Gianfranco Chiti
Un saio ‘con’ gli alamari
Nel 1939 (a pochi mesi dallo scoppio del Secondo Conflitto Mondiale), un ragazzo trascorre parte dell’estate in compagnia dei frati: dapprima con un frate missionario, poi all’eremo camaldolese di Monte Giove. Il 25 maggio aveva infatti fatto voto alla Madonna di dedicare un mese al servizio del prossimo, con la richiesta però di aiutarlo nel venir ammesso all’Accademia militare. Il giovane Gianfranco Chiti è così: sogna l’Esercito e lo intende quale forma di servizio. Era arrivato a Monte Giove già Terziario francescano, ma pensando alle stellette e alla divisa. D’un tratto, si trovò proiettato in un mondo diverso: quello della vita consacrata. Ne rimase folgorato e a un sacerdote scrisse: «[Qui] ho trovato la vera vita!… Con grande melanconia lascio ora questa pace […]. E forse un giorno chissà, stanco di tutto, troverò anch’io la pace nella preghiera silenziosa». Con una prima intuizione del valore inestimabile della vita consacrata, lo raggiunge tuttavia anche l’agognata ammissione all’Accademia di Modena, perché la Madonna è di parola e ha preso sul serio il voto di Gianfranco ragazzo. Inizia allora il suo percorso modenese e poi via, in fretta al fronte. La guerra non ammette indugi: fronte italo-sloveno, fronte greco-albanese e, da volontario, il terribile fronte russo da cui ritornano in pochi.
Ora Gianfranco Chiti – che di anni ne ha una ventina, ma raggiunge il metro e novanta – è ufficiale dei Granatieri di Sardegna, il Corpo più antico e di maggior prestigio del Regio Esercito. È con i suoi giovani presso il fiume Don e con loro nelle interminabili strade di neve lungo le quali molti si adagiano a morire: allora Chiti (ferito a propria volta in Russia, e che evitò l’amputazione di un piede solo scappando dall’ospedale da campo) si avvicina. Prima prende a calci il militare, gesto violento che in realtà è una carezza, poiché lo sprona a scuotersi e a lottare per la sopravvivenza: infine, se il compagno proprio non ce la fa, se lo prende in spalla e non pensa a niente se non a salvarlo. Uomo di parola, Chiti è creduto anche quando si allontana per cercare aiuto: “Sapevo che saresti tornato”, gli riconosce un soldato in circostanze in cui altri – allontanandosi – avrebbero solo abbandonato al proprio destino chi restava indietro. Chiti, invece, indietro non lascia nessuno e di sé dice: «Io volevo condividere tutto con loro».
Entrato in Accademia animato da nobili ideali, egli in quegli anni si trova a combattere una guerra che non gli appartiene e la situazione si complica con l’8 settembre 1943, la fuga del re, il caos. In quel momento Gianfranco Chiti è in Centro Italia e deve decidere: proseguire a fianco dei tedeschi, tra le fila della Repubblica Sociale Italiana che nascerà dopo un paio di settimane, o disertare e darsi alla macchia? Non ha alcuna simpatia per il fascismo, ma gli è chiaro di essere vincolato, come militare, a un giuramento che non ha il potere di annullare.
Allora Chiti resta, venendosi così a trovare dal lato sbagliato della storia: quello della RSI. Lo vivrà però a modo suo: fedele al giuramento; lucidamente, fieramente infedele a ogni ordine ingiusto.
Inizia così un piccolo miracolo dove – esponendosi e rischiando – disattende ordini lesivi della dignità umana, si rifiuta di giustiziare il “nemico”, salva ebrei e ‘partigiani’ e inquadra circa 200 giovani a rischio carcere e morte in un “corso speciale” che esisteva solo nella sua testa – pur di sottrarli a possibile esecuzione e i loro familiari alla logica delle ritorsioni –. Non chiama mai, come già al fronte, l’avversario “nemico”: vede in lui il fratello, cui si è uniti nel patire. Dei compagni rimasti in Russia, dirà sempre che erano altrettanti “piccoli Gesù”: morti per colpe non proprie.
È quindi con lancinante dolore che al termine della guerra (mentre affronta le commissioni d’Inchiesta che lo riconosceranno esemplare, patriottico e decideranno pertanto il suo pieno reintegro) si vede ingiustamente accusato, e tradito, da alcuni suoi granatieri: un calvario in cui, innocente, sperimenta le amarezze di Gesù durante la Passione. Risponde al male con il bene e, in campo di concentramento, agisce per liberare al proprio posto un padre di famiglia, restando per altri sei mesi prigioniero.
Nel dopoguerra, per un biennio, Chiti insegna Matematica dai Padri Scolopi in Puglia: l’Esercito gli manca in modo struggente, questa lontananza è una ferita aperta che gli sanguina “dentro”. Gli manca anche un po’ (ma in un altro senso: ne era carente!) la formazione di professore: tocca con mano il proprio limite e si affida allo Spirito Santo, anche se gli studenti mai se ne accorsero e ne conserveranno indelebile il ricordo. Il reintegro sarà pieno e lo porterà a una carriera sino ai vertici dell’Esercito, vivendo però sempre più “abbassato” nel servizio agli altri, generosissimo: un padre per ogni suo soldato.
E quell’antico desiderio avvertito nella sua estate di ragazzo, prima di entrare in Accademia? Negli anni in cui – bello come il sole – Gianfranco Chiti avrebbe potuto formarsi una famiglia se solo l’avesse voluto, egli resta fedele al celibato, a una “solitudine” innamorata di Gesù: è un granatiere che non dimentica il convento e spera un giorno di potervi approdare. Realizzerà questo sogno – già comandante della Scuola Allievi Sottufficiali di Viterbo – a 57 anni quando, per raggiunti limiti di età, l’Esercito gli intimerà “zaino a terra”: ecco allora che, portata a termine una missione, potrà iniziarne un’altra entrando tra i Cappuccini che chiama i «fanti di Dio».
Professo perpetuo il 2 agosto 1982, diventa sacerdote il 12 settembre successivo: è ormai padre Gianfranco Maria da Gignese; è aggiunto il nome di Maria a Lui sempre cara, cui in ogni luogo voleva si edificasse un’edicola e che chiedeva ai soldati di salutare quale vera padrona di casa, in ogni caserma. La Madonna era tutto per lui.
Ora Chiti si fa (ri)crescere la barba e il volto si apre a un mite sorriso. Col saio non smette però di essere soldato: indossa i calzoni della tuta mimetica sotto al saio francescano e – se l’occasione è particolare, con altri legati all’Esercito – il bavero in panno con gli alamari.
Quando l’obbedienza lo manda a Orvieto per far rinascere il convento che era stato di San Crispino da Viterbo – allora luogo di spaccio di droga, sfruttamento delle ragazze e ritualità blasfeme – ricomincia, piantando lì una tenda militare, facendo ogni giorno l’alzabandiera e chiamando i suoi granatieri a raccolta. Questi, economicamente e materialmente, ricostruiscono il convento con lui, mattone per mattone, sino a farne un’oasi di spiritualità, pace e riscatto.
A chi gli chiedeva come mai questo cambio, così radicale, da Granatiere a Cappuccino, padre Gianfranco Maria avrebbe risposto che in lui non era cambiato nulla: solo la modalità di esprimere un medesimo servizio e rinnovare il “sì” incondizionato a Dio e ai fratelli.
Muore il 20 novembre 2004, all’Ospedale Militare del Celio, concludendo il suo cammino terreno – nella vigilia della Presentazione di Maria al Tempio – un po’ come tutto era iniziato nell’estate 1939: da soldato di Cristo – prima che degli uomini – e da intemerato cavaliere di Maria.
Nella sua vita, padre Chiti è stato chiamato in molti modi: “San Gianfranco” da giovane, per la sua bontà; “Chitone” a motivo della rispettabilissima stazza; “Lupo” sul fronte russo. Dal gennaio 2024, il titolo più bello: quello di “Venerabile”. Oggi i suoi Allievi – come ha scritto uno di loro – continuano a «raccontare la sua storia di Comandante ineguagliabile e di divino francescano. Una stella che brillava e continua a brillare di luce propria […]».
«Se può e lo ritiene, mi offra a Dio
come una scodella di minestra per i poveri»
Parole di fra Chiti al Superiore, alcuni giorni dopo i Primi Voti
Gianfranco Chiti nasce a Gignese (allora provincia di Novara) il 6 maggio 1921: papà violinista e la famiglia che gli trasmette una solida educazione. Cresciuto negli Anni Venti e Trenta, segnati dall’imporsi dei regimi totalitari, avverte la vocazione di soldato e percorrerà intera la carriera nell’Esercito, sempre intendendo la divisa quale emblema di “servizio”. Generale dei Granatieri di Sardegna – ma Terziario francescano sin da ragazzo, con una più profonda vocazione alla vita consacrata che interiormente non gli concede tregua – entra infine tra i Cappuccini. Ordinato sacerdote nel 1982, muore nel 2004 dopo aver fatto rivivere il convento di Orvieto e tante anime che, come quelle mura, erano cadute in rovina. Numerosissimi e qualificati i materiali su di lui, anche nel web: qui si ricorda, in particolare, Vincenzo R. Manca, Il generale arruolato da Dio. Gianfranco Maria Chiti (1921-2004), Ares, Milano 2021.