Amati e santi per chiamata (Rm 1,7)
Nel saluto iniziale della Lettera ai Romani ritorna per ben tre volte il riferimento a una ‘chiamata’. Paolo, che si presenta come «servo di Gesù Cristo» e «apostolo per chiamata» (1,1), si indirizza ai «chiamati da Gesù Cristo» (1,6) che dimorano a Roma, definendoli «amati da Dio e santi per chiamata» (1,7).
Perché questa insistenza? Che cosa implica la consapevolezza d’essere ‘chiamati’, consapevolezza che Paolo ha quanto a sé stesso e che vuole indurre nei destinatari della sua missiva? Quale significato attribuire alla parola ‘santi’?
Saremmo tentati di pensare immediatamente alle responsabilità che incombono su chi è ‘chiamato’. In questa luce, la santità diventa la meta da perseguire e il coronamento di esistenze che hanno cercato di conformarsi alla vocazione ricevuta. C’è del vero in tutto ciò. Nondimeno l’apostolo invita, prima di ogni altra cosa, a rivolgere l’attenzione al soggetto da cui trae origine la chiamata, cioè Gesù Cristo, e all’amore di Dio che la sorregge. Si tratta di uno spostamento di baricentro che si rivela decisivo. Lo ha sperimentato Paolo, debole nella propria umanità, ma forte per la grazia di Dio. Lo sperimenta ciascun credente dal momento in cui riconosce davvero questo primato di Dio nella propria vita e lo accoglie con gioia, liberandosi dalla pretesa di ‘fare’ se stesso senza ‘riceversi’ da altri.
Una tale consapevolezza è fondamentale per l’esistenza e la missione della Chiesa intera. Persino nel nome essa porta impresso il segno della chiamata. È ekklēsia: una comunità di ‘chiamati’, che sono tali non per una sorta di privilegio o per una particolare illuminazione e per una qualche esclusiva elezione. Sono semplicemente dei ‘con-vocati’ perché testimonino insieme, davanti a tutti, l’amore da cui sono stati generati. Sanno d’aver ricevuto in dono la vita e il senso della vita, e cercano di orientare al bene la propria libertà, liberata dai lacci dell’autosufficienza, della presunzione, della ricerca di potere. Sono uomini e donne capaci di fede, di speranza, di carità, in un mondo che in ogni tempo ne soffre la penuria.
Per tutti questi motivi e altri ancora, Paolo non teme di definire ‘santi’ i suoi destinatari, di nuovo invitandoli alla consapevolezza di ciò che sono per grazia di Dio. Sono ‘santi’ al pari dei «santificati in Cristo Gesù» di Corinto (1Cor 1,2) o dei credenti di altre comunità raggiunte dal vangelo (2Cor 1,1; 9,1.12; Ef 1,1; cfr. At 9,13). ‘Santi’, in quanto credono in Gesù Cristo e si aprono all’azione trasformante dello Spirito Santo. Donne e uomini, la cui esistenza lascia trasparire l’impronta del battesimo ricevuto (Rm 6,17) e la novità conseguente.
Secondo Paolo, dunque, la santità si lega strettamente alla memoria dell’Origine, prima d’essere una qualche meta ambìta. È connessa al persistente stupore d’essere amati da Dio e chiamati alla pienezza della vita. Quando confessiamo di credere la Chiesa ‘santa’, dovremmo sempre riportarci alle parole di Paolo e ritrovare quell’energia sorgiva, quella meraviglia della vocazione che esse intendono suggerire. Oltre ogni abitudine e ogni delusione. Oltre ogni angustia della mente e aridità del cuore. Oltre ogni stanchezza e rassegnazione.
Una Chiesa che si sa ‘chiamata’ è una Chiesa giovane e dinamica. Nata da una storia (quella di Gesù di Nazareth), si affida alla grazia di Dio anche per poter cambiare nel corso della storia e divenire testimone più credibile di quell’amore che spiega la sua stessa esistenza. Una Chiesa che custodisce la memoria della chiamata e celebra consapevolmente una tale memoria è sempre capace di rinascere, anche quando si mostra dimentica della propria giovinezza o si interroga se sia mai possibile nascere quando si è vecchi, come fa il maestro Nicodemo (Gv 3,4). Il prodigio può accadere. Ma non per un ripiegamento all’indietro o per un riposizionamento dentro le sicurezze del passato, bensì in virtù di un movimento in avanti, sospinto dal pensiero della prima nascita e dalla forza dello Spirito che «è Signore e dà la vita».