N.03
Maggio/Giugno 2001

La lotta spirituale

 

 

Comprensione dei termini

Lotta: S. Paolo per esplicitare la fede cristiana e le sue implicazioni non disdegna di fare uso del linguaggio militare e di immagini sportive. Nella lettera agli Efesini così scrive: “Rafforzatevi nel Signore e nel vigore della sua potenza. La nostra battaglia, infatti non è contro esseri umani, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove” (Ef 6, 10.12-13).

Spirituale: La vita cristiana ha dunque una dimensione di lotta non tanto contro entità esterne quanto interiori. La contrapposizione tra desiderio di bene ed egoismo è talora così aspra e dura da essere avvertita coma una lotta. Il riferimento alle “regioni celesti” precisa che si tratta di una battaglia sovrumana, idea ribadita dall’urgenza di indossare l’armatura di Dio. Risulterebbe perciò stesso impari e perdente se il male non fosse già vinto e sconfitto dal Cristo che, prendendo “questo corpo di carne” (Col 1, 22) è divenuto peccato (2 Cor 5, 21) e ha condannato il peccato nelle stessa carne (Rm 8, 3) e ci ha resi partecipi della sua stessa vittoria: “Quelli che sono in Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri” (Gal 5, 24); “Morti con Cristo siamo con lui risorti” (Col 2, 12).

Questa lotta non ha nulla a che vedere con un certo ascetismo non sempre evangelico. Certi termini quali mortificazione, rinuncia al proprio io ecc. se mal intesi evocano masochismo, rifiuto della gioia di vivere. Teresa d’Avila ha una battuta alquanto forte al riguardo: “Liberami, o Signore, dalle sciocche devozioni dei santi dalla faccia triste!”. È un aspetto da non dimenticare; diversamente si corre il rischio di fraintendimenti sia nella direzione spirituale, che nella lettura di certi testi[1].

 

Ragioni

L’idea di lotta non è ovvia e possono sorgere delle obiezioni. Perché lottare? È proprio necessario? Ne vale la pena? Ma è proprio per tutti? Le risposte si moltiplicherebbero, ma tre si impongono.

 

La somiglianza e la conformazione

Una prima risposta può essere formulata in questi termini. La lotta è in proporzione alla meta da raggiungere. Infatti secondo la fede cristiana siamo creati a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1, 26) e predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo (Rm 8, 29). Tale somiglianza è nello stesso tempo data e in divenire, secondo l’ardita affermazione di sant’Ireneo: “Deus homo factus est ut homo fieret Deus”, “Dio si è fatto uomo perché l’uomo sia fatto Dio”, o meglio “Dio è diventato uomo perché l’uomo diventi Dio”[2]. Di primo acchito può apparire un’esagerazione e suscitare l’interrogativo: “Ma il peccato originale non consiste nel volere diventare Dio?”. Certamente, ma in quanto pretesa di poter raggiungere questa meta con le proprie forze. Al contrario l’affermazione di sant’Ireneo, diffusa e condivisa dalla Chiesa fin dai primi secoli, esplicita chiaramente la dimensione essenziale della nostra fede, ossia l’accoglienza, da parte nostra, del dono impensabile della nostra divinizzazione. Dio non ci offre la possibilità di diventare dei grandi personaggi sia pure circonfusi di gloria, ci pone addirittura nella condizione di poter riflettere in noi i lineamenti del suo volto. “A quanti lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio” (Gv 1, 12). Parole che fanno eco al ripetuto invito di Gesù stesso “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6, 36), “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48). Parole che a loro volta esplicitano quelle dei profeti: “Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivestiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre. Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio, metti sul capo il diadema della gloria dell’Eterno, perché Dio mostrerà il tuo splendore ad ogni creatura sotto il cielo” (Bar 5, 1-3). Certe espressioni apprese fin dal catechismo, quali: grazia santificante, salvezza, figli di Dio, vita soprannaturale, vanno forse rivisitate perché non diventino degli stereotipi che evocano poco o nulla. Grazia vuol dire dono e Santo nell’AT è il nome di Dio, dunque ciò che è santificante è divinizzante. Per comprenderne il significato di Salvezza bisogna scindere questo termine in quattro domande. Chi è salvato? L’uomo. Chi salva? Gesù Cristo. Salvato da che cosa? Dalla finitudine creaturale, resa più acuta dal peccato, alienazione molto più profonda. Per ottenere che cosa? Una vita eterna divinizzante che non esclude l’obiettivo umano di una società più giusta e fraterna. Figli di Dio, ossia partecipi della stessa vita di Dio. E infine Vita soprannaturale dice la vocazione dell’uomo a condividere la vita stessa di Dio, a essere divinizzati. A pensarci bene c’è da restare senza fiato. Possono nascere dubbi, incertezze, scetticismo. Com’è possibile se noi ci troviamo invischiati in mille forme di ingiustizia, crudeltà, malvagità, inganni, oppressioni, distruzioni, con desideri di bene frustrati, alte aspirazioni deluse, impegni seri insabbiati, slanci sinceri frenati? Tra la meta da raggiungere e la realtà attuale c’è un abisso che può sembrare invalicabile. Una sproporzione: come volere scalare una montagna ma non riuscire a sbarazzarsi di un greve fardello che tiene incollati a valle. La nostra divinizzazione non è dunque indolore. La somiglianza con Dio, la conformazione a Cristo è insieme un dono e una conquista che include la lotta. Questo sentirci afferrati da un bene così grande e nello stesso tempo l’essere invischiati nella finitezza evidenzia una seconda ragione.

 

La dialettica di base

“L’anelito per l’infinito, per l’Oggetto abbraccia il nostro spirito senza distruggere però quanto di finito, di limitato è in noi. Di qui la dialettica presente nel nostro essere tra l’infinito a cui tendiamo con i nostri ideali ed il finito della nostra realtà. Questa dialettica è ontologica, è inerente all’uomo, al suo essere”[3] e comporta una tensione, una lotta tra ciò che si vorrebbe, dovrebbe essere e si vorrebbe fare e ciò che ci si ritrova ad essere e fare. È la stessa lotta sofferta da Paolo: “Non riesco a capire ciò che faccio: io infatti faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. (…) Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm 7, 15.19).

L’esperienza di Paolo non necessita di commento persuasivo, al contrario interpreta molto bene la fatica di ciascuno e il grido di implorazione perché il Signore allontani da noi certe asprezze. La lotta può risultare talora spropositata rispetto ai risultati e generare scoramento e dubbi se non addirittura senso di fallimento e inutilità dove l’interrogativo di Paolo: “Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rm 7 ,24) resterebbe senza risposta, se non fossimo preceduti dalla vittoria di Cristo che “ci ha liberati, perché fossimo veramente liberi” (Gal 5, 1).

 

Il cammino di libertà

Liberi non lo siamo ancora pienamente. Siamo soggetti a molteplici condizionamenti. Dall’esterno: ambiente, cultura, gruppo di appartenenza ecc. Dall’interno: bisogni, paure, passioni, idoli vari che possono risultare in altrettante schiavitù oltre al peccato che si annida dentro di noi e ci tiene prigionieri (cfr. Rm 6,15 ss). Innanzitutto va chiarito il concetto stesso di libertà che risulta talora nebuloso e comunque polivalente. Possiamo infatti spaziare dall’idea di libertà quale diritto inalienabile della persona nelle sue varie componenti: civile, politica, religiosa, di pensiero, di stampa, di movimento ecc., alla libertà quale espressione dell’essenza e della dignità umana che si esplicita nella responsabilità morale, nella capacità di scelta e di giudizio di valore, alla libertà quale frutto della redenzione: “La verità vi farà liberi. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero” (Gv 8 ,32.36).

La libertà è insieme dono e conquista. Infatti “voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi” (Rm 8, 9). Ma la vita secondo lo Spirito non ci è data belle e pronta, sta a noi decidere di percorrere questa strada. “State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5, 1).

La storia dell’Esodo è paradigma di ogni vita umana e a maggior ragione del cristiano. Per i figli d’Israele è stato duro convincersi ad accettare l’onore – onere della libertà, tant’è che di fronte ai disagi del deserto erano disposti a ritornare in schiavitù che paradossalmente appariva meno faticosa, meno impegnativa. La libertà, parola carica di fascino in ogni età della vita, va intesa nel suo significato più profondo che in ultima analisi è un dono dall’alto, una trasformazione interiore che solo Dio può operare se gli spalanchiamo le porte e implica il passaggio dal “capogiro della libertà” secondo un’espressione di Soren Kierkegaard, alla assunzione del “giogo soave, del peso leggero” (Mt 11,30), ossia il passaggio dalla pretesa di un arbitrio totale nella gestione della propria esistenza, dal non riconoscere altra autorità se non il proprio volere o capriccio, come fu per i nostri progenitori, alla lotta assunta, voluta per divenire liberi, per lasciarsi “potare”, ed essere in grado di dare frutti.

Un’elegante icona evangelica ci è offerta da Luca nell’episodio delle due sorelle (Lc 10, 38-42). Marta si crede “la regina della casa”[4], mentre in realtà è schiava della sua condizione, delle molte cose da fare, del suo limitato orizzonte tutto centrato sulla sua persona (mia sorella…mi abbia lasciata sola…mi aiuti). Gesù rimprovera la perfetta padrona di casa e le dice che Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta, invitandola a fare lo stesso. Questa parte eccellente che non può essere tolta è la libertà interiore, garanzia della presenza dello Spirito di Dio, perché “dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2Cor 3, 17). Tutto può essere strappato all’uomo, anche la vita, ma non la libertà interiore. Mentre la libertà esteriore può essere data e tolta, la libertà conquistata, frutto di un profondo convincimento interiore, nessuno la potrà più sottrarre all’uomo[5].

 

 

Lotta vera e pseudo lotta

“L’atleta non riceve il premio se non ha lottato secondo le regole” (2 Tm 2,5). Al dire di Paolo anche la lotta spirituale ha dunque delle regole che vanno rispettate altrimenti ci si trova fuori gioco o si lotta inutilmente. Innanzitutto devono essere chiare le ragioni di fondo che abbiamo appena considerate. Una vera lotta implica delle motivazioni valide, uno deve sapere perché lotta e dove vuole arrivare.

 

Conoscenza di sé, del proprio valore e delle proprie vulnerabilità

Gli assunti teoretici devono essere personalizzati per cui ad es. la dialettica di base da semplice concetto, per quanto illuminante, si deve tradurre in conoscenza esperienziale dei propri desideri di bene, aspirazioni, valori, progetti e parimenti delle proprie vulnerabilità, schiavitù, condizionamenti, idoli, passioni contrarie o non favorevoli alla vita secondo lo spirito del vangelo.

 

Decisione e combattimento intenzionale

Un cammino di libertà per essere tale implica una decisione consapevole. La lotta per essere vera deve essere identificata, avvertita, assunta . È importante che il Direttore spirituale si renda conto se sussiste tale intenzionalità nell’accompagnato, oltre che in se stesso.

 

Idea di Dio e di filialità

L’idea di Dio ha una valenza motivante e notevolmente determinante nelle proprie scelte. E va rammentato che non è necessariamente statica, ma si evolve, anzi è auspicabile che ciò avvenga, tanto più che un processo di libertà vi è strettamente collegato. Volontarismo e scrupoli ad esempio, hanno alla base un’idea distorta di Dio, che diventa coattiva, con sensi di colpa paralizzanti[6]. Oppure spinge a un perfezionismo con la pungente sensazione di non sentirsi mai sufficientemente a Dio graditi. Tale evoluzione non risulta né facile, né automatica. Tutta la Scrittura sta a dimostrare quanta resistenza vi pone l’uomo. Valga come esempio per tutti quello di Giona che non può accettare l’idea di un Dio misericordioso che si prende cura della sorte di Ninive, nemico numero uno di Israele. Si può dire che la novità del Vangelo sta nel cambiare radicalmente il volto di Dio, non un Dio potente, vincitore, che sconfigge i nemici, ma un Dio che non è nient’altro che Amore infinito, potente, che non discrimina nessuno infatti “fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5, 45). Un Dio fonte di vita per tutti, un Padre che quale sole, su tutti, irradia calore, amore, vitalità. Eppure quanta resistenza ha incontrato Gesù presso i suoi e quante critiche perché mangiava con i peccatori.

All’idea di Dio si ricollega l’idea di filialità, che comporta innanzitutto la convinzione che Dio si interessa a me quale Padre, la persuasione interiore dell’essere oggetto dell’amore gratuito, infinito di Dio e non in proporzione ai propri meriti, alla propria bontà. È questa certezza che acconsente di riconoscersi peccatori e di accettare il proprio male senza cadere nella disperazione, diversamente subentra un ripiegamento su di sé, con atteggiamenti auto svalutanti e auto accusatori, il che equivale al sentirsi buoni a nulla e non amabili. Il riconoscersi peccatori amati risulta qualitativamente diverso e si esplicita in un atteggiamento attivo di ascolto, di accoglienza di una vocazione, quella di condividere la vita stessa di Dio. Il Padre non ci tratta da infanti ma da figli adulti[7] in grado di prendere delle decisioni. Di collaborare. “A quanti lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio” (Gv 1, 12). “La perfezione dell’uomo è la perfezione di una chiamata e non di una situazione già data. È quanto la Bibbia insegna dicendo che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1, 26), più esattamente ‘a immagine in vista della somiglianza’, somiglianza nel senso esatto di partecipazione alla stessa vita divina”[8].

Sentirsi figli vuol dire avvertire di non essere soli in questa lotta. La promessa di Gesù: “Io sarò con voi tutti i giorni” (Mt 28, 20), assicura una presenza non generica, ma puntuale perché lui conosce quello che c’è nel cuore di ogni uomo, anche le lotte più segrete e più dure e realizza in ognuno le parole dell’AT: “Voi oggi siete prossimi a dare battaglia ai vostri nemici; il vostro cuore non venga meno; non temete, non vi smarrite e non vi spaventate dinanzi a loro, perché il Signore vostro Dio cammina con voi per combattere per voi contro i vostri nemici e per salvarvi” (Dt 20, 3-4).

 

Autodisciplina

Va ribadita l’importanza dell’autodecisione. Se si tratta di disciplina imposta dall’esterno e perciò stesso subita, risulta incomprensibile e frustrante.

 

Lotta graffiante

L’autodisciplina, al contrario, fortifica benché talora graffiante. Nella lettera ai Colossesi Paolo esorta con forza: “Mortificate quella parte di voi che appartiene alla terra” (Col 3, 5). La nostra origine terrena rappresenta infatti una sorta di “dissomiglianza” rispetto a Dio. La voce della natura fa costantemente risuonare in noi una chiamata a vivere non per Dio e per gli altri, ma per sé soltanto, egoisticamente, come gli altri esseri della natura che vivono secondo il loro istinto. Si può dire che c’è nell’uomo una doppia tensione, una doppia forza:

Una forza di pesantezza e di inerzia che lo invita a rinunciare a essere un uomo libero e lo spinge a vivere come gli altri esseri del mondo che non hanno libertà da costruire (come una pianta, un cane, un gatto ecc.).

Una forza ascensionale che lo invita a costruire la sua libertà, che Dio, per grazia, farà salire fino alla sua stessa libertà.

Ecco dunque l’uomo scisso, – e non può non esserlo, dal momento che Dio lo chiama a condividere la sua stessa vita – tra una forza d’inerzia che lo tira verso il basso (è il cammino della schiavitù della sua libertà) e un’altra forza ascensionale (è il cammino della crescita della sua libertà)[9]. In altre parole la voce del “mi piace, non mi piace” si fa talora prepotente come desiderio di un godimento immediato, come impulso o attrattiva verso qualcosa di piacevole oppure come resistenza a quanto appare un ostacolo alla gratificazione. La gamma è molto ampia e spazia dal desiderio di potere, denaro, sesso, riconoscimenti, carriera, all’avere e apparire più di altri e via dicendo.

L’autodisciplina si esplicita come intenzionalità di distinguere e chiamare per nome i propri impulsi, desideri, attrattive, per riconoscere “quella parte di noi che appartiene alla terra”, che non è secondo lo Spirito di Cristo. Il termine “mortificate” può suscitare di primo acchito una ripulsa, innanzitutto perché sollecita una rinuncia e in secondo luogo perché può evocare talune forme ascetiche non sempre sagge. Va dunque detto che l’autodisciplina non ha nulla a che vedere con la rinuncia a vivere con soddisfazione le cose belle che la vita riserva, al contrario è un primo passo per un cammino di libertà, implica una volontà illuminata dalla ragione consapevole dei valori da seguire, degli scopi da raggiungere. Noi siamo spinti a seguire ciò che affascina o appare gratificante hic et nunc, ma siamo pure dotati della facoltà di riconoscere, almeno in parte, ciò che è bene in se stesso. Può capitare, ad esempio, che in un primo momento qualcosa appaia enormemente importante e poi risulti un’infatuazione, oppure estremamente vitale e poi perde tutta la sua importanza.

 

Lotta per la fedeltà ai valori

L’autodisciplina può risultare una lotta graffiante soprattutto per non lasciarsi condizionare dalla mentalità corrente, dai mass media, dalla pubblicità. E questo non solo per quanto riguarda l’ambito religioso ma anche i valori naturali e morali. Ne è esempio il ragazzo che va all’oratorio, ma si vanta di saper imbrogliare “da furbo” il suo compagno di scuola, di non lasciarsi “pescare” dal controllore senza il biglietto del tram, di godersi lo “sballo” del sabato sera senza che i suoi genitori se ne accorgano. Oppure il giovane che si lascia intruppare con la scusa che tutti fanno così e via dicendo.

 

Darsi delle regole precise

La fedeltà ai valori richiede di darsi anche delle regole precise sia per essere coerenti sia per affrontare vulnerabilità esplicite. Non può essere una lotta casuale, anzi bisogna individuare un fronte preciso: pochi obiettivi, chiari, motivati alla luce di quanto detto finora, con l’attenzione a evitare di far coincidere idea con realtà e crearsi aspettative troppo alte.

Sull’onda dell’entusiasmo da parte dei giovani e meno giovani si scambia facilmente una bella idea per realtà. Un’intuizione, ad esempio, per quanto genuina e sentita in merito alla preghiera, alla centralità della Parola di Dio, alla gratuità, all’amore ecc. non dice ancora una capacità acquisita o l’impegno per incarnare tali valori. L’intuizione semmai può rappresentare un primo passo per una decisione precisa e concreta. Il tipico esempio ci è offerto da chi si illude di avere una preghiera profonda perché ogni tanto si lascia trasportare da certi slanci, ma in concreto non riesce a pregare nemmeno per dieci minuti. Oppure da chi suppone di vivere una grande dedizione al prossimo perché ha partecipato a una visita agli anziani, agli ammalati, o carcerati ecc. ma alla fin fine non è disposto a modificare i propri piani per lasciare spazio a una richiesta imprevista o che scomoda.

L’altro rischio è quello di crearsi delle aspettative irreali che vengono puntualmente disattese. Mettersi, ad esempio, di buona volontà e con impegno per far fronte a certe debolezze e alla prima vittoria supporre che tutto sia risolto, ma appena la difficoltà fa di nuovo capolino ecco la delusione.

 

Positività e gusto del combattimento

Andare contro corrente e restare saldi sugli impegni assunti richiede una certa sicurezza e gusto della lotta, coscienti che “Dio non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza” (2 Tm 1, 7), che predispone a far fronte e a convivere con le proprie paure. Una testimonianza esemplare ci viene dalla giovane ebrea olandese morta nel lager di Auschwitz, Etty Hillesum. Nelle prime pagine del suo diario scrive: “Debbo vincere quella paura indefinita che mi porto dentro. La vita è difficile davvero, è una lotta di minuto in minuto (non esagerare tesoro!), ma è una lotta invitante. Una volta io mi immaginavo un futuro caotico perché mi rifiutavo di vivere l’istante più prossimo. Ero come un bambino molto viziato, volevo che tutto mi fosse regalato”[10]. Bisogna essere pronti a far fruttare i “talenti ricevuti”, e con determinazione, “Prendere l’armatura di Dio… cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenendo sempre in mano lo scudo della fede… prendere anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la Parola di Dio” (Ef 6, 13-17). Paolo non intende necessariamente mettere in risalto una corrispondenza tra armi e doni, anche se la spada meglio si addice alla giustizia e la corazza allo Spirito. I termini principali, quali verità, giustizia, prontezza ecc. dimostrano che non si deve solo ricevere i doni di Dio, ma metterli a frutto, se si vuole vincere. 

 

Affinare la lotta distinguendo il vero bene dal bene apparente

Se all’inizio la lotta per non lasciarsi trascinare dagli impulsi prepotenti può risultare dura, aspra, pungente, la lotta per non incorrere nell’inganno di un bene apparente è molto più sottile e talora tagliente perché richiede di “non raccontarsi delle storie” e dirsi una verità salutare ma non scevra di dolore. “Il problema della vita, – puntualizza Heschel, – non insorge con l’interrogativo su come prendersi cura dei mascalzoni, sul come prevenire la delinquenza o crimini orrendi. Il problema della vita inizia con la comprensione del fatto che noi tutti commettiamo errori grossolani quando trattiamo con i nostri simili. Le atrocità silenziose, gli scandali segreti, che nessuna legge è in grado di prevenire, sono il vero luogo dell’infezione morale. Il problema del vivere inizia, di fatto, in relazione a noi stessi, nel trattamento delle nostre funzioni emotive, nel modo in cui ciascuno di noi si comporta con l’invidia, l’avidità e l’orgoglio. Nella vita dell’uomo la questione cruciale non è anzitutto il fatto del peccato, di ciò che è sbagliato e corrotto, ma sono i comportamenti in sé neutrali, i bisogni. Le qualità e i beni che possediamo sollevano problemi non meno delle nostre passioni. Il compito primario perciò non è come rapportarsi al male, ma è come rapportarsi alle realtà neutrali e come rapportarsi ai bisogni”[11].

Riconoscere, ad esempio, che una determinata scelta che si supponeva motivata da ragioni encomiabili di santità, generosità, dedizione, in realtà nascondeva anche una segreta aspettativa di sicurezza, prestigio, riconoscimento sociale ecc. può risultare in una staffilata all’immagine di sé. Ammettere che ci sarebbe un’ottima occasione per vendicarsi sottilmente di un’offesa, di un torto, di un’esclusione subita esponendo semplicemente la verità dei fatti, sapendo però che tale verità finirebbe per colpire la stima altrui, richiede un’onestà di fondo che costa cara. Oppure mettere in dubbio la scelta del celibato con la scusa che all’inizio non era chiaro ciò che comportava di rinuncia, invece di ammettere che certi desideri, impulsi e bisogni richiedono delle scelte precise, può essere una giustificazione per evitare la lotta, con l’alibi del “siccome faccio fatica ad essere fedele, significa che questa non è la mia vocazione”. La falsa aspettativa che la vocazione implichi una strada appianata è più frequente di quanto si creda.

Ridimensionare un’iniziativa, un’attività, un’amicizia, un interesse riconoscendo che tutto sommato rappresenta un modo di auto affermazione non è indolore. Così pure riconoscere che una collera protratta nel tempo non è equiparabile a zelo, quanto piuttosto mera difesa di sé, non è né facile, né immediato, né spontaneo, richiede anzi il coraggio di dirsi la verità e decidere di conseguenza.

 

Crisi della routine

Un altro tipo di lotta, che non possiamo evadere, è costituito dall’accettazione della quotidianità o “crisi della routine”. Nel linguaggio corrente il termine “crisi” evoca una situazione sfavorevole, di difficoltà, di deficit che implica degli interventi risanatori[12]. Il verbo da cui deriva Krino è invece ricco di significati quali: distinguo, scelgo, preferisco, decido o giudico. La crisi rappresenta allora una condizione umana, un modo di collocarsi in rapporto a una realtà, un’esperienza personale anche se coinvolge un gruppo, o la collettività, una reazione che è individuale e in sintonia con la personalità di ognuno, per cui l’ansioso può diventare autocritico, il depresso può rispondere con l’angoscia, l’aggressivo con la critica, il passivo con l’indifferenza e via dicendo.

La lotta infatti può assumere inizialmente i toni avvincenti dell’idealizzazione con la prospettiva dello straordinario, dello speciale, del diverso dai comuni mortali se non addirittura dell’eroico. Questa fase prima o poi si scontra con la quotidianità più prosaica, con la constatazione che la santità sognata, risulta appunto un sogno irraggiungibile. Ci si ritrova con i soliti limiti, con le fatiche di sempre, anzi talora con debolezze e limiti non avvertiti prima così chiaramente. Un possibile rischio è quello della delusione: come i discepoli di Emmaus “noi speravamo” (Lc 24, 21), scordando che la vita cristiana si snoda nella dinamica del mistero pasquale di morte e risurrezione; oppure dello scetticismo: “Ho provato tante volte e non cambia nulla”. Si tratta di cambiare prospettiva e avere occhi per saper scorgere che “il regno di Dio è in mezzo a noi” (Lc 10, 11), alle nostre fatiche, dubbi, inquietudini, fragilità, malizie, ricadute, riprese, stanchezze.

L’angelo della risurrezione dice alle donne: “Annunziate ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno” (Mt 28, 10), non dice d’ora in avanti vivrete cose straordinarie e la vostra casa sarà il tempio, al contrario li invita a riprendere la vita di ogni giorno al paese d’origine, la Galilea terra di gentili, crocevia di pagani, a percorrere le strade di sempre ma alla luce di quanto egli ha insegnato e con la certezza che là lo incontreranno. Infatti se Cristo è risorto, è vivo; se vivo, è presente. Presente nella nostra libertà perché solo in forza della libertà noi siamo veramente uomini e donne. Se presente, è attivo; se è attivo, è trasfigurante; se è trasfigurante, è divinizzante. È presente nei nostri atti liberi, nelle nostre decisioni e le trasfigurante. Cristo divinizza la nostra attività umana umanizzante. Siamo in divenire, e sono le nostre decisioni che contribuiscono a far sì che diventiamo degli uomini e delle donne. E le nostre decisioni sono veramente umane solo se sono umanizzanti. La nostra umanità passa attraverso l’umanità degli altri, la nostra libertà passa attraverso la liberazione degli altri. Non si diventa uomini e donne liberi se non lavorando perché il mondo sia più umano. Ora, ogni decisione che fa morire il nostro egoismo è un passaggio alla vita divina; ciascuna di queste morti parziali è in realtà una nuova nascita, infatti “chi non ama dimora nella morte” (1 Gv 3, 14b). Perciò la decisone stessa ha inscritto in sé la struttura pasquale, una struttura di morte e risurrezione. Dunque “il Cristo che è vivo, presente, attivo, trasfigurante, divinizzante nel cuore delle nostre decisioni umane umanizzanti conferisce loro una dimensione di regno eterno, specificatamente divina”[13].

Allora si fa veramente esperienza del Vangelo quale buona notizia, ossia che Dio non è altro che amore e che la grandezza dell’uomo è immensa perché la sua vocazione va infinitamente al di là di quello che l’uomo potrebbe immaginare: egli è capace di amare come Dio ama. Ciò avviene nell’umiltà della quotidianità, che può apparire banale, ma non lo è, se Cristo ha assunto la nostra carne, che risente delle proprie vulnerabilità, ma nella speranza. La crisi, nelle sue varie connotazioni, non va intesa unicamente come un rischio dall’esito sfavorevole, al contrario implica un processo di chiarificazione che può determinare una svolta decisiva nella crescita spirituale. Si pone come una sfida, una interpellanza per una scelta o una ri-scelta con maggiore consapevolezza o una evoluzione nelle motivazioni o una nuova comprensione della Parola di Dio. La Lumen Gentium precisa che Maria avanzò nella peregrinazione della fede (LG 58), lo stesso viene ribadito nella Marialis Cultus (n. 56). Più volte nel vangelo di Luca si dice che Maria non capì, ma serbava tutto nel suo cuore (Lc 2, 51). La crisi provocata nei discepoli del Battista è salutare perché prepara all’accoglienza di colui che deve venire. Le tentazioni di Gesù, sulla scia della storia spirituale di Israele nel deserto, sono un segno eloquente anticipatore delle crisi di ogni futuro discepolo. La crisi può essere talmente profonda da provocare talora un cambiamento a 360 gradi nel significato della vita, della storia, della visione del mondo. L’agiografia cristiana ne costituisce una documentazione varia e ampia. Ricordiamo solo a mo’ di esempio s. Agostino che arriva alla fede e alla pace dello spirito attraverso molteplici crisi culturali e morali come è documentato nelle Confessioni, così pure s. Francesco d’Assisi, s. Teresa d’Avila, sant’Ignazio di Loyola e tanti altri.

 

La preghiera come lotta

La preghiera ha in sé una componente di lotta se Paolo esorta a perseverare nella preghiera (Col 4, 2) e Luca riporta la parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi, dove Gesù assicura che Dio farà giustizia prontamente ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui (Lc 18, 1-8). Quel “prontamente” non ci è dato necessariamente di esperimentarlo sensibilmente e la preghiera si fa dunque lotta silenziosa nel restare saldi di fronte al silenzio di Dio. “Presi dal desiderio, impegnati nella ricerca, vogliamo vedere apertamente lo splendore radioso del volto dell’Amato. Se ad esso conducono tutte le mediazioni, nessuna lo fa scorgere chiaramente, ma solo come immagine, in enigma”[14]. Già l’AT registra questa lotta interiore; basta ricordare Il Cantico dei Cantici, la figura di Giobbe e alcuni salmi (cfr. 73; 27; 31; 91). Il Sal 73 è forse una delle professioni di fede più belle e più coraggiose dell’orante in Israele. Il salmista, scandalizzato e amareggiato alla vista delle ingiustizie perpetrate dagli empi senza correre rischi, anzi riportandone grandi profitti, non riesce ad ammettere che Dio se ne stia in silenzio, quasi ad avallare questo stato di cose. La tentazione di rinnegare la fede è grande, ma troverà pace solo dopo una lunga e straziante lotta nell’abbandono a Dio al di là di tutti i ragionamenti che può fare[15].

La ricerca di Dio rimane oscura. Dio si disvela e si nasconde nello stesso tempo. Per non lasciarsi ferire da questo mistero ci si può creare l’illusione di poter afferrare, sperimentare Dio con l’intensità emotiva, l’intuizione poetica, il pensiero brillante, lo stupore, l’ammirazione di fronte a certe celebrazioni e riti che affascinano. Certo possono essere delle mediazioni che conducono a Dio, ma pur sempre nell’oscurità della fede. “Dio nessuno l’ha mai visto” e sebbene “proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1, 18), rimane comunque il “Deus absconditus”. Di fronte alla persistente fatica nella preghiera si può essere tentati di concludere che “non fa per me” e quindi ridurla o lasciarla totalmente. Oppure sentirsi costretti per un senso di colpa. Questo rappresenta un vero inghippo dove parecchi vi inciampano. Ricordo di un giovane che per diverso tempo ha vissuto la domenica come un peso. L’andare a Messa equivaleva ad assoggettarsi all’imposizione familiare, talora subdola, e nell’intento di rivendicare la sua autonomia ha finito per non andarci affatto, fino a non sentirsi nemmeno in colpa, il che non passò inosservato. Tra il soddisfatto e il preoccupato cercò tutte le razionalizzazioni per dire che aveva diritto a decidere in tal modo. Dopo aver analizzato le ragioni che adduceva, gli feci notare che, indipendentemente dal fatto che andasse a messa o no, il Signore non cambiava, né lo privava della sua benevolenza, né tanto meno era arrabbiato, anzi continuava ad offrirgli questo regalo: la possibilità di un incontro speciale con lui, dove poteva mettersi in ascolto della sua Parola, parlare con lui, restare in silenzio, riflettere, meditare, contemplare. A queste precisazioni si illuminò dicendo che in effetti questo momento di incontro gli mancava e che quindi, indipendentemente da ciò che pensavano i genitori, spettava a lui decidere; e rifiutare un tale dono sarebbe stata una vera idiozia.

Un passaggio obbligato si impone: dal senso del dovere alla certezza che il Signore ci attende per entrare in dialogo con noi, per un incontro a tu per tu da soli e con la comunità. La preghiera resta comunque un cammino quasi sempre faticoso, con i momenti solari e le nebbie, lo splendore delle cime e le brume delle valli e richiede di coniugare insieme vicinanza e trascendenza di Dio. 

 

Vittoria del fallimento

In questa lotta con Dio giunge il momento della “Vittoria del fallimento”[16] che la Genesi ci presenta nella figura di Giacobbe che lotta con un personaggio misterioso (Gn 32, 23-33). Il racconto sottolinea che i due gemelli Esaù e Giacobbe si urtano fin dal grembo materno e alla nascita il secondo si tiene avvinghiato al calcagno del primo e per questo viene chiamato Giacobbe. Gli studiosi precisano che c’è un gioco di parole tra “aqev” che significa “calcagno” e “Ya’aqov”, ed è come se si dicesse “fu chiamato Giacobbe, perché faceva lo sgambetto al fratello”; e in effetti i due hanno litigato non poco per il possesso della terra e Giacobbe finì per soppiantare Esaù nella primogenitura e allontanarsi poi per sfuggire alle ire del fratello. Dopo varie peripezie deve ritornare nella terra promessa, ma è terrorizzato dall’incontro con Esaù. Arrivato al guado dello Iabbok ha un incontro misterioso dal quale ne esce trasformato. In quella notte egli ha compreso che i suoi peccati erano i suoi più veri nemici da combattere, e più colpiva e riceveva colpi, più rimaneva avvinghiato all’avversario, più percepiva la presenza divina in quel combattimento, in cui Dio gli si rivelava come il Salvatore, che lo colpiva per perdonarlo.

La lotta è seria e pericolosa, perché il nemico lo è. Un nemico invisibile, accovacciato come una belva alla porta del nostro cuore (Gn 4, 7); tanto più insidioso, perché ci sfugge la sua esistenza: noi siamo sempre portati a giustificarci e a trovare mille razionalizzazioni al nostro agire, mentre siamo peccatori. La grandezza di Giacobbe è stata di avere osato affrontare il nemico fino a stanarlo dall’intimo della propria coscienza, guardandolo in faccia nella sua crudezza, senza temere le conseguenze dolorose che avrebbe comportato. Dopo, infatti, non sarebbe più stato lo stesso, sarebbe per sempre rimasto segnato nel corpo e nell’anima, si sarebbe dovuto presentare agli uomini per sempre zoppicante.

Egli ha vinto contro se stesso quando è giunto a confessare la verità del suo essere peccatore senza esserne più terrorizzato. Ha capito che quell’aggressore era Dio, il quale, mentre colpendolo gli rivelava la verità dolorosa del suo essere – imbroglione e soppiantatore – e lo colpiva alla gamba (la confessione del peccato è sempre dolorosa, lascia segni nel corpo), gli donava l’identità nuova di “Israele”. Così egli poteva continuare a camminare incontro al fratello e al suo destino, claudicante, ma trasfigurato. Risulta in tal modo vivo e vincitore a prezzo della sua sconfitta. Sperimenta cioè “la vittoria del suo fallimento”. Giacobbe supponeva di poter chiedere il nome a Dio, in realtà solo Dio può chiedere il nome perché lui ha il potere di far venire alla luce la verità costringendoci a confessare la nostra realtà più profonda.

 

Dalla santità desiderata alla povertà offerta

Il cammino vissuto da Giacobbe potremmo sintetizzarlo come passaggio dalla santità desiderata alla povertà offerta[17]. Se il punto di partenza è dato da grandi desideri che fungono da trampolino di lancio per un’intenzionalità decisa, sincera di santità e un impegno serio, che sotto l’azione dello Spirito si traduce nel superamento di diverse tappe, con l’impressione di procedere spediti, al contrario arriva il momento in cui sembra di andare al rallentatore. Si constata la persistenza di debolezze e fragilità che non si riesce a superare e il cammino appare lento, discontinuo e incerto. Una possibile tentazione a questo punto sta nel pensare che deve esistere, da qualche parte, la “bacchetta magica” in grado di eliminare tali difficoltà, per esempio un accompagnamento speciale, un corso di esercizi prolungati, un anno sabbatico ecc. Cose buonissime e sante ma cercate in prevalenza come difesa all’immagine di sé che non si vuole abbandonare. L’esempio tipico ci è dato dal religioso molto impegnato, desideroso di vivere con maggiore fedeltà, che ad un certo punto del cammino, dopo aver chiarito diversi conflitti, si rende conto che alcune ferite di tanto in tanto si fanno risentire e ogni volta subentra scoraggiamento, amarezza, fino a quando comprende che l’accettazione di tali debolezze gli risulta difficile perché ogni volta infrangono l’idea di perfezione che si era formato. È facile arenarsi nella pretesa di perfezione scambiandola per desiderio di santità. Abbandonare questa sottile grandiosità richiede talora una lotta non da poco. Eppure rappresenta una tappa importante anche nella vita dei santi: nell’accettazione della loro povertà hanno saputo scoprire un nuovo volto di Dio, accogliendo quella che P. Voillaume definisce una “seconda chiamata”.

La chiamata a scoprire la tenerezza e la gratuità dell’amore di Dio nei confronti di quei peccatori, che siamo noi. Chiamata ad accogliere la potenza dello Spirito, che sa trionfare sulla debolezza del peccatore che scopre in sé la fragilità e l’accondiscendenza davanti alla tentazione. La sera del Giovedì Santo Pietro non soltanto era disarmato e solo per difendere il suo maestro, ma era anche diviso, insidiato dalla paura e dal dubbio, proprio lui che si era dichiarato pronto a morire per Cristo. Ma è nella scoperta e nell’umile accettazione del suo essere peccatore, che egli troverà la forza di diventare per i suoi fratelli la “pietra” sulla quale la loro fede potrà appoggiarsi. È nel momento in cui egli non può più dire niente, non può più promettere niente, che Cristo gli riconferma la missione e lo chiama di nuovo a seguirlo. Di fronte a questa “seconda” chiamata, Pietro scopre che non è più tenuto ad essere quel discepolo che aveva sognato di essere, che un Altro, ormai, lo condurrà e che è proprio bene che sia così.

Teresa di Lisieux di fronte all’imbarazzo della sorella per suoi slanci di amore risponde: “I miei desideri di martirio sono un bel nulla e non è di qui che nasce quella fiducia illimitata che sento nel cuore…Quello che piace a Lui è il vedermi amare la mia piccolezza e la mia povertà, è la speranza cieca che ho nella sua misericordia”[18]. Smettere di lottare per la propria immagine, nell’accettazione della propria povertà, in fiducioso abbandono nelle braccia paterne e materne di Dio “come bimbo svezzato” (Sal 131, 2) è il fallimento, l’arrendersi che equivale ad effettiva vittoria.

 

Lotta diversa da inquietudine e angoscia

Quanto abbiamo appena detto ci permette di capire che sussiste una differenza qualitativa tra lotta vera e tentativo di difendere l’immagine di sé o il timore di essere defraudati negli affetti. La lotta per quanto dura è accompagnata in profondità dalla pace derivante dalla fiducia in Colui che è “grazia, fortezza, rifugio e liberazione, scudo”, colui che “addestra le mani alla guerra, le dita alla battaglia” (Sal 143, 1-2). “Queste immagini marziali sono la specificazione dell’hesed, la grazia amorosa di Dio, espressa nell’alleanza”[19]. È il Signore che affina le nostre capacità di avvertire ciò che ostacola l’azione dello Spirito dentro di noi e che ci pone nella situazione di venire purificati. È sintomatico che nella parabola della vite e dei tralci si dica che il vignaiolo è Padre e “ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto” (Gv 15, 1-2), ossia “chi pratica l’amore deve seguire un processo ascendente, uno sviluppo reso possibile dallo sfrondamento compiuto dal Padre. La sua attività è positiva (va pulendo) ed elimina i fattori di morte; lasciando che il tralcio/discepolo sia sempre più autentico, più libero, gli dà maggiore capacità di dedizione e ne aumenta l’efficacia, come il chicco di frumento deve morire per produrre frutto abbondante (Gv 12, 24) e la donna deve soffrire perché nasca l’uomo (Gv 16, 21). Questa condizione per accrescere il frutto coincide con quella espressa in precedenza in termini di morte (Gv 12, 24), ossia rinuncia al proprio interesse, disaffezione per la propria vita (Gv 12, 25)”[20], per un frutto di amore, un frutto di nuova umanità.

 

Lotta finale

Abbiamo preso in considerazione alcuni aspetti del combattimento spirituale, ce ne sarebbero molti altri, ad es. quelli tipici dell’adolescenza, della giovinezza, dell’età adulta, dell’età adulta inoltrata e dell’anzianità. Facciamo almeno un accenno a questa ultima perché rappresenta l’estremo tratto di cammino verso il compimento. L’anzianità, soprattutto nella fase in cui le proprie facoltà si affievoliscono, le diminuzioni si evidenziano, o nella stagione della malattia, rappresenta un’autentica sfida e un banco di prova, molto doloroso, che afferra talvolta all’improvviso come una morsa. La lotta si fa sentire soprattutto in relazione all’accettazione dei limiti: poca o nessuna autonomia, necessità dell’aiuto altrui, interruzione di tutti i progetti ecc. Anche la certezza dell’amore di Dio, il senso della vita, l’attesa del Signore possono diminuire in luminosità con il sopravvento della paura, il senso di colpevolezza, una sottile irritazione per la vita che sfugge.

La diminuzione fisica può essere vissuta come vergogna e nel timore di provocare compassione alcuni non ne parlano con nessuno apertamente. Lo stesso può accadere a certe persone consacrate. Concludono la loro esistenza senza riuscire a condividere ciò che significa personalmente il vissuto doloroso della malattia e della morte ormai prossima. L’agonia non è solo fisica, ossia agone contro il disfacimento corporeo, ma è soprattutto spirituale, quale offerta cosciente della propria vita, è il lasciarsi sospingere nel mistero di Dio, l’affidarsi a una presenza non percepita, ma creduta, sperata e amata nonostante l’oscurità avvolgente. Nella passione Gesù stesso affronta questa lotta. Come vero uomo vive il rifiuto viscerale della morte che possiamo intuire nel sudore di sangue (Lc 22, 44), il senso di oscurità, del sentirsi solo che lo porta a gridare “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (Mc 15, 34) e in fine l’affidamento totale e fiducioso : “Padre nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23, 46).

 

Conclusione

Nell’Apocalisse, specialmente ai capitoli 12 e 13, si parla di battaglia celeste con la conseguente sconfitta delle potenze del male, prototipo di quanto dovrà accadere sulla terra; si delinea così lo stato di guerra permanente in cui viene a trovarsi la Chiesa nella fase terrestre della sua esistenza. E all’interno di questa lotta si inserisce quella di ogni uomo e di ogni donna per la fedeltà al vangelo. “Allora il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a far guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù” (Ap 12, 17). Il cristiano ingaggia la lotta nella certezza che niente e nessuno può separarlo dall’amore di Cristo (Rm 8, 35-39) perché “le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo” (Ct 8, 7).

La vittoria è assicurata nella misura in cui, ritrovando la sua condizione autentica di creatura, non confida in se stesso, bensì nella forza della morte del Salvatore, fonte di spirito di vita[21]. Infatti “questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?” (1 Gv 5, 4-5). Il cammino umano – spirituale è dunque costituito da una crescita continua nella relazione di amore al Dio di Gesù Cristo e al prossimo. Tale processo non è indolore e la lotta ne risulta parte integrante in quanto la vita terrena si snoda nella dimensione del “già e non ancora”.

 

 

 

 

Note

[1] Un classico spirituale su questo argomento è senz’altro Il combattimento spirituale, LORENZO SCRUPOLI, ed. San Paolo 1992. Nella sua semplicità offre delle buone intuizioni, talora anche psicologiche, pur risentendo della mentalità del ‘500.

[2] In questo paragrafo ho seguito quanto esposto nel 1° capitolo di Gioia di credere, gioia di vivere, FRANCOIS VARILLON, EDB 1984. È un testo che consiglierei di leggere.

[3] Consultare al riguardo, Antropologia della vita cristiana, M. L. RULLA (S.J.), Piemme 1985 1° Vol.

[4] Ho trovato questa analisi interessante in Le cipolle di Marta, A. MAGGI, ed. Cittadella 2000. 

[5] Ibidem. In merito al tema della libertà vedere Lettere sull’autoformazione, ROMANO GUARDINI, Morcelliana 1994.

[6] Questo argomento viene trattato in Generati dallo Spirito, ANDRÈ LOUF, ed. Qiqajon 1994, p. 104 e ss. E ancora Senso di colpa, peccato e confessione, GIUSEPPE SOVERNIGO, EDB 2000.

[7] Sull’idea di Dio e di filialità vedere Il grano e la zizzania. Discernimento, punto di incontro tra preghiera e azione, THOMAS H. GREEN, ed. CVX 1992. Un discorso più ampio è affrontato in Verso il blu, lineamenti di psicologia della religione, NICO DAL MOLIN, ed. Messaggero PD.

[8] F. VARILLON op. cit., p. 164.

[9] Ibidem p. 165.

[10] ETTY HILLESUM, Diario 1941-1943. ed. Adelphi 1985.

[11] ABRAHAM JOSHUA HESCHEL, Il canto della libertà, Qiqajon 1999, p. 44.

[12] Consultare alla voce “crisi” Nuovo dizionario di spiritualità a cura di STEFANO DE FIORES E TULLO GOFFI, ed. Paoline 1978, pp. 336-353.

[13] Vedi F. VARILLON, op. cit.

[14] THADDÉE MATURA, Dio, un’assenza che brucia, ed. Paoline 1990, p. 82.

[15] Un buon commento sui salmi di Combattimento e Discernimento si trova in Sur la lyre à dix cordes: a l’écoute des psalmes, BLAISE ARMINJON, DESCLÉE DE BROUWER, Bellarmin 1990, Collection Christus n. 73.

[16] Per questo commento ho seguito l’analisi fatta in Prendi il libro e mangia! 1. Dalla Creazione alla terra Promessa, F. ROSSI DE GASPERI, A. CARFAGNA, EDB, Vol. 3, 1997.

[17] In questa sezione faccio riferimento a un articolo di MICHEL RONDET S. J. in De la saintetè desirée à la pauvrete offerte, Christus n. 137 June 1988. Trimestre Francese.

[18] TERESA DI GESÙ BAMBINO, Gli scritti, Postulazione Gen. dei Carmelitani Scalzi, Roma 1990, p. 686-688.

[19] G. RAVASI, Il libro dei salmi, EDB 1984, 3° Vol.

[20] J. MATTEOS, J. BARRETO, Il vangelo di Giovanni, Cittadella ed. 1995.

[21] Consulta alla voce “carne” Il dizionario di teologia biblica, X. LÉON – DOUFOUR, Marietti (TO) 1980, pp. 314-315.