangelizzare, “Ma tu quando vivi così, o vivendo così, sei felice?”. La cosa bella è che un ragazzo, comunque immerso in questa esperienza, non ha cose da cercare per poterla vivere, mi disse “ho tanto piacere, ma non sono felice”. È una esperienza anche abbastanza paradossale, perché a volte le persone non si accorgono della vacuità delle loro esperienze tranne dopo averle lasciate; questa persona è stata molto onesta nel riconoscere che ciò che sta vivendo e ciò che non ha ancora deciso di smettere di vivere, comunque non è quello che desidera nella vita, non è quello che colma il suo cuore. Allora che lezione tiro fuori da questa esperienza, innanzitutto bisogna essere presenti e presenti a tempo perso, a mani bucate e riconoscere che tante volte le nostre esperienze di evangelizzazione possono o non essere riuscite o possono far risuonare una cosa che poi magari è solo un flatus vocis. Questo ragazzo magari voi vi aspettate che si sia convertito, ma invece no. Noi siamo chiamati a spenderci, a raccontare della vera gioia, a piantare vere domande, a sollecitare quel senso dell’umano e di Dio, che tante volte è soffocato sotto le ceneri di falsi piaceri. Poi è opera del Signore, aiutare le persone a raggiungere una loro pienezza. Siamo inviati dove il Signore ci manda. Il tutto lo porta Lui, le persone a cui ci manda sono sue; essere presenti. Nei due esempi che vi ho fatto c’è un elemento comune: ero presente nel gioco, ero presente al bar, essere presente nel luogo dell’altro. Conoscersi per conoscere l’altro: sono umano niente di ciò che è umano mi è estraneo, significa che conoscendo i tuoi desideri sai aiutare l’altro a discernere i propri, sai aiutare l’altro a capire quale cosa è soltanto un’illusione e quale altra cosa è veramente concreta, realtà.

L’annuncio del Risorto nei fallimenti, anche relazionali, dei giovani… Penso che noi come cristiani abbiamo una marcia in più, che il nostro annuncio non avviene in un terreno neutro in cui tutto deve andar bene. Non è un processo di lievitazione che, se cambiano le temperature, la torta esce una piadina, no! Il nostro annuncio nasce proprio dall’avversità, nasce proprio da un messia fallito, nasce proprio da relazioni tradite. E quindi bisogna confrontarsi con il volto di Cristo. Ogni epoca ha le sue eresie; cos’è una eresia? è prendere una parte per il tutto. Una parte dell’eresia di quest’epoca è quella di annunciare che Dio ti ama, senza contorni, senza nè esigenze nè contrasti. Rileggiamo il Vangelo, integralmente, con la lente della nostra epoca, perché la lente di un’altra epoca poteva essere Dio è giusto, la lente di un’altra epoca Dio vuole che tu converta i pagani, la lente di un’altra epoca Dio vuole che tu muoia martire. Ogni epoca ha la sua eresia: prendere una parte per il tutto. La nostra sfida è la sfida dei santi, è quella di cercare per quanto possibile, di conoscere, di gustare, di presentare il vero volto di Cristo presente nel Vangelo. Il nostro annuncio deve passare per il Messia sconfitto, deve passare per il crocifisso risorto. Cioè la risurrezione non passa senza la morte, altrimenti Cristo sarebbe rimasto vivo, morto di morte naturale al massimo. Bisogna portare la sfida della novità del volto di Cristo che sarà sempre nuovo, fino alla fine dei tempi. E mostrare che Cristo è rimasto se stesso e ci chiama ad essere suoi discepoli.

 

  • Sono Francesca. Hai detto: sfido chiunque a dire che 1+1 non fa 2. Volevo raccontarti un episodio molto bello. Mio papà era un fisico nucleare, che faceva ricerca nucleare negli Stati Uniti. Quando si sono accorti di aspettare un bambino lui, che si professava ateo, e che diceva di credere nella verità blocco, mandò un bellissimo telegramma a sua mamma dicendo 1+1 = 3. La trovo una cosa bellissima che apre la porta alla verità blocco.
  • Hai citato i padri del deserto, per un periodo della mia vita mi sono molto appassionato; credo che vadano recuperati. Forse abbiamo troppo insistito che è buono andare in chiesa, cioè è buono incontrare il Signore, ma dobbiamo dire che è anche bello incontrare il Signore, è anche bello andare in chiesa. Dobbiamo recuperare la dimensione della bellezza nei confronti della nostra fede.
  • Hai ripetuto più volte di rientrare in se stessi ed è quello a cui siamo stati un po’ abituati nel cammino. Rientrare in se stessi ascoltarsi. Nella vita quotidiana diventa un po’ difficile, per il lavoro che faccio io lavoro in un hospis oncologico da 14 anni, sono chiamata ad ascoltare gli altri oltre a svolgere il mio servizio come infermiera. È un continuo uscire, uscire da me per incontrare loro. Come evitare di non ascoltarsi più, perché purtroppo avviene, anche se nella preghiera io cerco di mettermi in contatto con me stessa oltre che con Dio, nell’andare della vita quotidiana a volte mi perdo.
  • Vorrei sapere il suo punto di vista sull’inverno vocazionale che sta vivendo la chiesa. Perché siamo arrivati a questo punto e se veramente il bello deve ancora venire come molti dicono…

 

Ringrazio Francesca: molto bello e in fondo questo è possibile solo nella relazione; mi hai fatto pensare a “A beautiful mind”, non so se ha visto il film, dove quell’uomo che è alla ricerca delle verità poi scopre la formula dell’amore che sblocca la verità blocco. È verissimo: il trasfigurare la materia ci permette di vedere come lo spirituale è tangibile.

Recuperare i padri ci aiuta non soltanto nell’essere più zelanti, ma anche più equilibrati. Perché tra le virtù che i padri sottolineano come le virtù cardinali c’è la temperanza che a volte manca quando siamo novizi, nei diversi ambiti, noviziati per gli studenti, noviziati nel lavoro. Sant’Antonio Abate dice che tante persone hanno fatto percorsi grandi, cammini grandi ma dopo un po’ si sono persi perché mancava la temperanza. E c’è questo bellissimo racconto che è il contraltare del parlare sempre di Dio a tavola, perché Antonio dice che una volta si ferma da lui un cacciatore e sta lì. Vengono da lui dei monaci giovani e cenano con Antonio e mentre cenano, Antonio fa qualche battuta e dopo cena si mette a scherzare con loro e questo uomo si scandalizza. Antonio, avendo il dono della cardiodiosia, sa che questo uomo si è scandalizzato e allora così, di punto in bianco, lo invita e gli dice: prendi il tuo arco, prende il suo arco, tira la corda, tira la corda, tira la corda, tira ancora, tira ancora. Abbà, non posso più tirare perché tirando ancora di più rovino l’arco, si spezza la corda.

Antonio gli dice che lo stesso vale per i giovani monaci, ma lo stesso penso che valga anche per lui. Tante volte quando siamo novizi, sembriamo più spirituali; poi ti rendi conto che altre persone hanno un ritmo più sostenuto, riescono a vivere la maratona della vita spirituale che è lunga, mentre il novizio riesce a vivere lo sprint, ma poi rotola sulla propria lingua. I padri hanno molto da insegnarci anche su questo, sulla concretezza di sopportare Dio, perché Dio va anche sopportato per una gran fetta della nostra vita.

La questione della bellezza: anche su questo condivido moltissimo; in una delle parrocchia in cui ho fatto delle catechesi per una lunga serie il parroco aveva il chiodo fisso della gente che deve venire a messa. È un po’ come la preoccupazione che proprio perché è preoccupazione non attira nessuno. È un po’ come se tu apri un ristorante e ti metti lì davanti a piangere dicendo:, ma perché non entrate, perché non entrate… Bisogna creare oasi di bellezza che permettano di fare una bella esperienza. Sempre in quella parrocchia il parroco mi ha fatto fare l’incontro con i genitori dei ragazzi della prima comunione, che sono stati obbligati a partecipare, pena la non comunione dei ragazzi. In quell’incontro, un papà, dall’aspetto un po’ così (è vero che l’aspetto non dice tutto ma a volte dice qualcosa), gli orecchini, il tatuaggione, si è fermato a parlare con me e mi ha dato la sua versione di quella esperienza. “Il parroco ci dice che dobbiamo venire a messa, come se il cristianesimo ruotasse tutto intorno all’esperienza della messa”. E’ così, ma non è così allo stesso tempo. Cioè il mistero cristiano si presenta mediante i sacramenti, ma non è sacramentocentrico e, a volte, per arrivare al cuore dell’esperienza sacramentale, hai bisogno anche del contorno. Quel papà mi ha detto una cosa molto suggestiva: “Una volta sono venuto dal parroco per parlargli della mia lotta, del mio combattimento, di quello che sto vivendo, siccome non era in confessionale, ma avevo un bisogno di direzione spirituale, mi ha sbolognato con due parole”. Cioè quel sacerdote che si lamenta, ed è un santo sacerdote, perché anche i santi sbagliano, quel sacerdote fissato sul sacramento, che nella sua esperienza ecclesiale, è diventato un idolo, non era capace di vedere la sete spirituale di un uomo che lo ha cercato non per la via maestra della richiesta o di confessarsi o della richiesta di un sacramento per i propri figli o per se stesso. Quindi dobbiamo scoprire veramente questa bellezza: la sete di Dio che non sempre parla l’ecclesialesimo.

Rientra in te stesso, ascolta gli altri … quante volte devi parlare di Dio facendo lezioni di teologia e tante volte, lo dico vergognandomi di me stesso, lo fai parlando di Lui senza aver parlato con Lui. A volte questa realtà è talmente acuta, che sento la necessità di interrompere la preparazione di una conferenza, per stare in preghiera e quando accade questo è un momento di grazia. Perché tante volte lo faccio senza accorgermi, con la frenesia dell’annuncio dell’eternità, ti dimentichi della relazione con lui. Non è mai una cosa semplice, è un po’ come il cammino del funambolo: hai bisogno di trovare un equilibrio, ma la cosa importante è ricordarsi sempre dell’armonia, della circolarità che c’è. Ovvero gli altri hanno bisogno di parlare di loro stessi, ma tante volte parlano di se stessi a fior di pelle. E quindi se io sono abituato a parlare solo a fior di pelle, e a vivere a fior di pelle, rimango con loro in questo rumoreggiare dove non c’è vera parola. E do un esempio concreto, che mi è capitato qualche settimana fa; proprio di sentire la confidenza di una sposa molto sofferente che parlava molto animatamente di quello che sta vivendo sia per iscritto, sia telefonicamente. Mi sono accorto di quanto di vero c’è in questa sofferenza, ma di quanti nodi che non arrivano al pettine perché c’è un continuo rigirare della cosa. Le ho detto: “Lei mi sa raccontare tutto e il contrario di tutto, perché è nella mischia della battaglia che sta vivendo, ma sotto cosa c’è? Lei in fondo oltre alla parola bella o alla parola brutta del giorno, oltre ai momenti in cui siete più intimi o più lontani, lei cosa sta vivendo? Perché una lettura reale di sè, non sta uscendo da questo parlare, da questo abuso del linguaggio: ho la capacità di formulare parole e sto lì, parole, parole, che non riecheggiano la mia parola intima”. Quindi penso che piuttosto che vedere in contrapposizioni il rientrare in se stessi e l’uscire, le persone esternano perché vogliono dire un’interiorità. E se io ho una interiorità ben nutrita le aiuto a rientrare in se stesse per uscire. Perché c’è questo ingresso ed esodo.

Il bello vocazionale, il bello deve ancora venire, non so perché lo chiede a me, mi sento onorato ma anche fuori luogo. Penso che se ci mettiamo in ascolto di Gesù, che ci invita come invita Pietro a dimenticarsi e che dice: Tu seguimi, comprendo che ciò che veramente posso cambiare nella storia del mondo è forse, se sono disposto, me stesso! Quindi pensare ad inverni vocazionali, a primavere vocazionali, serve poco: nell’atto pratico io mi devo spendere. Noi siamo chiamati a spenderci sapendo che già dall’inizio del cristianesimo tutto si declinava con la logica del piccolo gregge. Il fatto di essere massificati per secoli in Europa, nel senso buono del termine, cioè di essere la maggioranza, con una società cristiana, non come adesso post-cristiana e post-metafisica e post-tutto, è stato una specie di inganno non voglio dire felice o infelice, da cui adesso, possiamo dire, siamo usciti. Abbiamo tante strutture grandi vuote, abbiamo chiese che non si riempiono, almeno in alcune zone. Il punto però è un altro e lo dico come parere personale che non impongo a nessuno, io sono chiamato a seguire Gesù, ad annunciare Gesù, che ne sarà di lui che ne sarà di loro che ne sarà del domani, non sono chiamato a rispondere con una risposta mentale o da cartomante, o da analista, ma da discepolo. Tu seguimi, tu seguimi. Mi ami tu? Seguimi.

 

Don Michele: C’è un sito un blog teologhia.com dove potete trovare video e i titoli delle opere di Cheaib. C’è né una che vuoi suggerire? Due testi, anzi tre: “Il nascondiglio della gioia”, “Alla presenza di Dio” “Scorciatoie verso Dio”.