N.01
Gennaio/Febbraio 2024

Erano in cammino (Lc 24,13)

Nessun evangelista quanto Luca insiste sul campo semantico e sull’immaginario del cammino, non solo nel suo primo racconto (il vangelo), ma anche nel secondo (ossia gli Atti degli apostoli). Luca aumenta a dismisura la cosiddetta “sezione del viaggio” che, nei sinottici, racconta l’andata di Gesù dalla Galilea a Gerusalemme prima degli eventi della Passione: dalle poche decine di versetti in Marco e Matteo si passa agli undici capitoli di Luca (da Lc 9,51 a 19,27). In questa ampia porzione del suo racconto, l’abile narratore dissemina alcune tra le sue pagine più celebri (le parabole della misericordia al cap. 15, l’incontro con il pubblicano Zaccheo al 19 etc.). E, sempre in questa sezione, proprio lungo una via (quella che scende da Gerusalemme a Gerico) si ambienta forse la più amata delle sue parabole, quella del samaritano che si fa prossimo all’uomo incappato nei briganti (Lc 10,30-35). Inoltre, “via” viene chiamato in Atti il credo dei seguaci di Cristo e “quelli della via” è il loro primo nome, di gran lunga precedente a “cristiani” (cfr. Atti 9,2; 19,9.23 etc.). Ancora, lungo una via deserta da Gerusalemme a Gaza un funzionario etiope, in viaggio su un carro (cfr. At 8,26-40), incontrerà per volontà divina Filippo e da lui sarà introdotto prima a quella lettura che non capisce (tratta dal profeta Isaia) e poi nel mistero grande del dono di Gesù Cristo, nel nome del quale poi si farà battezzare, prima di rimettersi in cammino «pieno di gioia» sulla stessa strada.

Il cammino è una tra le metafore più diffuse per dire la vita umana. Antropologicamente universale, la dimensione itinerante disegna come percorso alla ricerca di una meta (chiara, intravista o solo desiderata) ogni nostro allontanamento, ogni partenza, ogni esodo (reale o spirituale): siamo pellegrini – anche se talvolta assomigliamo più a vagabondi -, donne e uomini “viatores” alla ricerca di un senso, ma anche affascinati dal viaggio stesso.

Per questo motivo, il cammino è una dimensione costitutiva anche dell’essere discepoli di quel Gesù che, proprio camminando lungo il mare di Galilea, mise in moto le vite di quattro pescatori fermi a rassettare le proprie reti. Anzi, diciamo di più: il cammino insieme è una dimensione costitutiva della comunità cristiana. Almeno in due; quel tanto che basta per condividere una direzione, un tempo, uno sguardo, una fatica, una scoperta, alimentando l’esperienza intermedia e decisiva della familiarità, della parola, dell’appartenenza.

Dove, quindi, se non “in cammino” può avvenire l’incontro tra due discepoli affranti e col cuore triste e un anonimo viandante, preludio all’incontro con il Risorto?

Eppure…

Eppure, anche a un discepolo può capitare di camminare con le gambe ed essere fermo nel cuore, zavorrato dalla delusione, dal dolore, dallo sgomento. I due che stavano tornando verso Emmaus “discutevano” tra loro perché la loro speranza era perduta, infrantasi contro il segno incompreso e incomprensibile di un crocifisso. Sì, forse i loro piedi erano per strada, ma la speranza era rimasta, schiacciata, sul terreno petroso del Golgota.

Lì, lungo quel cammino verso un villaggio a circa 11 km da Gerusalemme, si farà loro incontro il Risorto per (ri)cominciare a camminare insieme. In circostanze comuni, non solenni, non grandiose. Nei luoghi ordinari dove si fa la nostra vita, in mezzo a incomprensioni, delusioni, arresti forzati e apparenti fallimenti. Dove non sempre cerchiamo il Signore (quale Signore potevano ormai cercare quei due uomini addolorati e delusi?), ma dove il Signore Risorto si fa a noi incontro.

Così iniziò a camminare anche con loro, degno figlio di un Padre che ha camminato per decenni in un deserto davanti al suo popolo (cfr. Dt 31,1-8). E il loro cammino si trasformò, finanche di direzione. Del resto, anche la conversione è, etimologicamente e simbolicamente, una forma di itineranza.