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Libero e sedotto guardo la luce

Gérard ha quindici anni – e nessuna intenzione di diventare monaco – quando arriva per la prima volta al monastero di Mont-des-Cats, quasi per caso. È con un amico che lo mette in guardia dalla “trappola della vocazione”, ma per lui è un vero colpo di fulmine.
Dopo cinquant’anni riflette sulla grande libertà che ha provato rispondendo alla chiamata di Dio.

 

Ci mettiamo per strada. Mi avverte:

«Dai Maggiore, bisognerà stare in guardia. Sembra che quando si entra nell’abbazia da una porta che non è quella giusta non si esca più…».

Un chilometro più in là ricomincia: «Bisogna stare attenti a non sbagliare porta! Non fidiamoci». Me lo ripete durante l’intero tragitto. Alla fine anch’io ho paura come lui. Dopo un po’ ci immaginiamo tutti e due dietro a una porta che non si riapre più. Non è incoraggiante. Io sto in guardia e, discorrendo, ci incoraggiamo l’un l’altro a vigilare, ben decisi a non cadere nella trappola. […] Ci presentiamo alla porta intimiditi e sulla difensiva.

Il portinaio ci introduce nella foresteria e, una volta istallato nella mia camera, mi presento al predicatore del ritiro, un gesuita come il mio cappellano.

Mi fa delle domande sul lavoro che vorrei fare da grande:

«Voglio essere prete» dico.

«Perché non gesuita?» mi chiede.

«Cosa mi porterebbe in più? Dovrei obbedire ancora di più. Qual è il vantaggio?»

«E perché non trappista?»

«Ancor meno che gesuita! Non mi piace affatto.»

Non che ne sappia molto. A parte il portinaio, intravisto rapida-mente, non ho ancora incontrato nessun trappista. Ciò che ho visto è soprattutto la scala piccola e scura, vicino all’ufficio del padre gesuita, che si perde nelle profondità inquietanti del monastero. L’ho vista prima di entrare da lui. Quel buco nero evoca per me una trappa lugubre e orrenda. «Oh no, non trappista, non là dentro! …» Non voglio cadere in questa trappa che in quel momento non rappresenta per me niente di attraente.

Rientro nella mia cella e mi metto a riflettere per mettere per iscritto le ragioni che ho di diventare prete. D’un tratto mi torna in mente la domanda: «Perché non trappista?». Qualcosa di inatteso si produce allora, il fenomeno non dura che una frazione di secondo, ma orienterà tutta la mia vita. La domanda si presenta di colpo come una luce che sorge davanti ai miei occhi. La luce è davanti a me, io sento che se voglio dire di no non devo guardarla, perché se la guardo non potrò staccarmene e sarò costretto a seguirla. Ma io mi sento perfettamente libero di non guardare, potrei chiudere gli occhi. Eppure allo stesso tempo non voglio non guardare quella luce, non posso non guardarla. Capisco in un decimo di secondo ciò che i teologi fanno così fatica a spiegare: la coesistenza della libertà totale dell’uomo e l’onnipotenza divina che ottiene quello che vuole. Insieme libero e sedotto guardo la luce. La guardo in pace. E dico di sì. «Perché non trappista? Altri hanno scelto questa via, perché non io?» Questa doppia impressione della forza della grazia divina e della mia libertà totale resta viva in me. Una certezza si impone, sempre la stessa verità: se guardo la luce non posso non seguirla, e sono libero di non guardarla, ma non posso impedirmi di farlo. Non si impone, potrei non farlo. La scelta è mia, intera e del tutto personale. Ma è più forte di me.

Tutto è accaduto molto semplicemente. Ormai la mia decisione è presa. Sarò trappista. Il cambiamento è completo quanto improvviso e inspiegabile. Ciò che pochi minuti fa scartavo, ormai so che è per me. La mia strada è lì e non potrò più respingere la luce che mi attira. Anche nei momenti di oscurità continuerò ad andare nella sua direzione. Ho già cominciato ad avanzare. Ho fatto il primo passo.

Improvvisamente qualcuno bussa alla mia porta. Un compagno mi toglie dalle mie riflessioni. È stato incaricato di chiedere a ciascuno se, dato che stiamo facendo un ritiro, desideriamo vedere un prete tra quelli che sono stati designati. Io gli indico a caso un nome di un monaco che si trova sulla lista, padre Yves (verrò poi a sapere che è mio cugino). Arriva dopo poco e mi pone la domanda di rito:

«Cosa vuoi fare più tardi?».

«Essere trappista!»

È colpito dalla forza che metto in questa risposta. Niente preamboli, né giri di parole, sono determinato. Però non ho ancora incontrato un trappista: è lui il primo con cui parlo, a parte il portinaio con cui ho scambiato alcune frasi di cortesia.

Più tardi ho ripensato a questa esperienza iniziale. Mi sono confrontato con le spiegazioni dei teologi: noi abbiamo sempre la tendenza a collocare l’uomo e Dio sullo stesso piano, in concorrenza; quello che fa l’uno, non è opera dell’altro: o Dio o l’uomo, e si capisce che alcuni rigettino quello che potrebbe loro sembrare come un’interferenza di Dio che limiterebbe la libertà dell’uomo. In realtà l’uomo non è mai tanto libero come quando risponde a ciò che sente come la chiamata di Dio. Tutti quelli che si impegnano come me nella vita religiosa fanno questa esperienza un giorno o l’altro, anche se non accade in maniera così improvvisa e decisiva al primo colpo. Il cammino è a volte lungo, tortuoso, tormentato, esitante, ma al suo termine c’è l’esperienza di cedere liberamente a una seduzione. E l’elemento decisivo della vocazione che non impedisce di interrogarsi sulle attitudini di ciascuno. Anche questo va calcolato. Quelli che si sposano lo fanno perché si amano. Ciò non toglie che si rifletta, prima di impegnarsi, sui gusti e sugli orientamenti di ciascuno, sul temperamento dell’altro, in modo da riuscire a identificare tutte le ragionevoli possibilità di riuscita. Ma la forza che spinge i due sposi viene da un’altra fonte che non è questo esame.

 

(Dom Marie-Gérard Dubois, Passione estrema per l’assoluto, Piemme 1997, pp. 40-42)