N.06
Novembre/Dicembre 2004

Eucaristia e missione: fame di pane, fame di Dio

 

 

Mc 6,34-44

Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i discepoli dicendo: “Questo luogo è solitario ed è ormai tardi; congedali perciò, in modo che, andando per le campagne e i villaggi vicini, possano comprarsi da mangiare”. Ma egli rispose: “Voi stessi date loro da mangiare”. Gli dissero: “Dobbiamo andar noi a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?”. Ma egli replicò loro: “Quanti pani avete? Andate a vedere”. E accertatisi, riferirono: “Cinque pani e due pesci”. Allora ordinò loro di farli mettere tutti a sedere, a gruppi, sull’erba verde. E  sedettero tutti a gruppi e gruppetti di cento e di cinquanta. Presi i cinque pani e i due pesci, levò gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli perché li distribuissero; e divise i due pesci fra tutti. Tutti mangiarono e si sfamarono, e portarono via dodici ceste piene di pezzi di pane e anche dei pesci. Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini.

 

 

Venite in disparte in un luogo solitario e riposatevi un po’

Anche noi ci mettiamo per un momento in silenzio per contemplare Cristo e lasciarci guardare da lui. È guardando a Cristo che noi scopriamo la sorgente, il contenuto e lo stile della missione: “la nostra testimonianza sarebbe insopportabilmente povera se noi per primi non fossimo contemplatori del suo volto” (NMI 16). “Il missionario, se non è un contemplativo, non può annunciare Cristo in modo credibile” (RM 91).

La contemplazione sta al cuore di ogni vocazione e di ogni missione. A noi missionari è stata data come patrona insieme ad un evangelizzatore, una contemplativa, Santa Teresina del Bambin Gesù: per ricordare che la missione non è solo viaggiare alle frontiere dell’umanità ma anche essere profondamente ancorati al cuore bruciante d’amore della Chiesa che è Cristo. “II missionario deve essere un contemplativo in azione” (RM 91). “Non una formula ci salverà, ma una persona, e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi. Non si tratta, allora, di inventare un nuovo programma. Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva tradizione della Chiesa. Esso si incentra, in ultima analisi in Cristo stesso da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste” (NMI 29).

La missione non è solo questione di impegno e di generosità; essa dice se è “corretta” la nostra fede. Essa prende slancio dalla contemplazione dell’inviato: guardando a Lui la Chiesa può “assumere uno stile missionario conforme a quello del Servo” (CVMC 10).

 

 

Vide molta folla e si commosse per loro

La compassione di Gesù rivela la hesed, le viscere di misericordia del nostro Dio, Padre e madre. È simpatia di Dio che abbraccia tutti, al di là di ogni barriera etnica, religiosa o sociale. La missione nasce dalla compassione… non la nostra anzitutto, ma quella di Dio.

Guardare a Cristo significa imparare ad avere il suo sguardo sulle miserie del mondo, guarire dalla sclerocardia, dall’indifferenza, dal senso di fatalismo e rassegnazione con cui guardiamo agli avvenimenti, alle strutture ingiuste… diventare capaci di indignazione, di commozione, di coinvolgimento nelle sofferenze degli altri, nelle doglie di questa creazione. Significa lasciarsi pro-vocare, sentirsi chiamati, interpellati a seguirlo nella sua missione.

Da Lui impariamo la passione per la folla, per la gente, per tutti, mentre noi ci fermiamo volentieri ad alcuni, ai nostri, al gruppo, al movimento, alla comunità locale, all’istituto. Lontano da Lui corriamo il rischio di rimpicciolire e istituzionalizzare terribilmente la grandezza della nostra vocazione. Ogni vocazione non è solo il segno che Dio ama me, ma che attraverso di me ama tutti. Al cuore di ogni vocazione sta l’apertura ad una missione che deve abbracciare il mondo intero, che fa suo l’amore universale di Cristo.

L’amore geloso di due coniugi, la consacrazione della religiosa e del religioso, il ministero del prete nella sua Chiesa locale, l’impegno del laico nelle realtà sociali e politiche deve farsi segno dell’amore di Cristo che non ha confini. Senza questa apertura il nostro amore è egoismo a due, di gruppo… “L’amore di Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti” (2Cor 5,14). La missione nasce dall’Eucaristia.

 

 

E si mise a insegnare loro molte cose

Anche le folle affamate di pane hanno anzitutto fame della Parola di Dio. Non di solo pane vive l’uomo! 

Da giovane prete ero partito per l’Africa pensando che quello di cui i poveri avevano più bisogno fosse aiuto e sviluppo. Poi la gente mi ha fatto capire che aveva bisogno di me soprattutto come prete e annunciatore. Nella Parola di Dio l’uomo trova il senso e la pienezza della vita. È una Parola che ci tocca in modo personale, ma che allarga sempre i cuori e gli orizzonti quando sono troppo angusti. La missione “ad gentes”, definita orizzonte e “paradigma” dell’impegno pastorale della Chiesa, ci ricorda questo primato della Parola. “Comunicare il Vangelo è il compito primario della Chiesa” (CVMC 32). “Nutrirci della Parola, per essere servi della Parola nell’impegno dell’evangelizzazione: questa è sicuramente una priorità per la Chiesa…” (NMI 40). “Il Vangelo è il più grande dono di cui dispongono i cristiani. Perciò essi devono condividerlo con tutti…” (CVMC 32).

 

 

Congedali – Voi stessi date loro da mangiare

Non è affar nostro! – pensano gli apostoli –. E spesso anche noi e le nostre comunità fatichiamo a sentirci responsabili di fronte alle miserie del mondo. Noi siamo gli uomini del sacro. Noi offriamo determinati servizi religiosi e poi ciascuno dovrebbe partire per casa sua e badare a se stesso. Nella vocazione degli apostoli c’è la chiamata a creare comunione… a non isolarsi nello spirituale, ma a sporcarsi le mani nei bisogni dell’uomo.

Ogni chiamata del Signore non ci chiude nelle nostre comunità, ma ci ributta al servizio degli uomini.Alla fine della vita saremo giudicati sull’amore. Su questo saper dar da mangiare:“Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli ha voluto identificarsi: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare …”. Questa pagina non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo” (NMI 49).

 

 

Fame di pane

250.000 persone alla settimana muoiono di fame o di malattie legate alla denutrizione. Eppure la terra può produrre cibo per tutti. Un problema che non dovrebbe lasciarci tranquilli, non ci sono scuse.

Un problema concreto: si tratta non di cifre ma di uomini e donne, di bambini soprattutto. Sono 840 milioni i sottonutriti nel periodo 1998-2000 secondo stime FAO. Si innesta un circolo vizioso: la povertà causa fame, la fame causa la povertà: compromette ogni possibilità di riscatto. La fame genera i conflitti: giovani disillusi e frustrati, ribelli incapaci di sopravvivere se non con la guerra. I conflitti generano fame.

Uno sguardo a 360 gradi attorno al mondo, ci permette di cogliere non solo la fame di pane, ma anche quella di pace, di dignità, di libertà, di giustizia. I nostri mezzi di comunicazione non ce ne parlano. Ce ne accorgiamo quando qualche carretta del mare riversa sulle nostre coste centinaia di disperati in cerca di speranza. E qui la nostra civiltà, il rispetto dei diritti, le nostre radici cristiane, la nostra fede vengono messi alla prova. Ci riempiamo la bocca con grandi affermazioni: tutti figli dell’unico Padre, membra dell’unico corpo, ma poi ci indigniamo quando questi arrivano a casa nostra.

Il problema della fame e della povertà è problema di tutti, non solo di chi ce l’ha. Tocca a noi fare qualcosa. Non bastano gesti di carità, occorre la solidarietà e la condivisione. Nonostante i nostri cinque pani e due pesci, il poco che abbiamo, che siamo e che contiamo sulla scena internazionale non possiamo tirarci indietro. La Chiesa esiste per essere sacramento dell’unità del genere umano, segno e strumento di un mondo secondo il progetto di Dio. Siamo chiamati allora a prendere il largo, ad essere proiettati all’esterno, pronti a far fronte alle sfide di oggi, attenti alle nuove e vecchie povertà, alla costruzione di un mondo nella giustizia e nella pace.

 

 

Spezzò i pani

Prese i pani, rese grazie, li spezzò. Allusione all’ultima cena, profezia dell’Eucaristia in cui Cristo si fa cibo per soddisfare la fame dell’uomo. L’Eucaristia è il memoriale che la salvezza non è opera nostra, ma dono gratuito che ci viene dalla croce di Cristo, sacramento dell’amore più grande. Mangiare il Corpo di Cristo è diventare il Corpo di Cristo, è costruire la Chiesa, è essere pronti a vivere nella stessa logica, la stessa missione. È essere liberati dal male, che è la tentazione di mangiarci il nostro spuntino da soli rimandando gli altri a casa loro.

Bisogna frequentare i poveri per scoprire la fame di Dio. Noi che abbiamo tutto siamo sazi alla nausea e persino Dio ci avanza. “Che bello, potremo avere la messa per una settimana!” mi dicevano nei villaggi quando annunciavo che sarei venuto a seguire un progetto sociale. Eppure anche qui con quanta avarizia e parsimonia noi cristiani centelliniamo il dono di Cristo.

Scriviamo che l’Eucaristia è la sorgente e il culmine della vita della Chiesa e lasciamo intere comunità, fasce di persone senza Eucaristia per mesi. Se il pane della moltiplicazione rimanda a quello dell’Eucaristia, l’Eucaristia ci rimanda alla solidarietà concreta.

Concludo con un passaggio della Mane nobiscum Domine. “L’Eucaristia non è solo espressione di comunione nella vita della Chiesa; essa è anche progetto di solidarietà per l’intera umanità… Il cristiano che partecipa all’Eucaristia apprende da essa a farsi promotore di comunione, di pace, di solidarietà, in tutte le circostanze della vita. L’immagine lacerata del nostro mondo, che ha iniziato il nuovo Millennio con lo spettro del terrorismo e la tragedia della guerra, chiama più che mai i cristiani a vivere l’Eucaristia come una grande scuola di pace, dove si formano uomini e donne che, a vari livelli di responsabilità nella vita sociale, culturale, politica, si fanno tessitori di dialogo e di comunione” (MND 27).

“C’è ancora un punto sul quale vorrei richiamare l’attenzione, perché su di esso si gioca in notevole misura l’autenticità della partecipazione all’Eucaristia, celebrata nella comunità: è la spinta che essa ne trae per un impegno fattivo nell’edificazione di una società più equa e fraterna… Perché dunque non fare di questo Anno dell’Eucaristia un periodo in cui le comunità diocesane e parrocchiali si impegnano in modo speciale ad andare incontro con fraterna operosità a qualcuna delle tante povertà del nostro mondo?… Non possiamo illuderci: dall’amore vicendevole e, in particolare, dalla sollecitudine per chi è nel bisogno saremo riconosciuti come veri discepoli di Cristo (cfr. Gv 13,35; Mt 25,31-46). È questo il criterio in base al quale sarà comprovata l’autenticità delle nostre celebrazioni eucaristiche” (MND 28).