N.05
Settembre/Ottobre 2001
Studi /

L’antropologia cristiana della speranza

L’esigenza di coniugare e riesprimere il “semper” ed il “novum” del messaggio evangelico in vista della proposta vocazionale trova nell’antropologia un particolare punto qualificante. L’orizzonte delle grandi decisioni che danno consistenza all’esistenza si incrocia con le domande che perennemente attraversano il cuore di ciascuno, tra le quali un posto di rilievo deve essere riservato al ruolo della speranza nella decifrazione del “mistero della vita e della morte” e del “senso dell’incompiutezza dell’uomo e assieme della sua apertura al trascendente”[1]. Lo scopo di questo sintetico contributo è di sviluppare attraverso alcuni passaggi, necessariamente contratti, una linea di riflessione sulla speranza che, dall’iniziale legame con la questione del senso, si allarghi fino al punto cruciale, la morte, dal quale ricomprendere in modo maturo la stessa dinamica dello sperare nel tempo della vita. La collocazione storico-culturale del problema imporrà, inoltre, l’attraversamento della categoria di “crisi della speranza” con la quale è stata variamente interpretata la contemporaneità, soprattutto dopo il fallimento dei grandi progetti utopici in anni non ancora lontani[2].

 

 

Frammenti di speranze e crisi della speranza

Una riflessione antropologica sulla speranza, dopo la caduta delle ideologie forti e l’atmosfera di disincantato sospetto che circonda i grandi progetti utopici che a più riprese si sono presentati sulla scena della modernità, sembra essere fuori moda[3]. Tuttavia, nonostante l’alleggerimento e l’evanescenza della speranza nell’orizzonte della pianificazione tecnologico-scientifica della vita, essa continua ad avere una forza evocante e insospettati ritorni, seppure in forme dimesse che ne dimostrano, con la persistenza, la sua irriducibilità nell’esistenza dell’uomo e il radicarsi nella profondità del proprio essere. “Non che le speranze siano assenti dal quotidiano dipanarsi delle vite, ma appunto sembra che si resti affidati ad uno sperare effimero e disperso, diversamente assediati e corrotti dal miraggio di un consumo sempre più disponibile: avere piuttosto che essere, economie della privatezza piuttosto che impegno in comuni attese, cura di presenze cercate e ben presto dimesse piuttosto che consegna alle comunioni di storie possibili”[4]. L’osservazione di Virgilio Melchiorre, se da un lato documenta il permanere di speranze nell’uomo, dall’altro evidenzia la debolezza attuale del loro profilo. Quello di ripiegarsi sulla qualità del proprio presente, inteso nei termini di benessere emotivo, che spinge a chiedere molto dall’attimo come luogo di realizzazione di ogni immediato bisogno, precludendo un accesso più profondo al tempo della vita nei termini di “tensione” e di “desiderio”, cui la speranza, nella sua stessa radice concettuale, fa riferimento[5]. A dimostrarsi inaffidabile in particolare è la qualità del presente come tempo dell’unità del soggetto nel suo venire da un passato, filtrato dall’esperienza e dai percorsi esistenziali consolidati, in cui prende forma l’autentico desiderio sulla propria vita, e nel suo protendersi verso un compimento che, proprio perché resta oscuro ed incerto, viene rimosso come impresa sproporzionata alla forza psichica dell’io[6]. Così il ripiegamento sulle speranze nella loro concretizzazione minuta, perché bastino per il peso di ogni giorno, tende a riporre come inadeguato un pensiero sul tempo del proprio decidere ed agire e, semmai, a fare della grande speranza un semplice sogno adolescenziale dal quale risvegliarsi troppo presto all’impatto con la durezza realistica del quotidiano, per affidarsi piuttosto alle sicurezze del benessere emotivo sempre in bilico tra la presunzione e la disperazione.

L’indubitabile sottrazione di peso alla speranza, tuttavia, resta lo spazio in cui riproporne in modo più decisivo la sua serietà in ordine alla comprensione profonda di sé  e alla disposizione del tempo della vita. “Colui che spera, per poco che la sua speranza sia reale e non si riduca a un desiderio platonico, appare a se stesso come coinvolto in un determinato processo; ed è da questo punto di vista che è possibile rendersi conto di ciò che vi è di specifico […] nella speranza, che […] si presenta come mistero e non come problema”[7]. Con queste parole nel 1942 Gabriel Marcel invitava a riprendere il tema della speranza e a collocarlo nel suo quadro di riflessione più adeguato, spostando l’attenzione dal problema da spiegare, al mistero profondo da accogliere e riconoscere nella vita di ciascun uomo. È significativo il fatto che l’ambito della speranza si saldi sulla stessa autocomprensione più immediata della persona di fronte alla vita. L’esistenza, come la speranza, sono da accogliere nella prospettiva di un mistero che mi sopravanza, ma in cui sono immerso e che attraverso l’agire sono chiamato ad esplicitare, nella certezza che il suo compimento non venga dalla semplice tensione della mia volontà, ma dalla disponibilità stessa ad accoglierlo come dono. In tale comprensione dell’esistenza, con la speranza la persona dispone la via a ciò che deve venire e di cui già in qualche modo ne è partecipe[8]. Dentro questo rapporto, che prefigura a livello di antropologia la tensione dell’escatologia cristiana del “già” e del “non ancora”, si precisa ulteriormente il legame tra il senso dell’uomo e la speranza. Il “non sapere del tutto”, che distingue la speranza dalla chiarezza della visione, il desiderio di protendersi dal presente al futuro, non è un appoggio sul terreno franante del nulla, in cui l’uomo uscendo fuori di sé rischia di essere risucchiato nella disperazione, bensì trova il suo punto di slancio in una certezza che mi precede e che fonda la vita nella comunione e nell’affidamento reciproco non solo degli uomini, ma dell’uomo con l’Assoluto[9]. Qui si colloca il “sapere” della speranza, conscio del suo “non sapere” definitivo, e dunque sprone a ricercare nell’agire della vita Colui che insieme è intimo all’uomo, tanto da chiamarlo fuori di sé nell’esodo verso la libertà, e Colui che è sempre in stato di avvento come offerta di una comunione già donata e non ancora compiuta, dischiudendo lo spazio alla responsabilità umana di disporre del proprio tempo nell’attesa vigilante ed operosa[10].

Nel suo annodarsi alla condizione storica dell’uomo, la speranza perde il sapore utopistico, spesso fautore di comportamenti deresponsabilizzanti, senza per questo abbandonare la forza di una tensione utopica. Il vigore della speranza sta appunto nella capacità di anticipazione che orienta e non distrae l’agire storico, alla luce di un futuro di compimento non più visto come qualcosa di sfuggente e proiettato nell’illusione irreale, ma che rappresenta lo stimolo per sottoporre i progetti degli uomini e di ciascuna persona al giudizio di ciò che manca al proprio presente, determinando percorsi ed obiettivi che non siano disarticolati, ma consentano l’unificazione sensata del proprio itinerario di vita. 

 

 

L’ipotesi escatologica e l’esistenza cristiana nella speranza

La riflessione teologica sull’escatologia rappresenta l’alveo in cui ricondurre nella sua collocazione più pertinente il tema della speranza del cristiano, ma anche si pone come un pensiero alternativo agli sbocchi nichilistici della cultura della modernità, particolarmente nella forma della caduta del problema del senso e della sua insignificanza in ordine alla gestione dell’esistenza. Non è certo questo lo spazio per riproporre compiutamente una teoria dell’escatologico cristiano, quanto piuttosto di coglierne semplicemente la specificità in ordine al problema antropologico della speranza. Appare già significativo riflettere sui termini con i quali si è compreso questo capitolo della teologia, che ha riscontrato un ampliamento di prospettiva nella riflessione del secolo XX, passando da un’indagine cosificata sugli elementi che compongono il trapasso della storia umana, individuale e collettiva, nell’eternità (morte, giudizio, inferno, purgatorio, paradiso), all’orizzonte ampio dell’éschaton cristiano nel suo compiersi definitivo nel mistero pasquale di Gesù[11]. È il definitivo espresso dalla Pasqua il punto che attua la “scoperta del futuro nel passato” (E. Bloch), cui la speranza umana allude nella sua accezione più profonda. Il presente dell’uomo riacquista, così, il suo spessore autentico e umilmente si lascia guidare dal compiersi attuale all’essere compiuto in modo definitivo. 

Ciò che sostanzia il definitivo è alluso dalla stessa forza semantica dei termini che la tradizione teologica ha assegnato a questo capitolo-prospettiva globale del suo sapere. Esso riguarda le cose ultime (éschata) e nuove (novissima). In questa tensione ritroviamo alcuni tratti della speranza già sommariamente richiamati. L’ultimo non solo arriva come epilogo della storia, ma è già riposto dentro la storia per impedire la radicalizzazione di ogni penultimo che l’uomo può erigere come assoluto per la sua vita. L’ultimo non cessa di mantenere la sua forza evocativa di ciò che è già anticipato nel desiderio umano e che attraverso l’agire personale diventa meta da perseguire. L’ultimo però si pone anche come il nuovo, lo spazio non prevedibile dal calcolo dello stesso desiderio umano, che viene sorprendentemente donato e di cui l’uomo non cesserà di essere grato. Il nuovo pone dunque la speranza umana in una logica che interrompe la continuità (tensione verso l’ultimo), per assumere ed integrare in sé gli stessi elementi di discontinuità (la morte e le sue anticipazioni nella sofferenza fisica, psichica e spirituale) propri di ogni vita e che abitualmente, ed ingenuamente, diventano l’oggetto dello stesso sperare[12]. Ultimo e nuovo nella loro tensione dicono della speranza, del suo “sapere in anticipo” il definitivo (il mistero pasquale di Gesù come chiave del compimento della storia) e del “non sapere del tutto” sia il tragitto attraverso cui approdarvi attraverso l’esistenza, sia la reale consistenza di quanto viene pregustato nella fede che spera.

In questo quadro si può collocare in modo più agevole la peculiarità della riflessione cristiana sulla speranza dell’uomo. Sono in particolare due testi neotestamentari a documentare in senso antropologico la tensione accennata tra l’ultimo e il nuovo che si attua nel definitivamente rivelato dalla Pasqua di Gesù. Un posto di rilievo è da attribuire alla riflessione che Paolo propone sull’amore di Dio, manifestato nel Figlio, in cui trova espressione la salvezza e la speranza del credente (Rm 5, 1-11). Possiamo segnalare come tale speranza riposi nella certezza dell’amore di Dio, riversato in modo abbondante dallo Spirito nel cuore del fedele, e dunque, come essa si sostanzi nell’esperienza di essere, nel Figlio, amati da Dio. La radice del sapere della speranza circa la vita del credente sta dunque nella certezza di essere termine di una relazione di amore che fonda una comunione di destino con Gesù. La dimensione della “novità”, del non sapere della speranza, consiste nella genesi concreta di essa in ciascuna persona. Essa non scaturisce primariamente dall’attività dell’uomo, ma dalle esperienze patite della tribolazione e dal loro frutto: la pazienza, la perseveranza, la virtù “temprata” dai punti stessi di discontinuità della vita (Rm 5, 4), nei quali il credente però sa di partecipare, insieme alle sofferenze, alla stessa potenza vittoriosa del Crocifisso. Questa conoscenza non mette al riparo dal possibile naufragio della speranza, ma deve rappresentare la parola della “promessa”, che l’uomo pone come cifra interpretativa della sua storia di vita, e su cui è chiamato a ritornare e a riprendere continuamente. 

Tuttavia non può essere misconosciuta una certezza propria della speranza che svolge nell’uomo credente una salutare presa di distanza da ogni angosciosa preoccupazione circa il proprio destino. “La speranza – nota opportunamente Patrizio Rota Scalabrini – svolge una funzione liberatrice: se la salvezza dell’uomo e della storia non appartiene unicamente al futuro, ma comincia già nel presente, la dinamica del futuro stesso è già anticipata, ed è sperimentata come gioia, come forza, come coraggio, come passione intensa per i valori duraturi. La certezza della speranza diventa così la fonte di quella gioia del credente, esperimentabile anche nelle prove più dure (Rm 12, 12)”[13].

Dentro tale certezza la speranza riacquista il suo sapore attivo di superamento di ogni rassegnazione e di resistenza nei confronti del male che sostanzia l’impegno del cristiano sulla propria vita e su quella dell’umanità, anche se parimenti sarà chiamata, nella resa all’irrompere della morte, a riconoscere l’insufficienza di ogni suo agire, per abbracciarne sorprendentemente il suo compimento come dono di Dio. È questa la prospettiva in cui rileggere l’altro importante testo paolino di Rm 8, 18-25, in cui la speranza trova posto dentro il dramma cosmico e storico della rivelazione piena del senso della creazione e dell’umanità nel dono della piena libertà. L’immagine del parto doloroso, del gemito interiore nelle cose e negli uomini, viene associato alla speranza. Ogni parto di donna scaturisce dal desiderio, dalla tensione verso l’atteso, ma anche (di nuovo la logica del “non sapere” della speranza) deve riconoscere l’essere a lei donato come realtà da accogliere nella sua irriducibilità al proprio stesso desiderio. C’è una verità definitiva che la speranza non possiede ancora, e che si dà dentro quel dolore, nel quale saremmo portati a mettere sotto giudizio Dio e il suo amore. In questa speranza che scaturisce dal dolore, ricorda Paolo, “noi siamo stati salvati” (Rm 8, 24). Di nuovo l’evento della croce, nel quale Gesù pone l’atto estremo di non essere estraniato dalla comunione con il Padre, diventa la cifra di una speranza che non pone illusioni né lenitivi alla concretezza storica dell’uomo, ma l’invita a rileggerla come parto alla vita piena.

Se l’oggetto della speranza nella sua linea escatologica si pone in avanti verso la resurrezione futura, non di meno essa trova una significativa anticipazione nell’esistenza attuale del credente. L’avere parte in Cristo al compimento del cosmo e della storia si pregusta nel possesso delle “primizie dello Spirito” (Rm 8, 23), grazie alle quali il cristiano sa di non essere abbandonato e lasciato solo, ma di appartenere già in modo definitivo e irrevocabile al suo Signore, e dunque né di vivere, né di morire per se stesso (cfr. Rm 14, 7-8). “Il cristiano è colui che sa di non appartenersi più, ma di essere legato per sempre a Gesù, quasi sua proprietà. Questo essere proprietà del Kyrios per Paolo non è certo un essere sminuiti nella dignità, ma è anzi la vera risorsa del discepolo di Cristo”[14]. Una risorsa che pone la sua vita in una precisa collocazione esistenziale in cui maturare una viva coscienza del proprio limite.

L’esperienza del limite, del non essere chiusi nell’orgogliosa affermazione della propria autoreferenzialità, è un’ulteriore caratterizzazione dell’antropologia della speranza. Rileggere l’uomo dentro il proprio limite non significa ricacciarlo in una pura e semplice finitezza, e dunque ripiegare il pensiero della speranza in un’etica della felicità possibile in questa vita, ma spinge ad una profonda comprensione di sé che, dalla matura percezione della caduta di ogni sogno di onnipotenza e autosufficienza, disponga ad una decisione di sé nel tempo della vita, comunque aperta ad un compimento la cui assicurazione, pur non cessando di esigere la responsabilità umana, riposa nell’agire di Dio, anticipato nella Pasqua di Gesù[15]

La finitezza e il limite impongono una decisione dell’uomo sulla propria vita, in cui trova una sua pertinenza la questione della speranza. Decidere implica un passaggio continuo dall’oggetto all’espressione soggettiva del prendere posizione nei confronti di sé. Ogni decisione così ha il suo alveo vitale nella speranza che protende l’uomo verso la meta, ma comunque non lo mette al riparo dal peso stesso delle sue scelte che domandano continuamente la pazienza di essere riprese nelle quotidiane sfide dell’esistenza. La decisione si qualifica ulteriormente come promessa configurando la finitudine umana nella sua dimensione più vera. Decisione e promessa esprimono il desiderio dell’uomo, nella sua collocazione finita, a restare integro dentro l’effettivo svolgersi del tempo della vita e le sue diverse stagioni[16]. Non può sfuggire la risonanza vocazionale del legame decisione-promessa-speranza, particolarmente nel suo connettersi al desiderio umano di vedere realizzata la propria identità personale attraverso la dinamica relazionale di reciprocità ed, in particolare, quella dell’essere riconosciuti da Colui che può salvaguardarla da ogni processo dissolutivo, anche nell’evento cruciale del morire, contro cui può sgretolarsi ogni speranza umana[17].

 

 

Speranza e morte

Con il tema della morte la speranza assume il banco di prova decisivo. Sottoposto ai ben noti meccanismi di rimozione, di tecnicizzazione e di banalizzazione l’evento del morire nella coscienza contemporanea tende ad essere collocato al di fuori della vita, come suo termine ma senza alcun riferimento ad essa. Nella prospettiva della speranza, invece, viene integrato nell’esistenza, con il suo imporsi progressivo nell’uomo, e dunque da percepire come culmine della vita. La certezza della morte non solo getta luce in modo retroattivo sui giorni dell’uomo, proiettando l’ambigua possibilità del fallimento, ma domanda di essere assunta positivamente di fronte alle decisioni, e più radicalmente al senso dell’uomo. La morte, la propria morte, non quella generica del “si muore”, rappresenta l’evento certo a partire dal quale l’uomo può far lievitare la speranza dai frammenti disarticolati delle molte speranze che si affollano confuse e alle quali può conferire in momenti particolari un peso falsamente decisivo. “Queste inchiodano il soggetto a ciò che è caduco, lo avvincono e poi lo abbandonano, sono soggette ad alterne esperienze e alla fine sono destinate a svanire. Sul loro crollo si erge la speranza vera, quella fondamentale. Proprio dal confronto con la morte, quando non sono più possibili evasioni e la cruda realtà non lascia alcuno scampo, c’è una facoltà nell’uomo che è ancora in grado di resistere: appunto la speranza fondamentale, che, se rivolta al compimento della persona e a valori trascendenti, non soggiace a delusioni”[18]. Se tale possibilità è vera nel momento della morte individuale, tuttavia deve essere anticipata nella stessa vita di ciascuno come cifra della presa di coscienza del proprio limite, della propria capacità-necessità di prendere posizione su di sé e su ciò che ha effettivamente ragione di bene circa la vita ed invoca di non venire meno anche durante la prova che la morte, come interruzione di ogni promessa e di ogni relazione, non cessa di essere. Riportare la morte nel cuore della vita significa imparare a plasmare la propria esistenza attorno a ciò che non svapora nell’effimero. Impone la pazienza e l’arte della scelta di ciò che è fondamentale, nella speranza che questo rappresenti quella certezza per cui nulla di me si dissolva e che il partire dalla vita sia solo l’ultimo e definitivo parto della vita. 

Diventa così importante rileggere le anticipazioni di morte che il vivere presenta, già nell’atto stesso delle decisioni esistenziali (tra cui quella vocazionale), come nella perdita di relazioni significative con la scomparsa delle persone care. In esse trova un’ultima configurazione la speranza cristiana dell’uomo: il morire a se stessi, agli stessi progetti, alle realizzazioni perennemente incompiute e il lasciare irrompere in noi la vita di Colui che ce l’ha offerta come dono, mostrandocene il senso con il donarla senza riserve. Così la speranza accompagna la fede verso il cimento ultimo, capace di far maturare il senso più vero del “con-morire” con Cristo che ne ha segnato nel Battesimo l’inizio, e anima la carità di ogni giorno, radicalizzata nel dono di sé che anticipa la morte, espropriandoci nella gratuità di quello che sentiamo come più nostro. 

Una compagna che, come ha suggestivamente evocato Charles Peguy, può correre il rischio sempre di passare inosservata perché adombrata dalle virtù maggiori della fede e della carità:

“La piccola speranza avanza tra le sue due sorelle grandi e non si nota neanche.

Sulla via della salvezza, sulla via carnale, sulla via accidentata della salvezza, sulla strada interminabile, sulla strada tra le due sorelle grandi, la piccola speranza 

Avanza 

Tra le sue due sorelle grandi.

Quella che è sposata. 

E quella che è madre.

E non si fa attenzione, il popolo cristiano non fa attenzione che alle due sorelle grandi. 

La prima e l’ultima.

E non vede quasi quella che è in mezzo. 

La piccola, quella che va ancora a scuola.

E che cammina. 

Persa nelle gonne delle sue sorelle.

E crede volentieri che siano le due grandi che tirino la piccola per la mano.

In mezzo. 

Tra loro due.

Per farle fare quella strada accidentata della salvezza.

Ciechi che sono che non vedono invece 

Che è lei nel mezzo che si tira dietro le sue sorelle grandi.

E che senza di lei loro non sarebbero nulla.

Se non due donne già anziane.

Due donne di una certa età.

Sciupate dalla vita”[19]

 

 

 

 

Note

[1] Cfr. Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche, Nuove vocazioni per una nuova Europa. Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita consacrata in Europa. Roma, 5-10 maggio 1997, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1998, nn. 12-13.

[2] L’articolo prosegue ed approfondisce ulteriormente quanto già proposto su questa rivista: P.D. Guenzi, La speranza è ancora una virtù? Per una ricomprensione teologico-esistenziale della virtù della speranza, ‘Vocazioni’, 17 (2000), n° 6, pp. 14-21; sul tema del senso: Id., Tutto me stesso: le riserve e le sfide dell’antropologia, ‘Vocazioni’, 16 (1999), n° 6, pp. 5-13. Alla bibliografia proposta nei precedenti articoli occorre aggiungere questi contributi per un ampliamento del percorso: E. Bloch, Il principio speranza, Milano, Garzanti, 1994 (ed. or. 1959); G. Marcel, Homo viator. Prolegomeni ad una metafisica della speranza, Roma, Borla, 1980 (ed. or. 1944); V. Melchiorre, Sulla speranza, Brescia, Morcelliana, 2000; A. Pieretti, Tra tempo e speranza. Il senso della vita, “Filosofia e teologia”, 14 (2000), n° 1, pp. 25-33; J. Galot, Il mistero della speranza, Assisi, Cittadella, 1971; J. Alfaro, Speranza cristiana e liberazione dell’uomo, Brescia, Queriniana, 1972 (Biblioteca di teologia contemporanea, 10); Id., Dal problema dell’uomo al problema di Dio, Brescia, Queriniana, 1991 (Biblioteca di teologia contemporanea, 65); F.O. Piazza, La speranza. Logica dell’impossibile, Milano, Paoline, 1998; Crisi della speranza, Milano, Glossa, 2000 (Quaderni di Studi e Memorie, 14); D. Vitali, Esistenza cristiana. Fede, speranza e carità, Brescia, Queriniana, 2001 (Nuovo corso di Teologia sistematica, 14); M. Bizzotto, Esperienza della morte e speranza. Un dibattito sulla morte nella cultura contemporanea, Milano, Vita e Pensiero, 2000.

[3] In questa prospettiva si colloca la riflessione di Bloch nel suo Principio speranza la cui risonanza nelle teologie della speranza è chiaramente riscontrabile. Per un bilancio critico cfr. G. Angelini, La speranza “militante”. Che ne è trent’anni dopo?, in Crisi della speranza, pp. 9-50; Vitali, Esistenza cristiana, pp. 30-34. Sul nesso speranza-senso cfr. Alfaro, Dal problema dell’uomo, pp. 9-24.

[4] Melchiorre, Sulla speranza, p. 7.

[5] Si allude alla radice semitica della parola speranza, espressa nel verbo qawah (cfr. Sal 39, 8; Sal 130, 5) che potrebbe riferirsi materialmente alla “corda tesa” e, in senso figurato, alla volontà che si protende verso il suo oggetto e insieme sa perseverare e pazientare tenacemente nell’attesa. La stessa terminologia biblica intreccia l’atto umano dello sperare e l’oggetto sperato, il bene atteso (cfr. P. Rota Scalabrini, La speranza non delude: elementi di una teologia paolina della speranza, in Crisi della speranza, pp. 108-112).

[6] “La crisi della speranza è la crisi di un presente scisso in se stesso: da una parte un passato superato, dall’altra un ultimo che è incapace di fissarsi su un avvenire penultimo determinabile. […] La possibilità di un discorso sulla speranza non può eludere il chiarimento di quell’esperienza fondamentale in cui si verifica quella circolarità essenziale tra esperienza ed attesa, tra dato e compito da attuare, in cui nella forza del presente, nell’iniziativa, o, che è lo stesso, nell’atto libero dell’uomo, si dà l’anticipazione della possibilità sensata del proprio tempo, di sé” (M. Salvi, L’indebolimento della speranza tra l’utopia e la rassegnazione, in Crisi della speranza, pp. 55-56).

[7] Marcel, Abbozzo di una fenomenologia e di una metafisica della speranza, in Homo viator, p. 45.

[8] Cfr. Melchiorre, Sulla speranza, p. 17.

[9] La speranza “si presenta come risposta della creatura all’essere infinito al quale sa di dover tutto ciò che è e di non poter senza scandalo porre alcuna condizione. Dal momento in cui mi prostro, direi quasi, dinanzi al Tu assoluto che nella sua infinita condiscendenza m’ha tratto dal nulla, sembra che io mi vieti per sempre di disperare” (Marcel, Homo viator, p. 57).

[10] “Realizzarsi nella speranza, piuttosto che nell’attesa illusoria, è dunque disporsi appunto nella pazienza e nella fiducia di un senso che sta nella radice infinita del nostro essere: una radice che ci custodisce, ma che ad un tempo ci trascende. Questo affidarsi alla trascendenza non è però una dimissione del nostro interesse per il concreto divenire dell’esistenza, non è il rifugio nei cieli di un qualche indefinibile al di là: la speranza non cessa di essere operosa nel tempo dell’esistere ed è infine solo nell’intima coscienza del tempo che il volto della trascendenza viene annunziato” (Melchiorre, Sulla speranza, p. 53).

[11] Per un bilancio e una proposta cfr. B. Forte, Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l’inizio e il compimento, Cinisello Balsamo (Milano), Paoline, 1991 (Simbolica ecclesiale, 7), pp. 289-359; L’escatologia contemporanea. Problemi e prospettive, a cura di G. Canobbio-M. Fini, Padova, Messaggero, 1995 (Studi religiosi).

[12] Cfr. Forte, Teologia della storia, pp. 294-295.

[13] Rota Scalabrini, La speranza non delude, p. 124. Cfr. Vitali, Esistenza cristiana, pp. 99-104, 307-352.

[14] Rota Scalabrini, La speranza non delude, p. 131.

[15] Il riferimento ad un’etica della finitezza è in particolare alla riflessione di Salvatore Natoli, per altro ricca di preziosi stimoli per evitare una rilettura sterile e spiritualistica dell’esistenza cristiana, di cui una recente sintesi in: S. Natoli, La felicità di questa vita. Esperienze del mondo e stagioni dell’esistenza, Milano, Mondatori, 2000 (Oscar Saggi, 694). Sul rapporto finitezza-decisione di sé cfr. Pieretti, Tra tempo e speranza.

[16] Suggestive riflessioni sul tema delle età della vita in R. Guardini, Le età della vita. Loro significato etico e pedagogico, Milano, Vita e Pensiero, 1986 (ed. or. 1953).

[17] Interessanti approfondimenti sul tema in A. Bertuletti, Il riscatto della speranza, in Crisi della speranza, pp. 89-106 (“Dio è il garante dell’assolutezza della relazione di reciprocità e dell’attesa di compimento che essa porta con sé. La figura del ‘garante’ è pertinente, ma essa non significa l’estraneità, ma, al contrario, il fatto che il compimento che Dio ci garantisce è il compimento di ciò che si anticipa qui e ora e nella forma in cui esso si anticipa”, p. 102). Sul tema della promessa cfr. R. Mancini, Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Assisi, Cittadella, 1996 (Orizzonti nuovi), pp. 64-93.

[18] Bizzotto, Esperienza della morte, p. 113.

[19] Ch. Peguy, Il portico del mistero della seconda virtù, in I misteri, Milano, Jaca Book, 1978 (Jaca Letteraria, 19), pp. 167-168.