N.06
Novembre/Dicembre 2004

I consacrati, convocati con la loro specificità nella Chiesa locale per servire le vocazioni di ogni uomo

Comincio la mia riflessione riferendomi al testo-traccia che mi è stato suggerito da chi ha imbastito il tema e lo svolgimento di questo Forum. Si tratta di un passaggio del documento “Nuove Vocazioni per una nuova Europa”, precisamente il n. 19, che dice così: Nella Chiesa, comunità di doni per l’unica missione, si realizza quel passaggio dalla condizione in cui si trova il credente inserito in Cristo attraverso il Battesimo, alla sua vocazione ‘particolare’ come risposta al dono specifico dello Spirito. In tale comunità ogni vocazione è ‘particolare’ e si specifica in un progetto di vita; non esistono vocazioni generiche. E nella sua particolarità ogni vocazione è ‘necessaria’ e ‘relativa’ insieme. ‘Necessaria’ perché Cristo vive e si rende visibile nel suo corpo che è la Chiesa e nel discepolo che ne è parte essenziale. ‘Relativa’ perché nessuna vocazione esaurisce il segno testimoniale del mistero di Cristo, ma ne esprime solo un aspetto. Soltanto l’insieme dei doni rende epifanico l’intero corpo del Signore. Nell’edificio ogni pietra ha bisogno dell’altra; nel corpo ogni membro ha bisogno dell’altro per far crescere l’intero organismo e giovare all’utilità comune – è il celebre testo di 1Cor 12, sul quale intendo ritornare –.Ciò richiede che la vita di ciascuno venga progettata a partire da Dio che ne è la sorgente unica e tutto provvede per il bene del tutto; esige che la vita venga riscoperta come veramente significativa solo se aperta alla sequela di Gesù.

Il mio contributo a questo Forum è un tentativo di riflettere su questo testo approfondendolo nelle sue parti, tenendo presente le parole fondamentali che sono nel titolo stesso della mia relazione: “Consacrati”, “Convocati”, “Specificità”, “Servizio alla vocazione di ogni uomo”. Ogni manifestazione di vita e ogni cosa attorno a noi ci “predica” ogni giorno, se lo ascoltiamo, che l’amore è sempre molto concreto: si incarna e si manifesta, si “oggettualizza”. Nel suo creare Dio ha scelto di fare proprio così e il creato è il suo amore, costituito dalla concretezza esistenziale di una miriade di oggetti e soggetti. La varietà di tutte le forme di vita è un tratto che ci dice della ricchezza di quell’Amore che conosce e trova sempre mille modi di manifestarsi; è un amore prorompente.

Su un altro piano, la Chiesa, dono non più della creazione ma della redenzione, non è un’impalcatura sovrastrutturale, ma una realtà viva, e anch’essa si manifesta concretamente a ciascuno per mezzo delle Chiese locali che la costituiscono. Le Chiese locali presentano nel qui e ora del loro esistere e vivere la dimensione di un’offerta concreta di essere Chiesa per ciascuno, sono amore concreto di Dio e, dall’altro lato, un bene concreto possibile per gli uomini.

Nello stesso tempo ogni Chiesa locale è un “pezzo” della Chiesa, una “parte” del Corpo: essa respira e vive se connessa al Corpo; e, a sua volta, se è sana rende sano il Corpo.

 

 

Una convocazione che ha qualcosa di speciale

Fin dalle radici del suo essere la Chiesa locale “domanda” dunque unità, perché l’unità è la condizione della sua stessa esistenza. E questa è, sempre per parlare di concretezza, la prima domanda che viene rivolta ai consacrati, come a ogni credente; è l’aria che dobbiamo permettere che la Chiesa respiri affinché viva, è quel membro di cui prendersi cura perché tutto il Corpo stia in salute.

Dunque è questo il motivo per cui anche i consacrati sono “con”-vocati nella Chiesa per fare unità: nel DNA della Chiesa, se il Vangelo è il messaggio veicolato, questo “con” è quella condizione strutturale che permette al messaggio di circolare e trasmettersi. Vangelo e unità: contenuto e modo della Chiesa. Annuncio dell’amore di Dio e comunione tra i fratelli riguardano i consacrati per primi, perché noi per primi abbiamo fatto la scelta di essere tutti e interamente di Cristo e della sua Sposa, e del resto, insieme ai pastori, identificati tout-court dalle persone con essa. Così le differenze tra una famiglia di consacrati e l’altra, le nostre “specificità”, non possono essere occasione di divisioni, ma il percorrere sinergico di strade diverse, avendo tutti davanti agli occhi, circa il metodo e i contenuti, l’unico Maestro.

Per chi è consacrato, in realtà, Gesù non è solo un Maestro da ascoltare ma il modello da imitare, nello stile che egli volle assumere su questa terra. Questo confronto con Lui, unico punto di riferimento, è l’unica vera possibilità di essere uniti, o di ricostruire l’unità dove fosse stata perduta. Di più, l’essere “con”-vocati dei consacrati dice che essi sono presenti fra molti altri, insieme a molti altri. E ciascuna nostra comunità costituisce una delle particelle di questa parte del corpo che è la Chiesa locale, presente e recante vita attraverso un dono, specifico, il nostro specifico carisma. Esso infatti è prezioso perché in grado di trasmettere un paradigma sperimentato di santità, quello dei nostri fondatori; esso è in grado di generare altra santità perché a suo tempo per gli stessi fondatori è diventato, in modo personale, il modello e la causa della loro santità.

Quando parliamo di questo viene quasi naturale riferirsi al celebre testo di Paolo nel capitolo 12 della prima lettera ai Corinti: “Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito”. Credo valga la pena per noi di soffermarci su questo testo, che mette le basi solide dell’impegno a custodire la propria specificità, ma in un’ottica di reciprocità relazionale ed in una prospettiva di unità[1]. Paolo afferma anzitutto che la varietà dei doni discende dallo Spirito. Lo spirito è ricco e non può manifestarsi in un modo solo. Ma perché la varietà dei doni sia segno dello Spirito devono verificarsi alcune condizioni. La prima è la fede, che trova il suo centro nell’affermazione che “Gesù è il Signore” (v. 3).

La seconda è che la varietà dei doni trovi il punto di convergenza nell’utilità (comune). Una terza condizione è che il carisma va concepito come funzione, come servizio, non come dignità: esso non fonda una grandezza da far valere, ma un compito da svolgere, un servizio per gli altri. Questa affermazione è centrale ed è il cuore di ogni vera relazione cristiana, perché discende direttamente dal volto di Dio, rivelato dal Crocifisso. Un dono che venisse concepito come dignità, come qualcosa da usare a vantaggio proprio, cesserebbe di essere un carisma che viene dallo Spirito.

I carismi, tutti i carismi se sono veramente tali, dice Paolo, sono doni dello Spirito, devono tendere alla edificazione comune e tutti devono manifestare la nota della gratuità: la vera gerarchia fra i carismi, se mai ve ne è una, si costruisce sulla base della loro capacità di edificazione comune e di servizio. Il discorso di Paolo si precisa nell’apologo del corpo e delle membra. Il corpo è uno, eppure in esso vi è una ricca pluralità e diversità di membra. L’immagine del corpo è usata per giustificare la pluralità dei carismi e per illustrarne il senso. Il corpo non sarebbe tale se non risultasse di membra differenti. E diverrebbe un mostro se un membro si elevasse sopra gli altri e ne usurpasse lo spazio. Così è della comunità. La vera minaccia contro l’unità e la comunione nella Chiesa non viene dalla diversità dei doni dello Spirito, ma semmai dal tentativo di uno di essi di erigersi al di sopra degli altri, o dal suo rifiuto di servire, o dalla sua pretesa di fare a meno degli altri.

La conclusione nel discorso di Paolo, molto attinente alla nostra riflessione, mi sembra questa: le relazioni nella comunità ecclesiale sono molte, e sempre nuove perché i soggetti sono molteplici, ma devono sempre essere vissute nella reciprocità. Paolo ricorda ripetutamente la necessità che le membra di un corpo siano molte e diverse: ciò significa che egli teme la minaccia dell’indifferenziazione. Ci sono spiriti, allora come oggi, che non tollerano la varietà, confondendo l’unità con l’uniformità. Ma Paolo teme anche l’errore opposto, e cioè la frantumazione.

L’unità del corpo si esprime nella condivisione: ciò che riguarda l’altro riguarda anche te. Paolo avverte il pericolo che alcuni (singoli, gruppi?) si auto-escludano dall’insieme, probabilmente perché ritengono di bastare a se stessi. Posti questi fondamenti, credo che il tema del “dialogo” della vita consacrata con la varietà dei soggetti ecclesiali e il suo impegno a servire nella Chiesa locale la vocazione di ogni uomo, non sia prima di tutto un problema che si esprime nel “che cosa fare”, ma prima di tutto, e fondamentalmente, nel come porsi, come relazionarsi. È anzitutto questione di sguardo e di coinvolgimento, più che di fare e di dare.

L’Apostolo non manca di mostrare “la via più sublime” cui tutti dobbiamo tendere e che permette la reciprocità dei doni dello Spirito Santo: la carità. “La carità è paziente, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia di orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità[2].

Sono queste qualità dell’amore a rendere possibile il dialogo, la collaborazione e la comunione nella Chiesa. Non dobbiamo poi dimenticare che la santità dei fondatori era stata anche frutto di una Chiesa locale, ed era cresciuta con l’apporto di tante “seminagioni” di molti e differenti operai. Oggettivamente e meravigliosamente ogni nostra famiglia è il frutto di una santità che ha messo le radici e si è nutrita nel terreno fecondo di una determinata Chiesa locale: ad ognuna di esse, in molti casi ancora sede della prima radice, la Casa madre di un istituto, va il nostro perenne grazie riconoscente.

Quella santità, lì nata e cresciuta, da allora si fa dono, provocando altri cammini di santità in altre Chiese locali per lo più differenti da quella di origine. Ecco un tratto della specificità dei consacrati: la capacità di “travasare” la santità da una Chiesa locale all’altra, di fare da vasi comunicanti e distribuire uniformemente i doni di Dio nel Corpo intero. Tutto ciò, dunque, in quello che si potrebbe dire il movimento “verso le Chiese locali”, configura i consacrati come occasione di incarnazione, di inserimento e concretizzazione di cammini di santità.

In senso inverso un altro tratto della specificità dei consacrati è quello di far respirare ai credenti delle Chiese locali che si incontrano il respiro della Chiesa universale, del corpo intero, lontano dai particolarismi che in genere tendono a sorgere dentro orizzonti per loro natura “particolari” (cioè “propri di una parte”). Le varie provenienze e la mobilità tipiche della maggior parte dei consacrati, in quello che potremmo chiamare il movimento “dalle Chiese locali”, suscitano una senso di missione e cattolicità, invitano alla “partenza” e al “guardare oltre”.

All’interno di questo incrocio tra missione universale e sua concretizzazione particolare, si colloca la nascita di tutti quei movimenti di spiritualità, essenzialmente legati alla forma della radicalità evangelica, che hanno impedito il ripiegamento della Chiesa sulla propria particolarità locale e rilanciato continuamente l’universalità della missione. San Basilio, San Benedetto, San Francesco d’Assisi, San Domenico di Guzman, fino ad arrivare ai nostri giorni, non sono altro che uomini ispirati dallo Spirito Santo, i quali con la loro esistenza hanno dato vita a “movimenti” che hanno rilanciato la missione apostolica e rinnovato le sue concretizzazioni particolari.

La vita consacrata, in forza del suo carisma peculiare, ha il compito di rilanciare continuamente nella Chiesa la necessità dell’orizzonte universale della missione e del continuo rinnovamento del suo storico particolarizzarsi. Questo sembra anche l’ambito migliore per la ricomprensione del segno escatologico (e profetico) che i consacrati sono chiamati ad essere nella missione della Chiesa. Infatti, l’escatologico non è l’aldilà, avulso dalla storia, ma il definitivo, il senso ed il compimento della storia stessa, che per noi si identifica in Cristo, morto e risorto, datore dello Spirito Santo. In tal senso nessuno può avere un’intelligenza migliore della circostanza particolare, di colui che sa del suo senso ultimo.

Le circostanze, pertanto, chiedono di essere lette, interpretate e vissute in vista del loro scopo e dunque comprese come ambito missionario. Ciò implica per tutta la Chiesa, ma in particolare per il carisma della vita consacrata, un’acuta attenzione alla realtà ed una profonda disponibilità a mutare le proprie forme di presenza.

Si potrebbe perciò dire che gli spazi propri di azione dei consacrati sono quelli connessi a:

– una ri-presentazione di un modello personalizzato (perché “sperimentato”) e quindi personalizzante (perché capace di nuove incarnazioni in quanto suscitante libere risposte di altri credenti) di santità;

– una ri-presentazione del volto universale della Chiesa che si nutre e si ravviva sempre e solo dello slancio missionario, attraverso la condivisione di beni, e di persone che – in molti modi – si dedicano al Vangelo.

 

 

Qualcosa di speciale per il mondo

Questo è quanto i consacrati di fatto hanno realizzato nel passato della vita della Chiesa e delle Chiese sullo slancio dei loro santi fondatori. Per poterlo continuare a rappresentare essi devono continuamente riscoprire la loro specificità, che è come dire la loro identità. Un’identità sottoposta a tensioni e sfide. Una delle sfide oggi mi sembra per i consacrati quella di non lasciarsi omologare dalla cultura e dalla mentalità del mondo ed essere davvero in grado di offrire un modello di vita alternativo.

Un consacrato, perciò, rispetto a chi non è credente, ha il compito di porsi come diverso, altro, rispetto al mondo. Certo, anche ogni altro fedele lo è, ma il consacrato ne è particolarmente portatore in quanto con la sua scelta e la sua vita rimanda a un altro mondo, il mondo nuovo; egli infatti intende vivere relazioni differenti:

a) con le cose: usa delle cose di questo mondo ma è come se non ne usasse appieno;

b) con le persone: è in grado di potersi fare tutto a tutti;

c) con Dio: è dedicato interamente a Lui, con lo stesso sentire di Gesù, che diceva che sua volontà era fare la volontà del Padre.

Di più, tutto ciò generalmente egli lo costruisce in modo comunitario, al “modo della Chiesa”, e non alla stregua di un’impresa tentata da singoli individui. E ancora, per lui c’è un modo più alto e sicuro per la realizzazione della propria umanità: quello indicato da Gesù: perdere se stessi. Il dono che, nella situazione odierna – di dialoghi mancati perché di identità sbiadite –, i consacrati possono dare al mondo è davvero grande: nella riscoperta della loro identità di “dedicati a Dio” sono in grado di offrire identità al mondo stesso. E possono offrire soprattutto ai giovani attraverso la propria umanità maturata dal Vangelo uno specchio e un modello, un’identità dai contorni nitidi: un modo di esistere limpido, un modo di agire che non sfugge le decisioni, un modo di relazionarsi agli altri fedele. Se la scelta della direzione ha bisogno previo di orientamento, i consacrati possono e forse devono essere per ogni persona di fronte al progetto della sua vita l’est, cioè il “da dove Dio viene”.

 

 

Qualcosa di speciale per la Chiesa

Sul versante più ad intra della presenza nella Chiesa, molte famiglie di consacrati hanno una presenza attiva nella pastorale, nei più vari campi. Ora, se la pastorale è un servizio alle persone, le attività, tutte, sono uno strumento per raggiungere il fine.

Si servono le persone:

a) promuovendo la loro umanità;

b) promuovendo il loro incontro personale con Cristo;

queste due cose insieme sono il loro bene.

In realtà il primo aspetto è richiesto dal secondo, perché esso sia vero; infatti Cristo vuole il bene di quegli esseri che egli ha creato in relazione con lui. Se qualcosa rompe o allontana dalla relazione con lui, per quanto possa apparire diversamente, non è il bene, ma è il male della persona. Il bene della persona, in altre parole, è un “bene relazionale”, e non potrebbe essere diversamente, perché una persona è un “essere relazionale”; e la relazione prima è con Colui che rende possibile e origina continuamente la vita di ciascuno.

Il carisma di ciascuna delle nostre famiglie salda sempre in modo stretto questi due aspetti, e l’averlo sempre ben chiaro davanti a sé aiuta a non dimenticarsi mai dell’umanità integrale che dobbiamo cercare e realizzare in noi e nei nostri fratelli. Rispetto quindi agli altri credenti, il consacrato si identifica e si spende per un carisma spirituale e apostolico specifico, attraverso il quale vuole vivere intensamente un colore e una sfumatura particolare del Vangelo. La nostra piccolezza e il nostro limite di non poter vivere tutto il Vangelo, nei carismi ci viene offerta e trasformata come la meravigliosa opportunità di essere un colore originale e unico che sfuma nell’arcobaleno della Chiesa.

Una delle direttrici alla significatività dei consacrati passa dunque principalmente attraverso la riscoperta del proprio carisma: esso deve poter significare e rappresentare alla gente di oggi un modo comprensibile e desiderabile di vivere il Vangelo. Un dono dello Spirito diffusamente sparso in questi ultimi anni è la riscoperta fruttuosa del carisma rappresentata dalle varie aggregazioni laicali sorte all’interno di molte famiglie religiose: esse sono un esempio di una vitalità vocazionale ad ampio spettro del carisma, vitalità vocazionale in pieno sulla linea dell’incarnazione, a vantaggio della crescita complessiva e dell’ulteriore radicamento nella fede e nella testimonianza di molti credenti delle Chiese locali.

 

 

Nella Chiesa, con un’unica chiamata e con diversi compiti

Dal giorno del battesimo la persona, il cristiano, conserva in sé un germe di vita che lo specifica rispetto a tutti gli altri che invece il battesimo non l’hanno ricevuto: se tutti gli uomini condividono dal momento in cui nascono il compito e la speranza di costruirsi come membri della famiglia umana, il credente ha una potenzialità e un compito in più che gli sono stati dati, quello di crescere come figlio di Dio dentro la Chiesa da un lato, e di accrescerla e svilupparla con il proprio impegno dall’altro: i due aspetti sono uniti essenzialmente perché è scoprendo la propria figliolanza che s’approfondisce ed espande la propria fraternità.

Dunque il modo di essere fratello per i fratelli dipende dal proprio crescere come figlio del Padre, e non viceversa, come del resto dimostra la storia dell’umanità: dopo aver “ucciso” con l’ideologia il Padre si sono compiute le stragi più vaste di fratelli nel nome della medesima ideologia. Nella misura in cui uno cresce come figlio, sente che il fratello non è termine di un’opera filantropica ma è a immagine del Padre e addirittura volto del Figlio maggiore. Ciò significa che solo dentro una prospettiva di credenti ha senso compiuto il termine “vocazione” e anche il termine di ogni vocazione, ovvero i fratelli verso cui il Padre indirizza.

Nel Battesimo sta racchiuso questo germe di figliolanza e fratellanza, esso è davvero una nascita, che avviene sul piano più profondo di ciò che costituisce un essere umano: è lo scoccare della ragione e del fine per cui uno esiste, cioè dono-del-Padre-per-i-fratelli. È all’interno di un orizzonte di relazioni dunque, che accade e si proietta la vita di ognuno di noi.

La Chiesa, a sua volta sposa, è questo orizzonte dove Dio ha scelto di parlare non più “per parabole, come a quelli di fuori”, ma apertamente. Non è più il tempo dell’alleanza antica in cui non si poteva guardare in faccia a Dio; ora attraverso Gesù noi contempliamo direttamente il suo volto, conosciamo i desideri più segreti che il soffio del suo Spirito fa vibrare nei nostri cuori, quando ci permette di rivolgerci a Dio con quella semplice e stupefacente parola: Abbà, Padre.

È nella Chiesa che possiamo ascoltare la sua voce, proprio dal giorno del nostro battesimo e da quel giorno, attraverso il volto di chi ci ha accolto nella vita e di chi ci ha sorretto in mille modi nel cammino, noi possiamo giungere sempre più chiaramente a riconoscerlo Abbà provvidente e buono, a sentire la sua voce che mentre ci accoglie, anche ci rimanda ai nostri fratelli. Non avviene tutto in una sola occasione; ovviamente è nel continuo passare dai fratelli a Dio e da lui a loro che scopriamo che egli da noi s’aspetta che ci facciamo servi, come lui s’è fatto nostro servo, che mettiamo gli altri in cima ai nostri pensieri, come noi siamo in cima ai suoi. Noi possiamo così comprendere la ragione e il fine per cui esistiamo cioè che, essendo dono ricevuto, ci facciamo dono che si dona. Questa è l’unica chiamata e l’unica vocazione di ognuno nella Chiesa.

E siccome per un padre i suoi figli sono tutti uguali ma anche tutti differenti e amati come tali, ciascuno di noi è speciale e unico per lui, venuto al mondo con una ragione e per un fine differenti, perché siamo originale fattura di lui che è sempre nuovo nel fare tutte le cose. La diversa costituzione biologica e le diverse circostanze spazio-temporali sono le coordinate attraverso cui Dio ha incarnato e declinato l’unicità assoluta di ogni uomo; per paradossale che possa sembrare è attraverso i nostri limiti di creatura che Dio rende ciascuno di noi originale oltre ogni spazio e ogni tempo, oltre ogni limite.

Per altro verso quell’insieme di circostanze e situazioni storiche nelle quali si sono evoluti e realizzati socialmente i nostri rapporti nella Chiesa rimane una sfida e dunque una provocazione per incarnare la vocazione all’amore di ciascuno. Infatti è sempre qualcuno in concreto che Dio ci chiede di amare. Rivestirsi dei panni del proprio tempo, portarli magari un po’ fino a lasciarseli consumare addosso è stata l’esperienza di ogni santo fondatore nella preghiera e/o nell’azione.

Gli istituti di vita consacrata sono nati da uomini e donne che hanno respirato insieme con Dio l’ansia di salvezza degli uomini loro fratelli concreti, e chi si è unito a loro lungo i secoli ne ha condiviso l’intuizione del dono. Così come è successo per tutti quei santi uomini e donne che nel ministero pastorale o nel matrimonio hanno accolto la mano di Dio che guidava la loro vita a una realizzazione concreta di santità e alla costruzione del suo regno.

 

 

Un sentiero già tracciato e tutto da percorrere

In realtà a tutti è successo di trovare che Dio aveva già, con mille circostanze e incontri, tracciato una strada; è successo di accorgersi di stare già su un percorso provvidenzialmente guidato, che chiedeva un sì e i cui passi successivi si schiudevano in una modalità concreta di dono completo della propria vita. Chiunque l’ha fatto, s’è accorto che queste scelte che gli venivano messe davanti non erano che un modo per continuare a essere cristiano in modo magari più consapevole, stabile e dedicato, in una parola per essere cristiano in modo adulto.

Dunque anche per la fede c’è una specie di percorso evolutivo che spinge a scelte definitive e a doni irrevocabili, tipiche di un essere umano il quale, grato di essere stato accolto e aiutato a crescere, ormai è in grado di decidere liberamente di accogliere e far crescere a sua volta. Anche in questo il cammino vocazionale realizza e porta a compimento l’umanità della persona secondo leggi e dinamiche per altro comuni a tutti gli uomini: “Chi segue Cristo diventa più uomo”.

Da un certo punto di vista si tratta oggi di comunicare positivamente e intensamente ai giovani e alle giovani del nostro tempo che il “sì” a Cristo che chiama è per un’umanità più completa e per un cristianesimo più adulto e maturo; è qualcosa che non rinnega per nulla gli uomini, loro fratelli del loro tempo, ma in modalità differenti li serve; fa sbocciare il loro essere cristiani, li fa profumare sulle strade concrete e originali che Dio ha intessuto pazientemente negli anni della loro vita.

 

 

Gratuitamente, cioè… insieme

Ciò che però i giovani e le giovani del nostro tempo non possono accettare è vederci anche inconsapevolmente preoccupati soprattutto di tutelare i nostri interessi e le nostre istituzioni. È ben vero che nei momenti di crisi e di pericolo è più impellente la spinta al “si salvi chi può” e che la mancanza di un orientamento robusto a Dio ci spinge a considerarci un po’ padroni delle nostre istituzioni o di quella piccola porzione di Chiese in cui viviamo, cosicché invece di seminare generosamente siamo più attenti a custodire e riparare i nostri granai.

Ma tutto questo non sfugge a chi ci vede barcamenare con mille occupazioni pastorali o ansie “spirituali”, e intuitivamente vede in noi dei “vigilantes” di ciò che è passato piuttosto che degli iniziatori di futuro. Molto spesso il nostro agire è finalizzato ad avere più collaboratori, e qui anche a noi capita figuratamene nel nostro piccolo di percorrere terra e mare per trovare dei seguaci. Così si rende chiaro che a noi interessa mantenere vive le nostre opere, invece che le persone.

Ciò che soprattutto chiede a noi Dio non è preservare quanto da noi e prima di noi è stato realizzato e innalzato, ma di farci compagni degli uomini del nostro tempo, di ascoltarli, di aiutare ad ascoltare in loro Dio che precede e traccia il cammino, di incoraggiarli a seguirlo dovunque egli chiami. Questo agire disinteressato deve prendere forme concrete perché i giovani vedano che è della loro vita e non delle nostre istituzioni che ci stiamo interessando.

La forma concreta di questo agire è quel lavorare in comunione che da molte parti stenta ancora a imporsi come metodo condiviso. Una più chiara collaborazione, una proposta vocazionale più “sinfonica” comunicano contemporaneamente ai giovani un senso di gratuità e un assaggio di ciò che vuol dire “Chiesa”. Non c’è dubbio che le nostre piccole rivalità o divisioni sono il più grave ostacolo e contro-testimonianza all’affermarsi della parola del Vangelo. Tra tutti i limiti che abbiamo, probabilmente in gran parte comprensibili e scusabili, essa è quello che maggiormente dobbiamo tendere a vincere, perché è quello che più mina l’essenza stessa dell’essere Chiesa, cioè “con”-vocati, che meno ci presenta come fratelli, che più vìola il comandamento dell’amore di Gesù. È una lieta notizia che nel nostro tempo siamo chiamati a portare a un mondo e a vite che sono preda della frantumazione, smarrite davanti ai tanti conflitti interni ed esterni.

Insieme dunque, e cioè con un discernimento che è un progetto e un operare comuni. A servizio: senza preoccuparsi del “dopo di noi”, ma attenti a quella persona concreta che ci sta davanti, in ascolto rispettoso e adorante del piano di Dio che in lui si sta manifestando. È evidente che in questa prospettiva, sia sul versante di chi anima, sia sul versante di chi riceve la proposta, acquista tutto il suo rilievo la Chiesa locale: essa è insieme di situazioni particolari e dunque, nel senso più vasto, territorio specifico nel quale vive il giovane: Chiesa locale significa lo spazio di vita in cui egli cresce e che in un saggio accompagnamento vocazionale non si può ignorare, ma che anzi, anche per rispetto per quanto Dio finora ha compiuto in lui, diventa il teatro necessario di ogni ulteriore proposta.

Nella Chiesa locale il/la giovane vive già la sua avventura di credente; nella Chiesa locale deve incontrare la possibilità di portare la riflessione sul senso della sua vita ad uno stadio più maturo, quello del discernimento sul modo di essere parte viva di quell’organismo che l’ha fatto nascere e crescere. Il primo aiuto per chi è in questo cammino è poter vedere vocazioni pienamente e gioiosamente vissute: sposi-genitori che testimoniano con fedeltà e dedizione la loro unione, sacerdoti davvero zelanti nel loro ministero, consacrati radicali e generosi nella loro donazione.

Le nuove vocazioni nasceranno da un annuncio e testimonianza “comunitari” e per questa caratteristica parlanti, provocanti e coinvolgenti per gli uomini del nostro tempo. Non c’è bisogno di aspettare di esserne tutti convinti né c’è da temere se i tempi o le persone dentro le Chiese locali o i nostri istituti sembrano a volte ancora lontani dall’averlo capito; questa parola è stata infatti affidata fin dall’inizio a un piccolo gregge e a un piccolo seme.

 

 

Cose nuove e cose antiche

Lo specifico più vero della vita consacrata sta dunque, senza troppe vie d’uscita, proprio nel seguire e ricalcare nel modo più nitido possibile le orme di Gesù, il quale ha voluto essere libero da tutto per essere tutto e solo di Dio, desiderando e mangiando la volontà di Dio come se fosse pane. E, per quanto questo possa sembrare poco eccitante, le nuove strade sono quelle di una rinnovata fedeltà al Vangelo non pensando né illudendoci affatto che sia bastato l’invito del Concilio o di qualche documento per aver operato dei cambiamenti profondi.

La situazione che cambia velocemente attorno a noi, la cultura dominante sembra volerci relegare in un cantuccio per non dare fastidio e metterci nella nicchia di “apostolati” socialmente rilevanti, mentre è invece ora, più che mai, di testimoniare, far sentire la voce e far percepire il senso di una vita consacrata che trova la sua essenza non in quello che fanno ma in quello che sono i consacrati e le consacrate. E se i laici cristiani hanno dalla loro il vantaggio che la loro presenza testimoniante è sentita “prossima” a quella propria di tante altre persone, la testimonianza dei consacrati ha quello opposto di essere più provocante e dirompente, perché più strutturalmente distante dagli schemi mondani, sempre che questa provocazione provenga da una fedeltà al Signore che ami e consideri in modo misericordioso il mondo degli uomini del nostro tempo.

Altre strade rischiano di essere delle affabulazioni intellettualizzanti per illudersi di essere in ricerca, per sfuggire l’invito a rivoltarsi le maniche e coinvolgersi di persona, per stare più tranquilli o, volendo cambiare molto, non cambiare nulla. In realtà non sono mai esistite delle scorciatoie al regno di Dio, né elaborazioni concettuali che ne affrettino la venuta; piuttosto esse rischiano di allungare il cammino e ritardarne l’avvento. Per quanto sembri paradossale, la via lunga (e semplice, in fondo) della quale il Vangelo ci propone sia il contenuto che il metodo, potrebbe essere la più corta.

Rimettersi con intelligenza e dopo avere effettuato l’opportuno discernimento a proclamare il Vangelo, rimettersi con entusiasmo e, anche qui con intelligenza e con discernimento, a trasformare le nostre comunità in ambienti dove ci si accoglie e ci si perdona reciprocamente: sono queste le direzioni cardine da esplorare e dibattere magari tutti i giorni, ben sapendo che i santi – e ne sono di esempio i nostri fondatori – dibattevano poco e operavano molto. In verità l’unico parlare veramente fruttuoso è quello del dialogo che è necessario mantenere (e sviluppare fino a farlo diventare accompagnamento spirituale) mentre annunciamo il Vangelo, e mentre ci impegniamo a riannodare i legami delle comunità.

 

 

In tempi e spazi ordinari

In questa prospettiva va rivisto, specialmente per gli istituti di vita attiva, tutto il nostro operare, che a volte sembra su percorsi un po’ divaricantisi dal senso originario impresso dai fondatori e quasi diventato una macchina che assorbe tutte le energie prodotte, così che gli spazi e le linee di evangelizzazione sono marginalizzate: il tempo per seguire personalmente i giovani manca perché c’è troppo da fare, il tempo per ascoltarli non c’è perché ci sono le cose da organizzare.

Così si rischia di fare tutto e troppo, sacrificando l’essenziale. Piuttosto è il duplice annuncio: “Dio è misericordioso con te”, e: “Dio ti vuole santo”, che, in tutte le declinazioni possibili e immaginabili che la nostra fantasia e creatività ci può suggerire, dovrebbe affiorare e rendere del tutto specifico il nostro agire, che diversamente potrebbe benissimo essere fatto da altri. Dedicarci interamente al Vangelo è l’essenza, o la traduzione, del nostro essere consacrati a Dio.

È il dono che noi possiamo offrire alla Chiesa e al mondo, un dono che ci rende davvero insostituibili, un dono che è esso stesso garanzia assoluta che Dio non lascerà mai morire o venir meno la vita consacrata. È per questo che dobbiamo riscoprire chi siamo, ed essere ciò che siamo per poter continuare ad essere. È questo l’unico modo e servizio che possiamo offrire agli uomini e alle donne, ai giovani e alle giovani, ai ragazzi e alle ragazze del nostro tempo; l’unico vero arrovellarsi delle nostre menti dovrebbe essere attorno al domandarci se siamo accesi e saporiti, se facciamo luce e diamo un gusto deciso e come possiamo esserlo di più; diversamente non serviamo.

I consacrati “utili” oggi (e sempre) a Dio sono quelli che, su mille e magari sconosciute frontiere dello spirito o della carità, sono una piccola luce per gli uomini che li avvicinano, e al cui chiarore di testimonianza, magari sofferta, ognuno si rinfranca nella decisione di continuare a seguire Dio nella propria strada , ovvero anche, ognuno che non ha ancora scelto, sente giungere “sine glossa” l’invito a mettere Dio in cima alle proprie decisioni.

 

 

Con libertà interiore

La scelta di abbracciare la vita consacrata reclama nel nostro mondo rivendicante libertà una testimonianza di dono gratuito e di accoglienza libera da ogni interesse. Proprio così dobbiamo essere, dei segnali indicatori, dei segni di un mondo “altro”, possibile perché già in parte constatabile vero e reale in noi. Il nostro servizio di “rimandare “ ad altro che ci supera è il nostro modo di esprimere la nostra specificità e di servire la vocazione di ogni uomo.

È questo, del resto, il metodo più proprio dell’animazione e dell’accompagnamento vocazionale: non fermare a sé né ai propri istituti le persone, ma dirigerle sempre, soprattutto e interamente a Cristo. Il metodo dell’orientare a Cristo richiede dunque in noi l’atteggiamento essenziale della gratuità, che in realtà non è la cosa più facile e scontata da vivere.

Bisogna con chiarezza, coraggio, tenacia e pazienza convertirsi in costruttori di percorsi comuni; e se non tutti possono essere degli abili tessitori di proposte e di progetti, tutti possono però risparmiarsi e tacere quando si sarebbe tentati di giocare la contrapposizione e dare la propria mano ad elevare i muri.

È anche vero che a volte le convergenze larghe non sembrano possibili; in attesa di tempi migliori, qualcuno con cui costruire spazi di collaborazione e comunione lo si trova comunque sempre. Nello stile del dialogo e della costruzione della fiducia reciproca si possono realizzare occasioni di testimonianza comune.

 

 

Con attenzione alla persona

Farsi “compagni” significa mangiare lo stesso pane: rispetto alle persone che si incontrano vuol dire, per noi che abbiamo già sufficiente saggezza a partire dalla nostra stessa esperienza, sapere che la strada verso la maturazione di una decisione non è prontamente verso il bene, ma è piena di difficoltà, dubbi, conflitti, ansie e lotte. La saggezza maturata dalla nostra stessa esperienza è poi quella che ci fa aiutare ad emergere questi aspetti contrastanti nelle persone perché scoprano e accettino di non sapere, di essere cioè limitati nella comprensione. La prima qualità per poter poi ascoltare Dio proviene infatti dal capire che, in realtà, non si possiedono molte risposte ma molte domande.

Accompagnare è in un certo senso sentirsi davvero compagni dei fratelli perché si è già personalmente sperimentato queste situazioni nella propria vita: essa ci ha già messo al tappeto qualche volta nelle nostre presunzioni, e forse ci mette ancora.

Accompagnare è anche far venire alla luce e radicare la percezione di essere amato, nella scoperta assai concreta dei numerosi doni ricevuti lungo il cammino. La gratitudine è in grado di aprire il cuore alla fiducia: ci si può fidare di Dio perché lo si sperimenta continuamente misericordioso, pronto a perdonare e benigno, operatore e datore di benefici. La scoperta di Dio-amore e la percezione del proprio limite sono quei due poli che, quando arrivano abbastanza vicini l’un l’altro, fanno scoccare una luce intensa, quella di chi si accorge di essere entrato nel cuore pulsante della vita, perché ormai si è in Dio, si è pronti a donarsi perché ricevuti, e a farsi strumenti – sebbene piccoli – nelle sue mani. La maturazione di queste abitudini viene al consacrato dal riflettere in modo sapienziale sulla sua stessa personale esperienza, colma di benefici i più straordinari da parte di Dio e affetta probabilmente dal rachitismo delle proprie povere risposte, sempre però abbracciate dalla stretta paterna di Dio.

Così il consacrato non è un predicatore di parole, ma di vita; non un contemplativo di idee ma di mirabilia Dei personali; non un operatore efficiente ma uno che vede l’operare che Dio inizia e porta avanti. Così, paradossalmente, egli diventa dunque più umano perché più incarnato, più comprensibile perché più partecipe della vita quotidiana di tutti, più imitabile perché più uomo comune, più desiderabile perché più trasparente portatore di una luce, che egli sa che non gli appartiene.

Quando il consacrato vive estensivamente il suo essere contenitore di un tesoro in vaso d’argilla, è già riuscito a portare quella testimonianza capace di provocare nel cuore di chi lo incontra le domande che “servono” la vita: l’amore per la verità, se è offerto in modo semplice e vissuto, affascina e conquista. In tutto questo il consacrato si è lasciato accendere, è bruciato e mentre si consumava ha fatto luce: lì ciascuno ha potuto vedere sé, il suo volto, e il volto dei fratelli. Colui che conosce i cuori e i loro sentieri a volte tortuosi ha bisogno proprio di questo per far giungere diritta la sua chiamata e suscitarne una risposta: infatti solo un dono gratuito è in grado di suscitare un altrettanto gratuito donarsi.

 

 

Conclusione 

Come conclusione, mi piace riprendere qualche immagine dall’intervento che P. Timothy Radcliffe ha tenuto nel febbraio scorso all’Assemblea dell’UCESM di Lubiana[3], descrivendo la condizione culturale dell’Europa come quella del “pellegrinaggio”, icona di uno stato di ricerca, a volte chiaro e distinto,

a volte vago e confuso, ma sempre espressione di un desiderio di compimento. “Pellegrinare” deve divenire una condizione dello spirito e uno stile di vita, del quale i consacrati possono essere testimoni in modo particolarmente efficace: il pellegrinare richiama la sobrietà della vita, il contentarsi dell’essenziale, l’accettare la situazione di indigenza e di bisogno dell’altro, lo stare sulla strada della ricerca sino alla fine, il farsi compagni di strada nel cammino. Nella vicenda ecclesiale odierna vi sono storie che cominciano, storie che si consolidano, storie che continuano e anche storie che si trasformano. Noi, membri di Ordini antichi e di congregazioni religiose, siamo portatori ed eredi di una storia, che è un bene necessario per tutti, soprattutto nel nostro tempo e per le generazioni odierne che rischiano di essere senza memoria.

Ma essere eredi della storia non significa non farsi portatori del sogno del futuro. Mi pare che noi possiamo essere nella Chiesa segni di comunione e luogo dell’incontro dei carismi, con la gioia della nostra povertà e con il coraggio della nostra testimonianza. È virtù propria del pellegrino godere delle poche cose che ha, ma gioiosamente: non servono alla comunione dei carismi rimpianti o nostalgie del glorioso passato, ma la gioia di essere quello che si è, di appartenere al dono che siamo chiamati a condividere, con un “bagaglio leggero”, proprio di chi è in cammino, e si lascia cambiare dalle vicende che vive ed incontra sulla strada, ma sa qual è la sua direzione.

E poi il “coraggio”: i nostri santi fondatori sono stati protagonisti di ardimento, anche di un pizzico di follia: non hanno temuto di sperimentare e di sperimentarsi nel nuovo, nell’incontro, nel dialogo. A noi è chiesto questo coraggio: rinserrare le file per rinchiuderci nelle nostre mura, difendere le nostre certezze, rivendicare antichi diritti o primogeniture non serve e non ci serve; serve invece quell’umiltà relazionale che vive del dialogo, la prima ed essenziale regola: l’impegno a trovare nell’altro non quello che lo differenzia da me, ma quel frammento o quel fascio di luce che può illuminare anche la mia vita e la mia esperienza. E infine saperci incontrare con il nuovo, con il diverso. Parliamo spesso, per altri e più vasti aspetti, di “tolleranza”: ma non sarà anche questo un atteggiamento di base per una comunione organica tra le varie forze e realtà nella Chiesa, se sappiamo restituire al termine la sua valenza positiva e la sua pregnanza semantica? Tolleranza non significa accondiscendenza o sopportazione, ma, in relazione all’etimo latino, significa ‘portare l’altro’, stare al suo fianco, promettersi e promettergli di non volerlo perdere, farsi carico della sua caratteristica: sto al tuo fianco perché, al di là di tutto, qualcosa ci accomuna nell’essenziale: sto al tuo fianco perché non voglio perderti.

Per vivere nella Chiesa e nella vita questo impegno ci vuole una buona dose di libertà interiore: è la libertà interiore che apre queste strade, che mi permette di lasciare all’altro il suo spazio e i suoi tempi, di non volerlo omologare a me, di lasciargli libertà di scelta: non imporre, ma cercare la verità insieme, misurandosi e confrontandosi con quel frammento di verità che ciascuno possiede, senza voler imporre soluzioni precostituite. Spesso all’origine delle difficoltà di incontrarsi, di accettarsi e di riconoscersi c’è la paura della diversità dell’altro, che sempre ci mette in questione. Inconfessatamente noi desidereremmo che gli altri fossero uguali a noi, o uguali a noi divenissero: la diversità è difficile da sopportare e tanto più difficile quanto più si vive una situazione di prossimità.

Forse questo spiega, almeno dal lato umano, perché la comunione di cui tanto parliamo si manifesta più spesso come desiderio che come prassi di vita. Ognuno oggi vuol dirsi tollerante, ma soprattutto in rapporto a ciò che gli somiglia: accettiamo la tolleranza come enunciato di identità, non di differenza, ma questa forma di tolleranza è fondamentalmente un amore di sé. Ai consacrati e alle consacrate è affidato l’impegno di dare una interpretazione diversa della tolleranza: accettare l’alterità del fratello è il centro della vita religiosa: l’altro resta l’altro, diverso da me; devo cercare la comunione con lui sull’essenziale, che è la nostra comune vocazione. Forse potremmo sintetizzare l’insieme del nostro discorso accogliendo gli “atteggiamenti di fondo” che vengono suggeriti nella recente Nota Pastorale dei Vescovi Italiani[4] per qualificare il volto missionario della parrocchia: ospitalità, ricerca, identità.

Una vita consacrata “ospitale” significa nella comunità cristiana e nella pastorale vocazionale un luogo di dialogo e di incontro, di confronto e di reciproco apprezzamento, il luogo dell’offerta e dello scambio dei doni, il luogo dove, a partire da ciò che è “proprio”, si esalta e si mette in evidenza ciò che è “comune”. Una vita consacrata “in ricerca” è un luogo dove si fugge la tentazione di chiudersi in se stessi, paghi dell’esperienza gratificante di comunione che si può realizzare fra quanti vivono la medesima appartenenza. È una vita consacrata “samaritana[5]: capace di riconoscere le sue fragilità e le sue ferite, di lasciarsele curare e guarire e capace ancora, nella coscienza della sua povertà e debolezza, di farsi essa stessa curatrice e guaritrice; una vita consacrata “sulla strada” luogo degli incontri e della carità.

 

 

 

Note

[1] Le riflessioni che seguono sono una sintesi dell’articolo di B. MAGGIONI, Fondamenti biblici delle “Mutuae Relationes”, pubblicato su “Religiosi in Italia”, n. 343, pagg. 143-147.

[2] 1Cor 12,31.

[3] All’Assemblea generale dell’UCESM (Unione Conferenze Europee Superiori Maggiori), tenutasi a Lubiana dal 16 al 22 febbraio 2004, P. Timothy Radcliffe, già maestro generale dei Domenicani, ha tenuto una relazione dal titolo: “Il contributo della Vita Consacrata alla costruzione di un’etica per l’Europa”.

[4] CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n. 13.

[5] Cfr. Strumento di lavoro del Congresso Mondiale della VC: Passione per Dio, Passione per l’umanità.