N.04
Luglio/Agosto 2003

Giovani del nuovo secolo e vocazioni

La testimonianza di un seminarista, di un novizio, di un missionario, di una postulante, di una aspirante

 

 

Seminarista

Valerio Bassi, Seminarista di Reggio Emilia

 

Mi chiamo Valerio Bassi, ho quasi 29 anni, sono figlio unico. Sono entrato nel seminario diocesano di Reggio Emilia all’inizio del 1999, dopo avere conseguito dapprima la maturità scientifica e successivamente la laurea in economia aziendale presso l’università di Parma. L’ingresso in seminario è stato inoltre preceduto dal servizio civile svolto presso un appartamento che ospitava ricoverati dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia in uscita per delle licenze settimanali. Attualmente sto ultimando il quinto anno presso lo Studio Teologico Interdiocesano di Reggio Emilia. L’11 maggio 2003 sono stato ordinato diacono.

Questi sono in sintesi i dati essenziali della mia biografia, quelli per lo meno che vengono pubblicati sul giornale locale allorquando ad esempio sono nell’imminenza eventi ecclesiali particolarmente significativi, come può essere stata nel mio caso la recente ordinazione diaconale. Da questo curriculum vitae rimangono però fuori molti elementi del mio percorso biografico-spirituale, per molti versi quelli fondamentali. Di seguito proverò allora a darne conto, scandagliando la memoria alla ricerca soprattutto delle tracce e delle modalità attraverso cui è giunta ad emersione quella vocazione particolare culminata per il momento con la già ricordata ordinazione diaconale dell’11 maggio scorso.

Come ricordavo all’inizio, sono figlio unico. Sono nato quando i miei genitori non erano più giovanissimi (42 e 37 anni). Il papà, titolare con il fratello di una piccola azienda commerciale, è caratterizzato da una spiccata cultura del lavoro; in alta considerazione sono stimati i soldi e quanti hanno fatto soldi. Il suo atteggiamento nei confronti della Chiesa è sempre stato di rispettosa, ma sostanziale indifferenza, punteggiata da una partecipazione alla vita sacramentale alquanto rarefatta (“presenza” alla messa di Natale, Pasqua e nel giorno di commemorazione dei defunti). I miei rapporti con lui sono stati per molto tempo all’insegna dello scarso dialogo, quando non anche della tensione, anche a motivo di visioni del mondo talora fortemente dissonanti. Solo da un paio di anni a questa parte si è avviato un processo di graduale riconciliazione e di accoglienza rispettosa e reciproca.

Ben maggiore confidenza c’è stata con la mamma. Casalinga, con una fede forse non profondissima, ma che comunque si esprimeva e si esprime in una frequenza regolare all’eucaristia, da lei è venuta la prima educazione alla fede, alla preghiera. Lei è stata la presenza costante, calorosa, anche se un po’ impicciona (lo dico sorridendo), dei miei lunghi pomeriggi casalinghi da liceale. Con l’inizio dell’università i rapporti si sono pian piano raffreddati, la complicità confidente di prima è venuta meno, io, almeno in casa, mi sono chiuso in un progressivo mutismo: tutto questo per tutelare gli spazi di autonomia che via via ho cominciato a reclamare e che non sempre erano rispettati da questa presenza che cominciavo a sentire come un po’ oppressiva. La fatica poi a capire certe scelte di servizio (in particolare l’impegno come volontario all’interno dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario) e i frequenti litigi che questa fatica alimentava mi hanno confermato nell’opportunità di tenere questo atteggiamento di silenzio su quanto vivevo fuori dalle pareti domestiche e dentro la mia “stanza” interiore.

Con riguardo all’ambiente familiare, voglio ricordare infine un’ultima figura per me fortemente significativa, uno zio (fratello della mamma); la sua serietà, l’integrità morale ed intellettuale, l’autorevolezza oltre che l’indubbio successo professionale ne hanno fatto un modello cui guardare con costante ammirazione e un ideale in un qualche modo da emulare. La condizione di figlio unico con tutte le aspettative che ne sono conseguite, la cultura tipicamente borghese dei miei genitori, lo stimolo proveniente da questo zio tanto ammirato hanno dunque certamente alimentato in me una forte spinta interiore all’impegno e ultimamente a primeggiare. Voglio in particolare porre l’accento su questo desiderio di essere primo, perché è stato proprio quest’aspetto, così caratterizzante la mia personalità e il mio agire, una delle note riguardo alle quali la parola del Vangelo è maggiormente suonata come interpellante, provocatoria e illuminante. “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Mc 9,35): una parola che prendeva sul serio questo spinta così forte in me, che chiedeva certo una conversione profonda nel modo di attuarla, ma che soprattutto sentivo fornire un primo orientamento vocazionale: servo di tutti.

In parrocchia (circa 800 abitanti) ho svolto l’ordinaria trafila dell’iniziazione cristiana e dopo la cresima mi è stato chiesto un impegno nella catechesi come aiuto-catechista. Ho portato avanti questo servizio fino alla fine della quarta superiore. Poi ho chiesto al parroco di interrompere questo impegno: l’irrequietezza e un certo spirito di ribellione che via via erano montati in me in quei mesi di passaggio dalla minore alla maggiore età mi sembravano incompatibili con la stabilità richiesta dal compito anche educativo insito nel ministero del catechista. Di qui la decisione di fermarmi. Non ho compiuto negli anni dell’adolescenza significativi cammini di formazione in parrocchia (non so nemmeno se ci fossero, in ogni caso non ne ho fatti); la partecipazione alla vita sacramentale (messa e confessione) è rimasta tuttavia costante. Pian piano è maturato un vivo atteggiamento di critica verso la prassi pastorale (da me ritenuta troppo blanda e sbilanciata più sugli aspetti aggregativi che su quelli formativi e spirituali), verso la comunità adulta (di cui non percepivo una testimonianza significativa di fede) e soprattutto verso il gruppo dei pari, polarizzati più su attività di tipo ludico piuttosto che nella ricerca di un approfondimento del cammino spirituale e nella costruzione di relazioni profonde.

Deciso a non accontentarmi di relazioni superficiali e di questo clima di tiepidezza spirituale, ho trascorso gli ultimi anni dell’adolescenza e i primi anni della giovinezza alla ricerca (non sempre andata a buon fine) di orizzonti più ampi e più stimolanti (in questo spalleggiato da un amico che condivideva le mie critiche e insieme l’anelito ad una maggiore autenticità di relazioni e di vita cristiana) e in una certa qual solitudine, a volte subita, ma più spesso cercata e progressivamente apprezzata soprattutto come luogo in cui poter tornare in me stesso e in cui ascoltare quanto si muoveva nel mio intimo. Pur nella distanza “affettiva” maturata nei confronti della parrocchia, il distacco non si è mai compiuto appieno, tanto che è stato proprio nella mia parrocchia di origine che ho incontrato don Roberto, colui che poi mi ha accompagnato nel processo di discernimento vocazionale. L’incontro con questo giovane prete, di piccola statura, perennemente abbronzato (si sposta solo in bicicletta), reduce dagli studi appena compiuti a Roma, e in servizio nei fine-settimana nella mia parrocchia d’origine come aiuto, fu inconsueto, ma proprio per questo decisivo: senza praticamente conoscermi (mi aveva visto solo un’altra volta), al termine di una messa per i giovani si rivolse a me appellandomi con un’espressione alquanto colorita (omissis). Per me, abituato a una figura tradizionale di prete, mai con una parola fuori dalle righe, tutto compunto nel ruolo, fu una piccola folgorazione: l’impressione di libertà suscitata da questo episodio apparentemente insignificante e poi confermata in altri frangenti, unita tuttavia ad un’adesione a Cristo che intuivo profonda e radicale in lui, non mancò di imprimersi in me, giovincello dalle molte inquietudini.

Da lì iniziai a cercarlo con una certa frequenza per colloqui e per la confessione. All’inizio la materia del confronto era il mio vissuto esperienziale, soprattutto quello relazionale. Solo successivamente, dopo 3-4 anni di conoscenza e di ascolto, è venuta la proposta di un approfondimento del cammino spirituale da compiere anche e soprattutto a partire dalla lettura della Parola di Dio. Il cominciare a leggere la mia vita alla luce della Sacra Scrittura è stato poi accompagnato da una crescita nella docilità alle indicazioni di don Roberto, avvenuta anche grazie all’aver sperimentato che, allorquando mi discostavo dai suoi suggerimenti, puntualmente vivevo cocenti disillusioni: sembrava proprio che vedesse più lontano e con più chiarezza lui di me! Il confronto con la Parola di Dio non è rimasto confinato solo alla confessione e alla direzione spirituale. Nell’unità pastorale di cui fa parte la mia parrocchia era infatti arrivato un diacono prossimo a diventare prete, il quale come primo passo della sua azione pastorale propose a noi giovani di fare un cammino sul Vangelo di Luca, consistente nell’incontrarsi ogni lunedì sera per condividere le risonanze che la lettura di un capitolo aveva suscitato in ciascuno. Questo accostamento quasi giornaliero con il Vangelo (era richiesto infatti un lavoro anche a casa, non solo durante l’incontro) mi restituì un’immagine di Gesù più vivida, lontana dalle riduzioni e dalle edulcorazioni catechistiche: era davanti a me una figura viva, virile, risplendente nella sua umanità piena, capace di una parola che mi interpellava, mi scuoteva, mi provocava proprio nel desiderio di radicalità che sentivo dentro di me: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Lc 9,23).

Nel contesto di questo percorso fatto come giovani attraverso le pagine del Vangelo di Luca, una testimonianza risultò per me particolarmente significativa. Manuela, una giovane che partecipava ai nostri incontri, un lunedì ci comunicò la sua decisione di recarsi di lì a qualche settimana in Ruanda per sei mesi. Era la primavera del 1995 e l’anno prima si era consumato il terribile genocidio che aveva falciato dalle 700.000 al milione di vittime. La diocesi di Reggio aveva deciso di aprire una casa in Ruanda che accogliesse bambini orfani e mutilati e Manuela era una delle volontarie che avevano dato la disponibilità a partire per avviare la vita e l’ospitalità in quella casa. Ricordo che quella sera tornai a casa con questa domanda: “Ma dove sta scritto che io per forza debba percorrere il percorso abituale le cui tappe, per me giovane universitario, sono la laurea, il trovare un lavoro, la fidanzata, la casa, il matrimonio, i figli, ecc.? Dove sta scritto?”. Per il momento l’interrogativo, con tutta la sua forza interpellante la mia libertà, rimase senza risposta. Avrei risposto qualche anno dopo, interrompendo quel cursus ordinario con il mio ingresso in seminario.

Ad ogni modo questo cammino percorso in compagnia del Vangelo di Luca non rimase senza conseguenze: al termine infatti decisi che era di nuovo tempo che mi adoperassi per un qualche servizio allo scopo di dare un po’ di “carne” al mio essere cristiano. Presi ad andare i sabati pomeriggio presso una Casa della Carità poco distante da dove abitavo, luogo in cui “si faceva famiglia” con anziani e soprattutto handicappati. Ma più che il contatto con gli “ospiti”, significativo fu la conoscenza della madre superiora di quella casa, suor Giuseppina, donna ormai anziana, un po’ curva, ma dallo spirito vivace, giovane, retto, austero. Fu lei a dirmi per la prima volta in maniera esplicita che forse il Signore mi stava chiamando a consacrarmi a Lui. Quelle parole indovinavano un pensiero e un’intuizione che da qualche mese già si erano affacciate alla mia coscienza. Non ebbero quindi un effetto deflagrante, ma in ogni caso mi fecero riflettere, anche perché erano parole che venivano da una persona non certo abituata a sprecarne.

Il servizio presso la Casa della Carità si prolungò per circa un anno, poi con don Roberto si decise che era ora di fare un’esperienza che un po’ mi provasse il polso, sia umanamente che cristianamente: il servizio presso il locale manicomio criminale (Ospedale Psichiatrico Giudiziario). Ma anche qui, più che le cose che facevo all’interno dell’Istituto Penitenziario o il rapporto con gli internati, fu l’incontro con il cappellano dell’OPG, don Daniele, ad essere denso di significati e di provocazioni per me. Questo prete per certi versi burbero, in cui l’adesione a Cristo si esprimeva in un’esistenza totalmente spesa nella condivisione e nel servizio ai più poveri (non solo ricoverati dell’OPG, ma anche zingari, ragazze di strada, malati di AIDS, barboni), in una larghezza di interessi e di preoccupazioni oserei dire cattolica/universale (contatti con mezzo mondo), in una presidenza dell’Eucaristia tale da farla gustare realmente come culmine e fonte della vita cristiana, non poteva non andare ad aggiungersi a quella schiera di figure esemplari che si veniva componendo davanti a me in quegli ultimi anni e che costituiva ormai un riferimento fondamentale del mio immaginario e del quadro delle mie idealità.

Fu pure di quei mesi la conoscenza, stavolta non diretta ma mediata dalla carta stampata, di un altro grande prete, don Lorenzo Milani. La sua lettera “L’obbedienza non è più una virtù”, capitatami fortuitamente fra le mani, mi infiammò… Un altro caso di uomo totalmente dedito a Dio e ai fratelli, in cui l’umanità, ben lungi dall’essere mortificata in qualche suo aspetto, appariva invece pulsare forte, vigorosa, autorevole, libera. Ma gli incontri capaci di suscitare interrogativi e di instillare un nuovo modo di guardare alla mia vita non sono stati solo quelli con persone consacrate. Forse nei paragrafi precedenti ne ho ridimensionato troppo la portata, ma qui voglio ricordare volentieri come la visione e il contatto con persone affette da handicap fisici o mentali siano stati stimolo forte a percepire l’esistenza di cui godevo come un qualcosa di fondamentalmente donato (quindi né guadagnato, né costruito con le mie mani) che chiedeva di essere a sua volta donato, pena il tradire, se così non fosse avvenuto, quella verità che proprio gli incontri con queste persone mi avevano fatto intuire.

In questo percorso fatto di incontri, di interrogativi, di intuizioni che via via si stavano intrecciando, il problema di che cosa fare da grande dal punto di vista lavorativo è sempre rimasto in secondo piano. Non che sia mai stato uno sfaccendato! Ho infatti concluso l’università in quattro anni, compiendo in aggiunta un lavoretto part-time come assicuratore negli ultimi due. E non che non abbia provato passione per quello che stavo facendo! Soprattutto il lavoro di ricerca richiesto per la redazione della tesi di laurea e successivamente la prosecuzione della stessa ricerca presso l’istituto in cui mi ero laureato (con la prospettiva di fare il dottorato) mi avevano infatti visto immerso a capofitto nello studio e nella produzione concettuale. Ma una certa insoddisfazione subentrata all’iniziale entusiasmo e il chiedermi quale incisività e quale reale utilità avrebbe sortito quell’attività accademica nella vita delle persone erano segnali del fatto che il principale nodo da sciogliere in quel momento non riguardava tanto il mio futuro assetto lavorativo, quanto piuttosto la mia identità vocazionale. Al centro stava dunque la scelta dello stato di vita. E luogo fondamentale di discernimento per verificare a quale legame d’amore il Signore mi chiamava è stato sicuramente l’ambito affettivo.

Le relazioni avute in particolare con due ragazze sono state lo spazio esistenziale in cui credo siano emerse con una certa forza le tracce di una vocazione al celibato. L’avvertire progressivamente e quasi mio malgrado di come quegli affetti pure vissuti da parte mia con grande trasporto non allentavano la mia sete di pienezza e il mio anelito a spendermi per gli altri; l’accorgermi anzi che tali spinte interiori finivano per essere forze che destabilizzavano continuamente gli equilibri appena raggiunti nella coppia; la percezione sempre più chiara di come, pur nel rapporto più intenso, rimanesse una distanza non colmabile fra me e l’altra persona; e ancora il leggere in alcuni piccoli episodi quasi i tratti di una gelosia divina nei miei confronti: ecco, quelli elencati erano segni che non potevano non destare in me stupore, domande e anche un po’ di angoscia (fare il prete a quei tempi non è che mi entusiasmasse). L’aprire inoltre gli occhi con una comprensione quasi improvvisa (avvenuto in particolare a Parigi in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù) su quante belle ragazze esistessero nel mondo e insieme sul fatto che forse quell’attrazione non poteva trovare vero sollievo che in Colui che è sorgente e principio di ogni bellezza: anche questa intuizione andava ad aggiungersi e come a confermare gli altri “indizi” vocazionali già emersi.

Molti dunque erano ormai i tasselli che componevano il quadro del progetto vocazionale che il Signore mi sembrava mi chiedesse di abbracciare. Ad arricchire ulteriormente questo quadro erano venuti anche gli strani turbamenti interiori che avevo avvertito allorquando due amici in rapida sequenza mi avevano comunicato la loro decisione uno di recarsi in Ruanda per qualche mese come volontario (nell’ambito dell’intervento diocesano descritto sopra) e l’altro di entrare in seminario: “Ecco, loro hanno avuto il coraggio di buttarsi e tu, invece, sei ancora lì tentennante e immobile”, mi dicevo. Le paure e le resistenze a prendere in mano la mia vita con un atto di libertà e insieme di affidamento, l’attesa ingenua e illusoria di un’indicazione dal Cielo che togliesse ogni dubbio su quale fosse la mia vocazione erano dunque gli scogli che bloccavano la risposta a quella chiamata alla “consacrazione” che avevo però ormai intuito. Ne seguirono mesi come di sospensione: fermo a guardarmi attorno e a fare i conti con il bisogno sempre più pressante di arrivare ad una definizione stabile della mia identità. Questa situazione di impasse venne infine risolta una sera, durante uno dei consueti colloqui, dalla proposta che don Roberto mi rivolse: entrare in seminario. Avevo un mese di tempo per pensarci e per comunicargli la mia decisione. Il mese passò e la sera di Natale del 1998 acconsentii alla proposta. Tanti erano i segni che mi erano stati dati e che mi sembrava portassero in quella direzione; continuare a negarli era come voler chiudere gli occhi e fuggire da Dio e ultimamente da me stesso. Pur fra molte incertezze e titubanze, di lì a due mesi iniziai quindi a frequentare i corsi di teologia in seminario.

Da allora il cammino è proseguito e per vari aspetti si è come accelerato. Io interrompo però qui il mio racconto. Aggiungo solo un’ultima cosa. A distanza di qualche anno dall’ingresso in seminario e con un’ordinazione diaconale alle spalle, riconosco che la vocazione di “speciale consacrazione”, se accolta, è davvero una buona notizia, apportatrice di vita, di gioia e di unificazione interiore.

Di tutto questo sia reso grazie a Dio.

 

 

 

 

Novizio

Pasquale Albisinni, Religioso Rogazionista

 

Mi chiamo Pasquale, sono un religioso rogazionista e sto ultimando gli studi teologici prima di diventare sacerdote. Guardando alla mia storia personale, io credo che la prima cosa che posso dire è che qualsiasi tipo di esperienza che ho vissuto e che ha fatto uscire allo scoperto la mia vocazione di speciale consacrazione, è stato sempre qualcosa di inconsapevole sul momento ma che nel tempo ha portato i suoi frutti e mi ha spinto a donare la vita per Dio e per la gente che Lui continuamente mi affida.

Io vorrei partire dall’ultima domanda che mi è stata chiesta per questa testimonianza, ossia: “Quali incontri con persone significative e perché, hanno fatto uscire allo scoperto la tua vocazione di speciale consacrazione?”. La mia vocazione, nel senso di una riscoperta di me stesso e di ciò che volevo fare nella vita, è nata proprio dall’incontro con una persona consacrata quando avevo 15 anni. Era venuta ad abitare nel mio piccolo paese della Basilicata e con lei c’è stata subito una grande intesa. Con questa persona ho percorso un pezzo lungo della mia strada fino a quando ho deciso di entrare tra i Rogazionisti. Di questa persona man mano che la conoscevo, mi affascinava la grande purezza del cuore, ossia un desiderio di cercare sempre la Verità ed una grande onestà nel modo di porsi dinanzi alla vita. Dai suoi atteggiamenti, (era una persona veramente fuori dal normale, fuori dagli schemi intendo dire, non amava portare un abito né ricevere distinzione sociale), io percepivo il senso genuino del Vangelo ed una grande coerenza nel vivere i valori morali. Il suo più grande desiderio era quello di stare accanto agli ultimi e di sforzarsi di vivere per essi, odiando ogni formalismo e perbenismo. Con lei ho rimesso in discussione tutta quanta la mia vita, da lei e dal suo essere fuori dagli schemi, ho percepito il fascino e la bellezza del vivere unicamente per Dio. Lei mi parlava di Dio veramente, come se parlasse di una Persona viva, esistente, reale: aveva una fede enorme! Ora a distanza di anni mi sono accorto che devo la scoperta della mia vocazione anche a lei, perché mi porto ancora dentro, i suoi “condizionamenti evangelici” e le sue convinzioni circa l’essenziale della vita.

Fin da piccolo tutti mi dicevano che dovevo fare il prete ma solo io non lo sapevo, anzi sono cresciuto col rifiuto di questa prospettiva di vita perché la ritenevo inutile e frustrante. È strano, ma tutti quelli che hanno esercitato su di me tali “azioni di pastorale vocazionale” non hanno sortito effetto, mentre proprio questa persona di cui ho parlato, nella sua discrezione, mi ha fatto innamorare della bellezza di questo ideale di vita! È importante perciò che gli addetti alla pastorale vocazionale siano autentici, entrino nel mondo dei giovani senza preoccuparsi di accostarli solo per la proposta vocazionale.

Oltre a questa relazione spirituale, è stata poi anche l’esperienza fraterna vissuta durante il Prenoviziato con i formatori che mi ha spinto a proseguire nel cammino. Essi sono stati per me persone semplici e buone, anch’esse felici e convinte della loro scelta, ma è stata soprattutto la fraternità che riuscivano a creare nella comunità che mi ha convinto della possibilità e della bellezza della vita fraterna. Anche con essi continua ancora una grande amicizia ed uno di loro è rimasto da allora il mio unico e vero padre spirituale, la guida nei momenti difficili. Al riguardo io credo che siano importanti nella formazione, le esperienze di comunione, in cui il primato siano le relazioni fraterne e l’attenzione alla persona e non gli schemi e le strutture.

Ed infine è stato un anno vissuto nella ministerialità più concreta e più cruda che mi ha ridonato, dopo un periodo di mediocrità, le motivazioni vere della mia scelta: gli altri. Nella nostra formazione di Rogazionisti è previsto un anno di ministerialità o servizio (noi lo chiamiamo tirocinio pratico) ed io l’ho svolto fra ragazzi difficili e senza una vera famiglia, accolti in un nostro Istituto educativo-assistenziale del Nord-Italia. Nei loro volti e nelle loro storie ho trovato il senso della mia vocazione come di un servizio che il mondo attende, secondo la specificità del nostro carisma rogazionista. È la stessa scoperta che continuo a fare contemplando i volti dei poveri che accogliamo alla mensa della nostra comunità ogni giorno! Ho letto e continuo a leggere nei loro bisogni, un invito del Signore a spendere la mia vita per essi ed ho sempre sentito questa urgenza come qualcosa di inevitabile, senza la quale la mia vita sarebbe stata inutile e sterile. A cosa serve vivere se non per gli altri? Sarebbe come tenere una macchina senza mai usarla col rischio quindi di doverla buttare nuova, come quando l’avevamo comprata.

Forse è importante per noi giovani la proposta di un servizio concreto nella dimensione vocazionale: credo che i giovani amino sentirsi dire: “Sii utile per il mondo”, piuttosto che: “Fatti santo!”, anche se in concreto diventa poi la stessa cosa. Questa meravigliosa realtà ho ritrovato nel carisma di noi Rogazionisti che ci impegniamo a vivere e testimoniare nella Chiesa queste parole del Signore: “La messe è molta ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il Padrone della messe perché mandi operai nella sua messe!”, che è come dire anche: “Impegnatevi già voi in prima persona ad essere buoni operai perché il mondo non può attendere!”.

 

 

 

Missionario

Luca Torsani, Missionario Saveriano

 

Ho 30 anni, sono originario di Rimini. Sono entrato nei Missionari Saveriani circa quattro anni fa, attualmente sto facendo il noviziato, poi dovrò riprendere gli studi di teologia. Prima di entrare nei Saveriani mi sono laureato in Ingegneria Meccanica a Bologna.

Ho riconosciuto la vocazione al sacerdozio e alla missione attraverso un cammino percorso con l’aiuto trovato nella frequentazione della “Piccola Famiglia dell’Assunta”, comunità monastica diocesana maschile e femminile situata alla periferia di Rimini (è stata fondata da don Lanfranco Bellavista assumendo la forma di vita e il carisma della comunità fondata da don Giuseppe Dossetti, con in più un servizio ad handicappati ospitati in mezzo a loro). Il riconoscimento di questa vocazione mi ha portato a conoscere e ad entrare nei Missionari Saveriani (i quali non hanno nessun legame con la “Piccola Famiglia dell’Assunta”, con la quale non ho più alcun contatto).

Dovendo parlare del contesto in cui si è svolto il mio cammino vocazionale cercherei perciò di descrivere l’ambiente che si era creato attorno alla Piccola Famiglia dell’Assunta. Nel racconto in particolare emergerebbero questi aspetti, che considero sintetici della mia esperienza:

– Quell’ambiente era un ampio “ecosistema”: il prodotto ultimo di un ecosistema sono varie specie di frutti… non solo io, ci sono stati molti ingressi in quella comunità. C’era infatti una molteplicità di persone e di iniziative che gravitavano attorno a quella comunità, anche perché don Lanfranco era parroco (incontri della comunità, attività parrocchiali, un gruppo giovani…). 

– Quella comunità dava l’impressione di essere una “famiglia” “aperta”: ad esempio potevi partecipare alla loro preghiera senza sentirti un intruso, capitava che ti invitavano a cena, in breve tempo potevi arrivare a conoscere la maggior parte delle persone…

 – Il cammino che mi è stato proposto è stato semplicemente un cammino di formazione cristiana. Non ho mai ricevuto proposte vocazionali dirette o indirette. La loro forma di vita era presentata semplicemente come un modo, per chi vi è chiamato, di vivere un qualcosa che è in realtà di ogni cristiano: il proprio battesimo, la Parola di Dio, l’Eucaristia, la preghiera con i salmi… Le cose fondamentali della loro vita perciò le proponevano a tutti quelli che frequentavano, senza secondi fini. Sono arrivato a frequentare quell’ambiente proprio per il bisogno di spiritualità, che sentivo mancante nella mia parrocchia di origine. 

– Riconosco che è stato particolarmente importante per me l’inizio della lectio quotidiana (a casa mia). C’è stato un momento particolare in cui ho sentito la mia vocazione, ma prima c’è stato questo progressivo ingresso nel “mondo del testo” della Parola di Dio, che a poco a poco ha cambiato il mio modo di vedere, sentire, desiderare… E si era creato, sento, un circolo tra i problemi e le domande della mia esistenza di studente universitario e la parola di Dio con le sue risposte e soprattutto con le domande che a sua volta suscitava. 

– Avevo anche cominciato qualcosa della liturgia delle ore (a casa mia), la partecipazione quotidiana all’Eucaristia (in comunità o altrove) e la direzione spirituale. Come sono stati capaci di suscitare in me tutto questo? Mi pare che ciò che più mi ha segnato sia stata la fede che si respirava in quell’ambiente: la fede si attacca , è contagiosa. Ad esempio la fede nella Parola di Dio, che trapelava nelle omelie di don Lanfranco e negli interventi liberi di condivisione sul brano giornaliero della lectio, come parola viva che ha qualcosa da dire a me e agli altri… (cioè appare la fede che hai: ciò che sei; se frequenti la Parola di Dio con assiduità e amore si sente nelle tue parole una fede che non avresti mai potuto comunicare preparandoti all’omelia semplicemente sui commentari). Oppure la fede che trapelava nel modo in cui celebravano l’Eucaristia: come un evento, un qualcosa che accade. Fede che si esprimeva nella direzione spirituale, in cui don Lanfranco era molto sobrio di parole e in cui aveva particolare importanza la confessione. Mentre non avevano mi pare grossa attenzione per gli aspetti organizzativi, o tecniche di animazione per coinvolgere e persuadere più facilmente. Anzi non avevano scrupolo nel proporre cose impegnative: nei pellegrinaggi vedevo che tutti rimanevano in preghiera silenziosa per ore, o quando c’erano giorni di ritiro in comunità era normale (ma non imposto) partecipare a tutta la preghiera della comunità. Vedevo che c’erano coetanei con un’esistenza “normale” come la mia che partecipavano ogni mattina alla messa in comunità (era molto presto). Il fatto è, rifletto ora, che questi passi fatti con il mio corpo hanno concorso a suscitare in me la fede (forse più di quanto sarebbero valse tante meditazioni…). 

– E poi c’era la testimonianza della carità nel loro servizio ad handicappati. C’è stato poi un episodio particolare in cui ho sentito la vocazione al sacerdozio e alla missione. Per cui, anche con la guida del mio direttore spirituale (don Lanfranco), ho conosciuto e sono entrato nei Missionari Saveriani. Ma in relazione a un convegno per animatori vocazionali trovo più interessante il cammino che c’è stato prima e che ho cercato di sintetizzare.

 

 

 

Postulante

Annalisa Arrigoni, Postulante Suore Apostoline

 

Quali esperienze formative e come?

All’inizio del mio cammino di scoperta vocazionale trovo un tempo di crisi spirituale che mi ha molto interrogata sulla mia fede: una fede mia o solo dei miei genitori? Una domanda importante – non scontata – che mi ha messo di fronte ad un bivio: continuare o lasciare. Ho deciso di continuare approfondendo personalmente il mio rapporto con Dio e con la Chiesa. Nell’ambito di questa ricerca ho incontrato un sacerdote che poi è diventato il mio padre spirituale che mi ha accompagnato per 10 anni fino al momento in cui ho lasciato la mia città per entrare nella Congregazione delle Suore Apostoline. È una dimensione che considero fondamentale nel mio cammino perché mi ha permesso di guardare più in profondità quanto vivevo e quanto sentivo e soprattutto, attraverso il confronto, di leggerlo nella luce di Dio.

Importanti sono stati anche gli incontri di preghiera ai quali ho partecipato e che insieme ad altre esperienze mi hanno permesso di guardare dentro di me, di non disperdermi tra le 100 cose da fare e soprattutto mi hanno dato la possibilità di incontrarmi e “scontrarmi” con la Parola di Dio, che nel corso del mio cammino è diventata sempre più importante e determinante.

In questo ambito inserisco anche l’esperienza della GMG del 1997 in cui ho vissuto e sentito sulla mia pelle, forse per la prima volta, cosa significa “essere Chiesa”. Di queste giornate ricordo bene il tema “Maestro, dove abiti? Venite e vedrete” un tema che mi ha molto messo in “movimento” nella mia ricerca vocazionale. Ho sentito che anche in me c’era questo “bisogno/desiderio” di trovare la “casa di Gesù”; come, dove… non era chiaro.

Determinante è stata infine l’esperienza presso le Suore Apostoline, svoltasi in due tappe. La prima di 5 giorni, nel tempo successivo alla mia laurea. Non conoscevo assolutamente le Suore Apostoline e queste giornate sono nate, su consiglio del mio padre spirituale, come tempo per pensare e pregare sul mio futuro a 360 gradi. È stato un tempo davvero forte, nel quale ho sperimentato da un lato la mia preventiva paura per una possibile azione di “reclutamento”, paura che ho manifestato fin dall’inizio e che è svanita nel corso delle giornate, e dall’altro una totale libertà, gratuità, accoglienza da parte della suora che mi ha accompagnato in quei giorni e da parte di tutta la comunità. È stato l’occasione per guardare davvero a tutto campo alla mia vita, in quel tempo frammentata tra le tante cose da fare e alla ricerca di un centro unificatore. Dopo questa breve seppur intensa esperienza, visto l’impatto che la realtà apostolina aveva avuto nella mia vita, ho continuato l’approfondimento e la ricerca vocazionale sia con il mio padre spirituale che con la suora che mi aveva accompagnato a Castelgandolfo. In questo tempo sono arrivata ad una consapevolezza che si è poi rivelata fondamentale: la vita consacrata non era solo un’alternativa tra le tante, ma era la via possibile, realizzabile, concreta per me: e forse lo era proprio nella congregazione delle Suore Apostoline, delle quali sentivo di condividere molto il carisma.

È nata così in modo “naturale” l’esigenza di un periodo più lungo di confronto con la vita consacrata e in particolare con la vita apostolina, esigenza che si è concretizzata nei due mesi di esperienza vissuti presso la comunità di Castelgandolfo: in questo tempo ho avuto la possibilità di fare più luce sulla mia vita, capire quali erano e volevano essere le mie priorità finché attraverso il confronto con la Parola di Dio, il dialogo libero e gratuito con la suora che mi accompagnava e la condivisione della vita comunitaria ho potuto “ammettere con me stessa” che questa era la vita che sentivo mia: avevo trovato la strada nella quale fare “CENTRO”.

 

Quali esercizi di ministerialità concreta e perché?

Centrale per me è stato l’impegno e la responsabilità di animatrice ACR prima e di catechista poi di un gruppo di ragazzi nella mia parrocchia. Un’attività iniziata come “tappabuchi” e che poi è diventata importantissima per il mio cammino: la responsabilità maturata verso un gruppo di bambini (che ho poi accompagnato fin dopo la Cresima) che ero chiamata a far incontrare con il Signore mi ha portato ad approfondire personalmente la vita e le tematiche di fede e mi ha permesso di tirar fuori i doni ricevuti che forse non avrei scoperto senza di loro. Con loro e grazie a loro ho scoperto quanto era per me importante far incontrare il Signore nella loro vita e ho scoperto quanto il Signore stesso fosse importante nella mia vita.

Si è poi aggiunto l’impegno in Azione Cattolica a livello diocesano: prima come membro dell’équipe del settore giovani e poi come vicepresidente. Questa esperienza mi ha aiutato ad aprire gli orizzonti, a guardare oltre “il tetto della parrocchia” e a guardare ai tanti altri giovani che come associazione eravamo chiamati a coinvolgere e a incontrare: è stato scoprire la dimensione “ecclesiale” della fede, davvero non scontata e anzi da valorizzare e riscoprire. A questo aggiungo anche la ricchezza di lavorare insieme ad altri giovani, sia a livello di équipe, sia in tutta la diocesi per il coinvolgimento nelle diverse attività.

Importanti sono state anche le attività di volontariato e servizio come quella svolta presso la mensa dei poveri di Pisa: lì ho imparato ad andare oltre il pezzo di pane dato e a guardare in faccia le persone che venivano, a guardarle davvero come persone e non solo come “poveri”. L’incontro con loro mi ha aperto la mente, mi ha fatto incontrare realtà lontane dal mio quotidiano, mi ha fatto crescere e mi ha fatto sentire, ancora una volta, quanto per me fosse “necessario” e arricchente fare qualcosa per gli altri, essere disponibile per gli altri e quanto in questo “dare” ricevessi davvero 100 volte tanto.

Due frutti comuni a queste diverse esperienze sono stati sia il sempre maggiore bisogno di preghiera: più gli impegni aumentavano, più sentivo il bisogno di fermarmi di fronte al Signore, per ritrovare la forza e l’energia e per scoprire Lui come centro e riferimento finale di tutto questo mio fare…Una scoperta non da poco. Sia lo scoprire quanto per me, per la mia vita, per il mio modo di essere e di sentire il servizio, il fare per gli altri era arricchente: era questo che davvero mi faceva sentire viva!

 

Quali contesti educativi e in che modo?

Il primo contesto educativo è stata la mia famiglia. Sono cresciuta in una famiglia cattolica che mi ha trasmesso i principi fondamentali della fede e della vita, come la preghiera, il rispetto, l’altruismo, la libertà. Ho ricevuto da loro il primo “catechismo di vita”, che poi ho approfondito personalmente e molto importante è stata la libertà con la quale hanno accompagnato le mie diverse scelte, non ultima quella vocazionale.

Nell’ambito della scuola ricordo in particolare il tempo del liceo, in cui con la professoressa di storia e filosofia abbiamo vissuto un’esperienza di “educazione alla salute”, una sorta di progetto pilota di formazione nella scuola. È stata un’esperienza in cui, attraverso la maggiore conoscenza di me stessa e degli altri con le dinamiche di gruppo e una fiducia ricevuta da persone al di là della cerchia familiare mi sono “tirata fuori” e sono “uscita dal guscio”, scoprendo il bene che portavo dentro.

Contesto educativo è stato, come già accennato, anche l’ambito parrocchiale e associativo dell’AC, a cui non ho mai partecipato come “utente”, ma solo come responsabile. Direi “educata dall’educare”! Infine l’università, ha svolto un ruolo “attivo e passivo insieme” nel mio cammino vocazionale: più andavo avanti negli studi e nel lavoro con buoni risultati, che confermavano le mie capacità, più mi sentivo insoddisfatta e insicura su quella strada. È stato poi in occasione della mia laurea che ho deciso che era arrivato il tempo di “fare il punto sulla mia vita” per guardare al futuro e allora ho incontrato le Suore Apostoline!

 

Quali messaggi e di chi?

La totale e instancabile dedizione a Dio e al prossimo di persone – come il mio padre spirituale – delle quali mi ha sempre colpito la serenità e la pace non comuni: messaggio molto più eloquente di tante parole. Messaggi di persone che mi hanno incoraggiato, talvolta spinto, a fare qualcosa di più per gli altri e che mi hanno dato fiducia.

 

Quali incontri con persone significative e perché hanno fatto uscire allo scoperto la tua vocazione di speciale consacrazione?

Significativa è stata la presenza nella mia vita di persone consacrate, specie di donne, che con la loro vita mi hanno testimoniato la bellezza, la gioia e la ricchezza di una vita totalmente donata al Signore e di come questa scelta non togliesse niente alla propria femminilità anzi, la potesse arricchire ancora di più. Ho avuto anche la possibilità di condividere, nell’amicizia, il cammino di ricerca vocazionale di alcune mie amiche una delle quali si è incamminata verso la consacrazione claustrale. La sua testimonianza è stata molto significativa: abituata a pensare che nel fare c’era il modo unico di servire e seguire il Signore, mi ha messo di fronte alla realtà più vera: il centro di tutto è il Signore, il fare ne è “solo” una conseguenza e risposta.

Infine l’incontro con le Suore Apostoline e con don Alberione, nostro fondatore. Ho trovato in loro la vita che io stessa, quasi inconsapevolmente, volevo vivere, ma che mi sembrava impossibile “esistesse” nella realtà: cioè il poter dedicare tutta la mia vita al Signore nel servizio ai giovani per aiutarli a scoprire la loro vita, nella più grande libertà e gratuità. Avevano trovato il centro unificatore della loro vita… e con loro e grazie a loro anche io!

 

 

 

 

Aspirante

Giacinta L., Misssionaria del Vangelo

 

Grazie alla vostra richiesta ho potuto rivedere, ancora una volta, le tappe della mia vita. È sempre come specchiarsi in Cristo, e per me Missionaria del Vangelo è specchiarsi nella sua Parola, per scorgere brutture, difetti (spero sempre meno) o dei tratti carini, per possibili aggiustamenti, tramite conversione, o compiacimenti, per la gloria di Dio. Non sono giovane, né aspirante. Ho 37 anni. Sono insegnante e da alcuni anni membro dell’Istituto Secolare Missionarie del Vangelo. Mi si chiede di raccontare come sono giunta a questa “speciale” vocazione. Più che persone, fatti, incontri o esperienze, all’origine c’è una Parola, che io chiamo generatrice, cioè che mi ha generato a questa vocazione: la chiamata dei discepoli, “Venite con me, vi farò pescatori di uomini”(Mc 1,17). Scoprire che Dio chiama donne e uomini, così come sono, e orienta la finalità del loro “fare” a progetti d’amore… beh, mi ha aperto il cuore, mi ha messo le ali. Qualcuno potrà dire: bella scoperta, si sa che Dio ci ama così come siamo. Già, ma altro saperlo, altro sentirlo, farne esperienza.

Giungo a questa emozionante scoperta all’età di 24-25 anni. E fino ad allora, che ho fatto? Mi soffermerò su alcuni episodi, che a distanza di anni mi sembrano tasselli sapientemente posti da Dio in questo mosaico, ancora incompleto, che raffigura la mia storia, la mia vita. Una famiglia semplice, molto protettiva, non soffocante. Un’accentuata conflittualità con mio padre mi rendeva alquanto aggressiva, poco remissiva. La mamma segnata da una grave malattia mi testimoniava una gran voglia di vivere e di speranza.

Alla fine degli studi, completati col diploma presso le suore (non dico il nome dell’ordine per correttezza), esclamerò: “Io, con le teste fasciate, mai più”. L’allontanamento da loro coincide con quello dalla Chiesa, dalla fede, da Dio. Prevale il desiderio di cose nuove, di nuovi ambienti, di discorsi diversi e più coinvolgenti. Le esperienze di lavoro, in vari campi, mi aprono a nuove amicizie e a gratificarmi delle mie capacità. Dopo alcuni anni rimetto piede in chiesa, quando accompagno mia madre, catechista e sempre speranzosa per il ritorno della figlia prodiga, e lì mi incontro con il parroco. Lo ricordo come un anziano prete, accogliente, alquanto giocoso e serioso, che non scadeva mai in ridicoli giovanilismi, ma attento ai giovani. Subito mi rassicurò e mi incoraggiò ad incontrarlo altre volte. Così fu: brevi colloqui, su argomenti più disparati o su miei interrogativi. Con la semplicità, l’amabilità e la gratuità degli incontri mi aiutò a ritrovare fiducia nel mondo della Chiesa… e di conseguenza in Dio.

Alla notizia della sua morte improvvisa scoppiai a piangere. Era la prima volta che piangevo per la morte di qualcuno. Ero fortemente provata e disorientata. Il legame che il Signore aveva tessuto con me, tramite quella persona, era ormai forte e mi ritrovai a frequentare la comunità parrocchiale, trovando un gruppo (l’Azione Cattolica), che ben presto sarebbe divenuto un luogo di amicizia, di crescita umana e spirituale, di responsabilità.

Altra tappa fondamentale: il sentirmi sola. Alcuni amici avevano deciso di entrare in comunità religiose, una coppia di sposarsi, altri due di trasferirsi per lavoro. Mi sentivo un po’ Giobbe al femminile. Mi ripetevo: “Che faccio? Loro hanno fatto delle scelte importanti. Ed io?”. In AC avevo colto la bellezza e lo spessore missionario dell’essere “cristiani laici”, cioè di persone che fanno di ogni ambiente in cui sono inseriti il loro campo di missione (e per me era la famiglia, i giovani della parrocchia, il lavoro). Avevo avuto delle storie con ragazzi, ma appena mi richiedevano maggior coinvolgimento ed esclusività di rapporto, mi sentivo soffocare. La vita religiosa mi appariva bella nella dimensione di una vita che si dona a Dio; soffocante, chiusa o limitata in una comunità di suore. Che fare?

Il campo vocazionale, propostomi da un padre confessore, mi apre ad una novità di vita. Innanzitutto, l’incontro con quella Parola, da me citata all’inizio, mi sconvolge. Mi sembra di avere in mano il Vangelo per la prima volta. Trovo esaltante il metodo della lectio. Poi, l’ascolto della testimonianza di una laica consacrata, Missionaria del Vangelo, suscita in me tanto entusiasmo. Voglio saperne di più. Ma già il conoscere che esisteva nella Chiesa una vocazione, la consacrazione secolare, che univa le mie passioni più forti, Dio e mondo, e un istituto secolare che portava in sé, e non solo nel nome, il mio nuovo amore, il Vangelo, è stato come dire “eureka”, sentirsi realmente rispondere da Dio a quella domanda fondamentale: “Signore, cosa vuoi che io faccia?”.

Oggi sono prossima all’incorporazione definitiva nell’Istituto. Permettetemi di chiudere nel citare una grande donna, laica, consacrata che tanto ha contribuito a fare chiarezza nella Chiesa sulla consacrazione secolare, Lia Cerrito: “La passione per il mondo è alla radice della vocazione secolare. Se la passione è attrazione, interesse dominante, amore che polarizza, che determina le mie scelte, se è amore che si dona, che patisce fino alla morte, al martirio… non c’è vocazione senza passione. La passione si fa allora impegno, radicalità, donazione totale, consacrazione, missione”.