N.06
Novembre/Dicembre 2004

Insieme “tra le case degli uomini” per una nuova stagione a servizio delle vocazioni

Interessante l’intervista a Susanna Tamaro dopo l’uscita del suo primo film: Nel mio amore. Ella afferma che il suo vuole essere una specie di risposta al film di Mel Gibson Passion of Christ, dove prevale il dolore, mentre nel suo film si intende far prevalere l’amore. Un film, come continua la neoregista, sull’anima persa dell’Occidente, che sta collassando, perché è ormai vecchio e vicino allo zero. Un mondo che si va autodistruggendo nell’odio, nell’intolleranza e nel fanatismo. La possibilità per ognuno, continua la Tamaro, è quella di ricominciare con una vita nuova e diversa. Partendo però da questa convinzione fondamentale, che l’unica vera rivoluzione è quella del cuore, il quale deve ricostruirsi nel segno dell’amore. Un amore non come fritticcio ormonale ma come la cosa più estrema che esiste al mondo, una specie di provocazione. Infatti, non basta limitarsi a commuoversi, tanto più perché in giro c’è una specie di anoressia dei sentimenti veri, ma occorre tentare veramente la via dell’amore[1]. La provocazione della Tamaro, sia come denuncia, sia come stimolazione energetica, penso ci faccia del bene anche all’inizio di questo 4° Forum e Convegno. Forse di questo appuntamento, come di altri, si comincia ad avvertire la sazietà e la poca digeribilità. Convegni tanti, parole troppe e risultati pratici pochi. Indubbiamente la rivoluzione proviene solo dal cuore, ma per svegliarlo, questi anni di inondazione di convegni, stanno recando il pregio di essere come tanti gradini di mentalizzazione e di confronto, che, di sicuro, porteranno frutto per il futuro. Dunque, ripartiamo con speranza e con fiducia.

 

 

 

Cosa si vive fra le case degli uomini?

Fra paure e speranze alla ricerca della felicità

Corriere della Sera del 5 luglio 2004: un grosso interrogativo ed una denuncia drammatica sotto la penna di Danilo Taino “Il tormento dell’Occidente: è possibile essere felici?”. Quest’uomo occidentale ricco ma sempre più triste. Un’interrogazione senza fine e fiumi di inchiostro di sociologi, psicologi, filosofi ed economisti. Perché, una volta soddisfatti i bisogni di base, attraverso l’operazione fin troppo abusata: consumi fratto (leggi: diviso) desideri – ricetta vincente dell’era consumista – la ricchezza materiale incrementa sempre meno felicità? Raggiunta la prima fase del benessere diffuso, si constata amaramente che più in là non si riesce ad andare. Fatto sta che la ricerca della felicità sta diventando una delle pietre angolari del ventunesimo secolo. Ma un’illusione di felicità assoluta, alla Leopardi? Oppure qualcosa di diverso: ad esempio più spiritualità, uno scopo a cui dedicarsi anche con sacrifico individuale, come ci stanno insegnando le bayani, ossia le colf filippine, vere eroine laboriose, che stirano male le camicie ma accudiscono con amore i nostri figli? Il segreto di queste eroine del 2000? La loro è una cultura della condivisione: stare insieme ed impegnarsi per una causa eroica, come quella di faticare e lavorare, con l’unico intento di inviare qualche po’ di denaro ai propri cari nel loro paese. Tutto l’inverso proposto dalla cultura del consumismo, con il suo soggettivismo esasperato e lo sfruttamento di ogni istante per il soddisfacimento dei propri bisogni immediati.

Appena 15 giorni fa il quotidiano da pendolari City Roma portava la sensazionale notizia che i soldi non danno la felicità: scoperta straordinaria, nientemeno che dei professori economisti della Cornell University di New York, i quali, di conseguenza, invitano premurosamente, invece che correre all’impazzata per soddisfare la bramosia del denaro, a dedicare tempo ed energie alla famiglia ed alla cura di se stessi, cosa senz’altro migliore e più gratificante. Il tutto ben rimestato nel pentolone delle paure che dal terrorismo, alle guerre assurde, ai tentativi squilibrati della bioetica, alle invasioni degli immigrati, alle derive istupidite e litigiose della politica nazionale ed internazionale e al non senso diffuso del vivere e/o al senso cercato nella soddisfazione dell’immediato e nell’approdo alle sette, insomma, tutto ci dice che stiamo toccando il fondo e si diffonde l’esigenza di ricominciare a risalire, perché il mondo non finisca per diventare un’aiuola feroce, dove ci si ferisce, uccide, ma un giardino, nel quale tutti possono godere quelle piccole e grandi felicità, delle quali la vita non è mai avara a chi sa amarla senza rubarla agli altri. Allora, come sostiene l’abbé Pierre in un’intervista recente, non dobbiamo dimenticare che abbiamo due occhi. Se un occhio deve essere aperto coraggiosamente per vedere il male e per combatterlo, bisogna tenere aperto l’altro per vedere la bellezza, i fiori che sbocciano di nuovo a primavera, il sorriso dei bambini e le tante meraviglie del creato.

 

Un nuovo pensare e germogli di una nuova cultura

Le cose citate sono solamente la punta dell’iceberg di un nuovo pensare e dello spuntare dei germogli di una nuova cultura, che bussa alle porte del solito immaginario ipernutrito dai soliti palinsesti dei telegiornali. Cogliamo anche solo alcuni segni: l’economista americano Jeremy Rifkin ha pubblicato appena un mese fa un saggio estremamente interessante dal titolo: Il sogno europeo. L’autore sostiene che esisteva fino a poco tempo fa il sogno americano, che prometteva benessere materiale, vincente ma ormai è in netto declino e sembra dissolversi completamente per il futuro. Contemporaneamente, in tutto il mondo si sta affermando, dice lui, un nuovo sogno, radicalmente diverso, il sogno europeo. Gli stati uniti di Europa hanno ormai superato quello dell’America da tanti punti di vista, compreso quello economico. Inoltre l’Europa è diventata un gigantesco laboratorio, dove ripensare il futuro dell’umanità: se il sogno americano promuoveva la crescita economica illimitata, quello europeo privilegia lo sviluppo sostenibile, l’integrazione sociale, la responsabilità collettiva e perciò può vantarsi di offrire all’umanità una nuova e ardita visione del futuro all’altezza delle sfide poste dalla società globale. Forse è troppo sogno ma è pure qualcosa di gustosamente nuovo, che si muove.

Umberto Galimberti richiama, nientemeno che su La Repubblica del 4 agosto scorso, l’importanza di rivendicare i diritti del pudore contro la spregiudicatezza, che nel nostro tempo è diventata una virtù. Pudore invece come mistero della propria soggettività, che difende l’individuo dall’angoscia di naufragare nella genericità animale e intende sconfiggere le istanze del conformismo e dell’omologazione, che spingono a ridurre la persona ad oggetto. Dopo secoli di parallelismo spesso polemico, teologi, fisici e cosmologi sono tornati a dialogare e a confrontarsi seriamente insieme come è successo giorni fa nel convegno di Como e Varenna, per cogliere le prospettive scientifiche dell’azione divina nella natura e nell’evolversi dell’universo e riscoprendo così il significato profondo della creazione.

Il noto sociologo Edgar Morin, sulla base di interessanti ricerche sulle varie società umane, da quelle arcaiche a questa nostra della ipercomplessità, dichiara apertamente che è proprio questa ipercomplessità attuale che richiede una nuova fraternità. Una fraternità che deve saper superare contemporaneamente l’ineluttabile processo rivalitario, il quale tenta continuamente di distruggere dall’interno la fraternità, in un gioco dialettico pericoloso fra l’ego alter che prende le distanze e l’alter ego, che invece include ed avvicina. Per questo, sostiene Morin, è necessario superare il pensiero universalista del ’900, sia di matrice comunista, sia di matrice liberista, sia quello fondamentalista, per puntare all’identità comune, rigenerata continuamente da una fonte di amore. E nel clima tormentoso di violenza e guerra il filosofo e antropologo francese René Girard invita a riconsiderare il valore del sacrificio ed afferma che il fine del sacrificio è sempre quello di ristabilire la pace immolando un capro espiatorio. Ma se nei miti pagani la vittima era sempre considerata colpevole, con l’avvento del cristianesimo la vittima si rivela innocente. Ecco perché ovunque si radica sul serio il Vangelo spariscono i sacrifici cruenti e si scatena la più grande rivoluzione dell’umanità che è l’amore. Così si può prevedere una meravigliosa catarsi cristiana del nostro pianeta per il futuro.

Davvero interessanti queste riflessioni e questo rinsavimento, con i tempi che corrono! Un pullulare quindi di germogli nuovi, veri semina Verbi nel deserto o nelle paludi del mondo, di fronte a cui si potrebbe a ragione citare Isaia: “Ecco, sto facendo una cosa nuova. Non ve ne accorgete?” (Is 43,19).

 

Una Chiesa di cultura minoritaria…, perché frazionata

Impressionano quelle parole dell’ultimo documento dei nostri vescovi del maggio scorso Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (VMP): “Da tempo la vita non è più circoscritta fisicamente e idealmente dalla parrocchia; è raro che si nasca, si viva e si muoia dentro gli stessi confini parrocchiali; solo per pochi il campanile, che svetta sulle case, è segno di un’interpretazione globale dell’esistenza. Non a caso si è parlato di fine della civiltà parrocchiale, del venire meno della parrocchia come centro della vita sociale e religiosa” (VMP 2). E ancora: in particolare tre vicende spirituali esigono risposte: persone non battezzate che domandano di diventare cristiane; ci sono battezzati il cui battesimo è restato senza risposta e vivono di fatto lontani dalla Chiesa; battezzati la cui fede è rimasta allo stadio della prima formazione cristiana (cfr. VMP 2). È la dichiarazione ufficiale della Chiesa in stato di minoranza culturale, con la fine della logica cristiana di massa, con il dato di fatto che le scelte più importanti della vita non sono più collegate con la luce della fede. Le società occidentali stanno perdendo la loro ispirazione cristiana e c’è, più che chiara, la percezione che il cristianesimo non riuscirà più ad essere un fattore che ispira ed informa la storia. Anche per la nostra Europa unita c’è da chiedersi sinceramente fra Cesare e Voltaire cosa resta a Dio, con il prevalere di una politica in gran parte preoccupata solo del potere economico e infarcita di un laicismo strano, che vuole abolire addirittura ogni segno di espressione ed appartenenza religiosa, in nome di assicurare una piattaforma democratica la più larga possibile. E tutto questo, se può trovare un certo numero di concause esterne, come la secolarizzazione, la difficoltà concreta di una nuova evangelizzazione, la difficoltà a cogliere la situazione concreta di oggi nella sua complessità, accogliendo e comprendendo le domande vere e profonde della gente, mi sembra ha una delle motivazioni maggiori in una pastorale della conservazione, irretita in un’operosità sempre più ansiosa e ansimante e ripiegata su se stessa, per la quale si è collegati al massimo con le figure ecclesiali più prossime ed affettivamente vicine ed invece con varie e numerose difficoltà di raccordo tra ruoli e compiti ecclesiali diversi. Abbiamo insomma una realtà frazionata, che accentua ancora di più, nel suo insieme, la fatica, le tensioni, la stanchezza, lo stress per l’impegno ed il servizio pastorale. C’è in atto uno scollamento vistoso fra territorio e Chiesa, perché non si lavora insieme e quindi non si è in grado di affrontare le grandi sfide epocali, con le quali anche la comunità ecclesiale e la sua azione sono chiamate a misurarsi. C’è un campanilismo che tarda a morire e che rende l’istituzione ecclesiale troppo frammentata e fragile, con una mentalità individualista, che rappresenta una delle più grandi difficoltà, non solo di rapporti, ma anche a capire che, dietro la crisi territoriale locale, è in atto la crisi del rapporto tradizionale fra Chiesa e società. Tutto questo, senza togliere nulla ai fatti positivi. Quasi tutte le parrocchie hanno, se non un progetto, almeno un programma pastorale, cui fare riferimento, se non in loco, almeno a livello diocesano ed ecclesiale globale, con un discreto numero di collaboratori laici giovani e meno giovani. Il tutto in tensione tra un’azione pastorale popolare tradizionale piuttosto obsoleta e un’azione pastorale del futuro ancora da individuare bene, che prevede una Chiesa più matura ed un cristianesimo più profetico, più consapevole e militante, capace di testimoniare in modo forte il Vangelo di Cristo.

 

 

 

Cosa si sogna fra le case degli uomini?

Una nuova società ed una nuova umanità del vivere insieme

Se è vero, come diceva la buona anima di Platone, che tutte le grandi cose avvengono nel turbine (e che turbine stiamo vivendo!!!), occorre subito aggiungere che, per accettare come verità questo assioma, occorre saper sognare. I sogni formano parte integrante della vita e delle vicende umane. Li portiamo in noi, più o meno consapevolmente, ma i sogni, come esistenza notturna o ad occhi aperti, vengono a completare e ad arricchire la nostra esperienza vitale e sono un dono prezioso di Dio, come stimolo, per vivere più pienamente e per poter irradiare maggiormente la nostra esistenza, impegnandoci oltre il sofferto ed angusto di oggi. Se sembra che ci siano più paure che speranze per il presente e per il futuro e si respira un po’ ovunque un disfattismo generale, si avverte però una constatazione abbastanza chiara ed una sensazione molto diffusa che, in mezzo a e attraverso tutte le brutture contemporanee, sta nascendo e delineandosi, pur nella nebbia, un nuovo assetto del mondo. Un timido sogno, anche se ci sono già dei germogli constatabili, come all’incontro di preghiera delle religioni per la pace ad Assisi qualche tempo fa ed al meeting della comunità S. Egidio a Milano nello scorso settembre e, novità assoluta del 2004, al meeting di Rimini di CL, dove erano presenti anche i vertici dell’A.C., e così all’incontro di Loreto, promosso dall’A.C., dove sono intervenuti i vertici di Agesci, Acli, S. Egidio, Focolari, CL, ecc. Un sogno ed una scommessa sulla convergenza di persone diverse, per affrontare le grandi domande di oggi, le domande poste soprattutto dalla globalizzazione e sul senso del cammino della storia.

Sogno per il coraggio di un nuovo umanesimo; non continuare a correre il rischio di avere abbastanza religione per odiarsi ma non abbastanza religione per amarsi. Sognare di lanciare ponti di convivenza e non di continuare a costruire muri di separazione. Sognare di affondare bene le proprie radici nel terreno della tradizione più genuina dei valori dell’umanità, invece che vivere da sradicati. Sognare i continenti senza nazionalismi egoistici, con le varie nazioni viste come centri vivi di ricchezza culturale da promuovere a vantaggio di tutti; sognare un mondo in cui le conquiste di scienza, economia, benessere non si esauriscano in un consumismo senza prospettive ma si orientino come calamite verso il servizio solidale; sognare un mondo che vuol fondare la sua esistenza sulla libertà ed il rispetto della persona e dell’ambiente; sognare un mondo che, per evitare la sciagura terrificante dello scontro di civiltà, deve coltivare una spiritualità globale, che liberi tutti dalla legge efferata della rivalsa e del predominio del più forte.

 

Una nuova grande relazione e convivenza gestita in comunione e libertà fra uomo e donna; fra generazioni; fra istituzioni

Oggi il grande frullatore della globalizzazione ha abolito ogni territorio “esterno”, quel “fuori”, in cui sono accampati gli altri, per cui l’unica ricchezza, che rimane e su cui sfidare l’esistenza, sembra solo il frammento di ciò che penso, di come vivo e di come vedo il mondo, tentando di chiudere la complessità dell’universo e della nostra epoca nelle macchine (spesso da guerra) dei propri schemi. Indubbiamente, anche in questo, c’è una discreta verità ma anche molta superficialità sbrigativa. Come si fa a non vedere che proprio in questi anni tanta centratura sul soggetto non ha fatto altro che produrre razzismi, fondamentalismi, banalizzazione dell’etica e della percezione e ricerca autentica della stessa verità? È giunto il momento di sognare di riattivare la sintesi delle varie prospettive e delle varie posizioni. Sognare che l’universale del futuro, il parlare cioè la stessa lingua della vita umana e della vita ecclesiale, non sarà data solo dalle costituzioni e dai documenti, che possono correre il rischio di ridursi a puro materiale da biblioteca, ma anche e soprattutto dal costruire insieme agli altri e non al loro posto. E ciò sarà il risultato di un accordo e non di una conquista o di un’imposizione, perché le componenti delle strutture della vita non sono un insieme di item, come ciottoli lasciati dall’onda sulla spiaggia. Devono essere sognati piuttosto come fili di un arazzo, tessuti in un disegno generale. Temi ricorrenti in varie sezioni aiutano a unificare la struttura complessiva dell’arazzo. Dunque, è urgente sognare e fare approssimazione, cioè esercizi di esperienza dell’altro. Occorre partire da una specie di profezia positiva, scommettendoci sopra, innescando una spirale di risposte altrettanto positive. Mi piace chiamarla profezia dell’approssimazione, con la percezione, senza sensi di colpa, della propria insufficienza a cogliere la realtà nella sua verità totale e il bisogno di ridurre le distanze con l’ausilio degli altri, come risposta alla coscienza della propria fragilità e del proprio pensiero debole. Si tratta di una partita che bisogna giocare oggi, senza attendere oltre.

Ma come praticamente? Approssimazione e stile di convivenza risultano i parenti stretti della felicità, perché le relazioni umane sono i dintorni, nei quali la felicità viene invocata ed attesa, cercata e smarrita; la relazione è il luogo in cui la felicità mette in scena il proprio dramma, un vero dramma, perché l’incontro con l’altro genera la vita nel riconoscimento di sé, della propria soggettività e di quella dell’altro. Il sogno allora di una grande relazione e convivenza gestita in comunione e libertà, e che deve maturare, e sta di fatto maturando, prima di tutto nella relazione uomo-donna, passata dal dominio dell’uomo sulla donna, alla liberazione della differenza femminile, alla successiva emancipazione femminista – già erosa dal di dentro, perché va a parare per lo più nella estinzione delle differenze dei sessi – fino alla linea che sta prendendo sempre più piede oggi, cioè la liberazione delle differenze di genere, che è possibile profondamente solo nella comunione.

Sogno di relazione e convivenza fra generazioni, mettendo insieme il giovane, tutto gelosamente coinvolto nelle sue esperienze, da non poterne avere distacco; la saggezza dell’anziano, sazio di esperienze e in dissonanza con l’oggi, perché ha scoperto la sua finitezza; l’incertezza “filistea” dell’adulto, per lo più deluso e rassegnato da tante esperienze, indeciso se continuare con creatività o lasciarsi portare, come conformista, dalla corrente. Il sogno è che proprio la chance dell’esperienza possa diventare il tavolo del dialogo e della saggezza per tutti e tre, mettendo insieme il gusto di una nuova possibilità, offerto dal giovane, la presa di distanza saggia dell’anziano ed il bilico instabile dell’adulto, distante tra i due estremi ma senza la rassegnazione di uscire dal gioco.

Nell’incontro e sconto tra culture e popoli diversi il sogno consiste essenzialmente in un passaggio: dal prevalere della subordinazione dei più deboli al predominio dei più forti, alla relativizzazione della propria realtà, in nome delle esigenze della verità del mondo e della storia. Un movimento di approssimazione vicendevole e di convivenza, che non è affatto indolore né facile. Per liberare il movimento di approssimazione dalle sue deformazioni e per renderlo credibile, è necessario non delegare a nessuno il posto di confine, dove il rapporto con l’altro è più diretto. L’idea di stare sul margine della propria cultura è in fondo l’idea guida di una radicale apertura all’altro ed il criterio di una presa di posizione seria e non solo teorica in tutto questo discorso.

Quanto si dice e si sogna per l’approssimazione fra le culture è da riportare pari pari per l’approssimazione fra istituzioni all’interno della società e della Chiesa, come rifletteremo fra poco.

 

Una Chiesa missionaria,… purché in comunione

Se il sogno sta proiettando efficacemente la nostra cultura, e le culture in genere, sulla figura di una nuova società e di un nuovo umanesimo, quello del vivere insieme, una nuova società ed umanità, nella quale gioca un suo ruolo fondamentale una nuova grande relazione e convivenza – nella comunione e nella libertà – fra uomo e donna, fra generazioni e fra culture/istituzioni, non è da meno il sognare nella Chiesa, questo campo biblico dei sogni, che, da sempre, pianta segnali lungo i tracciati della storia della salvezza. Il grande sogno di Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte di fare della Chiesa del III millennio la casa e la scuola della comunione (NMI 43) si prolunga nel sogno della nostra Chiesa italiana, in particolare negli interventi dei Vescovi per questo primo decennio: “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”, alle prese con la questione cruciale della Chiesa nel Bel Paese. Un sogno concreto, che mette in approssimazione territorio e parrocchia. E, contro una parrocchia arricciata su se stessa, come comunità autoreferenziale o ridotta a pura stazione di servizi, si anela ad un’immagine di parrocchia figura autentica della Chiesa nel territorio; figura della Chiesa vicina alla vita della gente; figura della Chiesa semplice ed umile, figura della Chiesa di popolo, figura di Chiesa eucaristica (cfr. VMP 4). Una Chiesa buttata nel mare della missionarietà, ma a patto di una seria conversione pastorale, che trasformi sostanza e stile in pastorale integrata dal cemento della comunione, perché non c’è missione efficace, se non dentro uno stile di comunione (cfr. VMP 11), per cui nella Chiesa o si cresce insieme o non cresce nessuno; perché senza comunità non c’è Cristo e senza fratelli non c’è il Padre. Non c’è insomma alcuna possibilità di porsi fuori dalla carne della storia e della vita. Sarebbe un’eresia per noi cristiani. Invece, stare nella storia con lo stile di Dio equivale a ripetere nell’oggi il movimento di incarnazione, che ha realizzato Cristo; sedere a mensa con la gente, ascoltare, suscitare e liberare le domande più profonde, nascoste nel cuore delle persone, radicate nelle paure o radicate nei sogni del futuro o nelle nebbie del non senso, come dicevamo sopra. È la “carne” di questo luogo, come di ogni luogo, dove vive un gruppo di credenti, che deve essere assunta nel mistero della comunione. Per i sacramenti dell’iniziazione cristiana noi siamo inserirti in un luogo preciso, che è il corpo santo del Signore, il suo corpo eucaristico, ma, contemporaneamente, anche il corpo mistico di Cristo, fatto della parrocchia, di tutte le componenti ecclesiali e carismatiche presenti, fatta di territorio intorno a cui, volere o no, siamo profondamente legati, fino all’umanità intera, in solidarietà con il pianeta globale. Abbiamo, come Chiesa, una struttura eucaristica. Dobbiamo essere un offertorio perenne per il mondo. Afferrati dalla passione eucaristica, a contatto quotidiano di quel corpo spezzato e di quel sangue versato, che diventa il nostro più profondo nutrimento, siamo incalzati (caritas Christi urget nos: cfr.2Cor 5,14) a fare legame di solidarietà con la realtà del territorio, con le sue positività e tutte le sue problematiche, per trasformarla nella sinassi eucaristica, per offrire questo spazio e il mondo intero come carne di Cristo. Ecco il sogno di una Chiesa missionaria, che, dico, è già realtà ma ha bisogno di essere coscientizzata e vissuta profondamente. Un passaggio che è reso possibile solo dalla comunione. Altrimenti l’Eucaristia diventa un semplice consumo inefficace, che ha del sacrilego. La Chiesa locale in quanto tale vive l’Evangelo grazie al fiorire di tutti i carismi, che la compongono e che sorgono da una testimonianza comune. Ma essa può vivere così, solo se è raccolta e saldata nell’unità. E le linee della Nota pastorale sul volto missionario delle parrocchie fanno quasi un’eco al documento Ripartire da Cristo, che recita: “È nelle Chiese locali che si possono stabilire quei tratti programmatici concreti, per consentire all’annuncio di Cristo di raggiungere le persone, plasmare le comunità, incidere profondamente attraverso la testimonianza dei valori evangelici nella società e nella cultura. Da semplici relazioni formali si passa volentieri ad una fraternità vissuta nel vicendevole arricchimento carismatico. È uno sforzo che può giovare all’intero popolo di Dio, poiché la spiritualità della comunione conferisce un’anima all’aspetto istituzionale con un senso di fiducia e apertura, che pienamente risponde alla dignità e responsabilità di ogni battezzato” (RdC 6). 

Questo è il sogno, per di più trascritto a chiare lettere nei documenti.La realtà? In maniera un po’ semplicista e di sicuro riduttiva, io oserei condensare e riassumere tutto in una battuta: noi consacrati siamo sfidati dalla Chiesa locale e dalla parrocchia e, d’altra parte, per quanto ci riguarda, noi rimaniamo su un versante di sfida per la Chiesa locale e la parrocchia. Una battuta che contiene un aspetto problematico da impasse ed un aspetto provocatorio di risveglio.

Se la parrocchia sta tornando al centro dell’attenzione e della riflessione ecclesiale, insomma la scommessa forte per la nuova evangelizzazione, tutto questo chiama in causa anche i consacrati e le consacrate. Non solo perché una comunità religiosa, sempre e comunque, si trova in uno specifico territorio parrocchiale e perché le parrocchie affidate ai religiosi sono tante (nella sola diocesi di Roma, per es., sono poco meno della metà) e sono ormai moltissime le religiose direttamente impegnate nei vari campi dell’animazione pastorale delle parrocchie, ma perché la rinnovata visione della comunione ecclesiale esige questo, ricollocando in un più stretto rapporto Chiesa locale – vita consacrata – territorio. Qual è il ruolo della vita consacrata in questa nuova missionarietà? Se, per trovare una risposta, misuriamo la quantità delle parole rivolte ai consacrati/e nella nota pastorale della CEI (che non assommano a più di 30 righe sbocconcellate qua e colà) non ricaviamo molto, anzi si ottiene una prima impressione di una più che evidente marginalità, fatta appunto di accenni sporadici. Cosa che almeno immediatamente potrebbe venire male digerita, quasi che il metamessaggio sia: avete fatto il vostro tempo e oggi non abbiamo più bisogno di voi. Ma ad uno sguardo più profondo mi sembra piuttosto il seguente, sotto forma di sfida: per favore, rifuggite da autonomie e protagonismi in solitaria; superate i particolarismi mentali e pratici. Siamo usciti tutti, noi e voi, da un contesto di cristianità (cfr. VMP 6) ed è pericoloso continuare, noi e voi, a rimanere incollati all’autoreferenzialità e restare centrati esclusivamente sulla preoccupazione di conservare il carisma impiantato su strutture che sono superate. O si ripensa il carisma in forma attuale, interagendo insieme sul territorio o, per necessità di cose, ci si autoemargina ed allora non serve puntare l’indice contro qualcuno, tanto più che sentirsi e fare le vittime ha sempre indebolito maggiormente ed ulteriormente chi lo fa.

Ma esiste anche l’altro aspetto provocatorio di risveglio e di sfida dei consacrati alla centralità della parrocchia missionaria. Ci sta bene la centralità della parrocchia e nessuno vuole metterne in dubbio l’importanza e la sua riscoperta, come campo base della nuova evangelizzazione, ma parrocchia come? Con quale configurazione e con quale stile? Che sia davvero, per favore, una parrocchia rinnovata, con una pastorale integrale (cfr. VMP 11) e liberata dalle due derive nelle quali sovente rimane a tutt’oggi imprigionata: una comunità autoreferenziale e autosufficiente (cfr. VMP 4,11,12), con un parroco che pensa il suo ministero in modo isolato, uomo del fare invece di essere l’uomo della comunione (cfr. VMP 12) e la parrocchia come centro/distributrice di servizi per l’amministrazione dei sacramenti. Ma questo richiede trasformazioni profonde nella formazione dei quadri ecclesiastici, nella catechesi, nella prassi-progetto organizzativo, nella formazione dei laici, facendo passare i vari carismi dalla collaborazione alla corresponsabilità, da figure che danno una mano, a presenze, che pensano insieme e camminano dentro un comune progetto pastorale (cfr. VMP 12). Tuttavia questi sono solamente i due versanti della sfida negativa. C’è invece la grande sfida positiva, che ci attende e coinvolge entrambi.

Dunque, cosa si intende fare come Chiesa fra le case degli uomini? Prendere atto di ciò che si vive fra le case degli uomini e riconoscere i sogni, che come Chiesa e come società tutti ci portiamo dentro, vuol dire accettare di non rimanere alla finestra, a vedere come andrà a finire per gli uni e per gli altri nel prossimo futuro, ma lasciarsi coinvolgere, realizzando gesti di visibile convergenza, “all’interno di percorsi costruiti insieme, perché la Chiesa non è la scelta di singoli ma un dono dall’alto, in una pluralità di carismi nell’unità della missione per mezzo di un tessuto di relazioni stabili” (VMP 11). Attraverso il convergere di tutte le categorie vocazionali ed attraverso ogni possibile energia, a servizio di che? Il campo è immenso e pieno di urgenze da tanti versanti, quanti sono gli aspetti e risvolti dell’intera esistenza cristiana.

L’esperienza di questo Forum, come dei precedenti – anche se forse non è ancor sentito come kairós, provvidenziale occasione di crescita insieme nella comunione – vuole prima di tutto maturare la convinzione che, solo in sinergia di ministeri e di carismi, sarà possibile costruire il futuro, realizzando finalmente quella parola di Dio, che mette l’obiettivo dell’utilità comune (cfr. 1Cor 12,7) come causa ed effetto dell’interagire insieme; e poi vuole proporre di assumere l’impegno di costruire insieme questo nuovo volto della Chiesa missionaria, attraverso l’impiantazione concreta della tanto sospirata e non ancora maturata e realizzata cultura vocazionale. In particolare, proprio sull’onda di ciò che brevemente abbiamo passato in rassegna, ci soffermiamo su tre ambiti, che possono diventare il cantiere concreto della nostra sinergia di comunione.

 

Ritessere insieme il vestito dei valori della vita

Sembra ormai un dato acquisito che, se manca un rapporto affettivo (i “legami caldi” di cui parla la Nota pastorale: cfr. VMP 6), non si riesce ad incidere in profondità con qualsiasi tipo di relazione che sia genitoriale, o scolastica, o di gruppo o di tipo pastorale, formativo. Il motivo è che, da una parte, nel passaggio epocale tutti i valori sono stati messi in discussione. Tutto questo necessariamente porta a moltiplicare i frammenti di tutta la realtà, per tentare, almeno nel piccolo del soggetto, di poter vivere situazioni esistenziali diversissime, anche all’interno delle medesime istituzioni (famiglia, comunità, gruppo informale o di impegno), con rapidi spostamenti psicologici, affettivi, ideologici, religiosi, in sintonia con la velocità del mondo delle comunicazioni e della tecnologia. Vige di conseguenza il rifiuto della totalità come sistema di pensiero, di fede, di valori culturali, di appartenenza, per lasciare libero sfogo e spazio alla centralità del soggetto, al primato della sua coscienza o al lussureggiare dei suoi sentimenti, lasciandosi guidare essenzialmente dalla propria individualità e meno dai valori oggettivi; con l’affermazione della superiorità delle proprie esperienze, rispetto alla scelta di vita e alla responsabilità di appartenenza alle istituzioni, siano esse di qualsiasi natura.

Dall’altra abbiamo un contesto sociale tutto concentrato sul futuro, con un’enfasi morbosa sul valore e sulla frenesia del cambiamento continuo e sull’innovazione istituzionalizzata. È difficile fare ragionare, creare convinzioni, educare, formare la coscienza… E tutto questo rende difficile attuare dei modelli di pastorale giovanile, che facciano veramente presa ed un rilancio della pastorale familiare, in un momento come il nostro, in cui vige la crisi della famiglia tradizionale per il costume familiare reclamizzato dalla società.

Entrambe queste realtà però sono il crocevia obbligato per incidere nella cultura complessiva della nostra società e per ritessere il vestito dei valori dell’esistenza umana e cristiana. Per noi e la nostra preoccupazione vocazionale questi due ambiti poi sono questione di vita o di morte. Non possiamo quindi assolutamente dribblare per qualcosa di altro, che non c’è o è solo un riempitivo. È molto interessante che la Nota pastorale indichi tra i “come” concreti due mezzi non usuali per l’evangelizzazione: la via della bellezza (cfr. VMP 6) e l’atteggiamento dell’accoglienza/ospitalità (cfr. VMP 6,13).

Indubbiamente la cura e l’esaltazione della bellezza a tutti i livelli è particolarmente avvertita nel nostro tempo; purtroppo il più delle volte si riduce ad un atteggiamento soggettivistico di consumo ad ampio spettro. Questa può diventare invece una via importante per la ricucitura dei valori della vita, del senso della vita e per la trasmissione della fede, se i giovani, le famiglie, la gente la coglie non solo come seduzione soggettiva ma come fascino oggettivo, perché incarnato da persone e da ambienti. Si deve cogliere come un piccolo spaccato della bellezza di Dio, che parte dall’alto e si incarna in un gruppo di credenti e in vocazioni riuscite.

Ecco allora l’esperienza imprescindibile del nostro esserci e lavorare insieme, ministri ordinati, consacrati/e, laici, sperimentando forme sempre più strette di comunione, che poi si irradia proprio nell’accoglienza ed ospitalità e crea quei legami caldi tanto esigiti dalla nostra cultura. Se la comunione è vera, sarà anche gratuita; una comunione così sarà trasparente e non captativi e sfruttatrice. Avrà lo stile di Giovanni Battista, che accoglie attorno a sé ma non trattiene per sé: destina ed indirizza al Cristo, perché è importante che Lui cresca (cfr. Gv 3,30).

 

Ritessere insieme la collaborazione fra i carismi

C’è tutto un filone della riflessione contemporanea, e peraltro ha radici lontane, che vorrebbe fare prendere coscienza che tutti abbiamo nel nostro intimo un coinquilino segreto. Non si tratta tanto del solito schizofrenico dalla doppia personalità. È invece una forma sofisticata del così detto “doppio”, una specie di figura relazionale immaginaria, che si forma nel nostro interno, quando due persone sono prese dagli stessi gusti, voglie e desideri ed ideali. Ci si fronteggia a vicenda fino ad arrivare al punto di dimenticare l’oggetto del proprio anelito, per concentrarsi invece quasi esclusivamente sul fastidio e sull’ossessione di vedersi uguali. Fastidio ed ossessione, per distinguersi in qualche modo da chi si copia e non si vuole copiare. Da quando è stato scoperto questo meccanismo, vi giocano le carte più subdole e crudeli la pubblicità, la moda, il marketing, lo snobismo… In fin dei conti questa è una sindrome diffusa, per cui più si vive questa ossessione di essere diversi, più, alla fin fine, si risulta dipendenti e si continua a copiare, proprio in un’epoca come la nostra, in cui si propone di essere modelli a se stessi. Tutto questo ha una storia lunga anche nella vita della Chiesa, con particolare evidenza fra le Chiese cristiane, fra la vita consacrata e clero diocesano, fra parrocchia e parrocchia o diocesi e diocesi, fra istituti di vita consacrata stessa, persino fra istituti della stessa famiglia carismatica. Un tempo ognuno ed ogni istituto vivevano questa tensione giocando in parallelo e per lo più ignorandosi a vicenda. Oggi che le vocazioni sono scarse, l’invecchiamento è preponderante e le sfide/urgenze da affrontare si sono centuplicate rispetto al passato, il confronto/scontro, collaborazione/emarginazione, comunione/rifiuto e dissociazione obbligano a prendere posizione sullo stesso territorio. A mio avviso, c’è ancora un lungo cammino da fare, perché, per lo più, prevale ancora il tentare il tutto per tutto all’interno del proprio sistema curtense (come nel medioevo in cui si produceva e si consumava tutto all’interno dello stesso feudo), magari simulando, con vistose assenze da momenti di partecipazione e programmi degli organismi di comunione, prima di chiedere o accettare aiuto da parte degli altri. Dove questo avviene, lo si fa più perché si è costretti dalla necessità e non se ne può più fare a meno per matura adesione all’ecclesiologia di comunione. La convinzione che prevale, senza cattiverie, è che condividendo e collaborando, in qualche modo ci perdo da tutti i punti di vista, compreso quello economico, non parliamo dal punto di vista del guadagno vocazionale. Credo che non dobbiamo spaventarci, perché, da una parte, nessuno della generazione adulta è stato preparato e formato a questa mentalità, se non attraverso la proclamazione dei supremi principi, meno che meno a questa metodologia di interazione e non mi risulta che, per il momento, i seminari e le varie case di formazione contemplino precisi itinerari di formazione teologica, spirituale e di psicodinamica relazionale, in vista di questo apprendimento. Dall’altra è importante e urgente dare il via, in più territori possibile, allo stile del mettere le nostre forze in rete, in uno slancio di pastorale di insieme, attivando tutte le energie possibili (cfr. VMP 11). Credo che per noi che siamo legati dalla fatica e dal fascino della pastorale vocazionale, c’è una particolare responsabilità in tutto questo ritessere la collaborazione dei carismi e dei ministeri in nome della stessa grazia vocazionale: il bilanciamento tra vocazione comune e vocazioni specifiche, trasferendo a livello regionale, diocesano e locale quello che, fortunatamente, si vive da anni al CNV, cioè sentirsi impegnati per la cultura vocazionale, pensando insieme, lavorando insieme, stimandosi vicendevolmente, aiutandosi insieme in tutto. Se in ogni diocesi si avviasse sul serio una cosa di questo genere, non solo si potrebbe superare la dannosa sindrome del “doppio”, che per il momento, in troppi casi, ci sta spiazzando, ma si incrementerebbe davvero un salto di qualità di maturazione delle comunità cristiane nei vari territori, anche perché, a quanto pare, per il futuro non si prevedono vie diverse, che non siano la scuola e la casa della comunione (cfr. NMI 43).

 

Ritessere insieme la vita come vocazione

E la vocazioni di speciale consacrazione? Finora non ne abbiamo parlato. Eppure l’urgenza di vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata è arrivata al parossismo della preoccupazione dei Vescovi e dei superiori degli istituti. L’entusiasmo e la bellezza della nostra vocazione di speciale consacrazione non deve trattenerci nella roccaforte del privilegio privato, che ci distacca dal resto del popolo di Dio e diventa sempre più incomprensibile ma deve spingerci a ricostruire quello che non esiste più o è da reinventare. Non c’è da spaventarsi se, forse, per qualche anno ancora le cose potranno peggiorare, sia come numero di nuove entrate, sia come indice di numero di abbandoni vocazionali. A porre rimedio mi sembra attualmente serva a poco moltiplicare le iniziative, oltre quelle che ci sono già, esclusivamente in funzione delle vocazioni di speciale consacrazione. È il contesto che è debole e rende particolarmente deboli e fragili le persone, sia per la maturazione della decisione vocazionale, sia per il prosieguo nella perseveranza. E il contesto è la pratica emarginazione della vocazione alla vita. Considerare la vita in una prospettiva di antropologia sotto il segno di una chiamata da parte di Dio, è molto lontano dall’immaginario del modo abituale di pensare dei nostri contemporanei ed è praticamente subissata da una colluvie di altre antropologie pratiche, che esauriscono tutto nel primato dei bisogni egocentrici e nel loro soddisfacimento, oppure nel mito della libertà assoluta alla Sartre, che ha bisogno di reinventarsi ogni giorno, affermando se stessi in modo sfrontato ed indipendente da tutto e da tutti, oppure nell’altro mito, quello dell’autorealizzazione attraverso il dispendio di mezzi di consumo, le macchine e le vie sofisticate del vivere di oggi. Con ogni probabilità il campo più urgente da coltivare, ancora una volta insieme, (perché è talmente impegnativo e vasto il lavoro da fare) è ritessere la vita come vocazione, rifare cioè il terrapieno, che una volta era reso naturalmente compatto dal tipo di società più compaginata e naturalmente cristiana, che dalla Chiesa, alla famiglia, alla scuola, al vivere quotidiano, in tutto contribuiva a rendere solidi il senso ed i grandi valori della vita. Oggi questo terrapieno si è sgretolato in tanti modi e le radici delle persone sono al sole, senza il senso della vita come responsabilità verso se stessi, verso gli altri e verso il creato, senza una risposta significativa di fronte ai gravi problemi esistenziali, come il bene, il male, la vita, la morte, il dolore, la felicità, la verità, la libertà, senza vedere in sé quello scrigno prezioso, che contiene la mappa e la bussola unica della propria esistenza, cioè un progetto già delineato, come creatura, come somiglianza con Dio, come posto da occupare nel mondo, come plasmazione della propria realizzazione contemporaneamente a due mani, da parte di Dio e da parte di ciascuno, naturalmente con il rispetto assoluto della propria libertà. È solo su questa base, su questo terrapieno ristrutturato, che sarà possibile gettare le fondamenta e affondare le radici delle varie piante vocazionali specifiche, dal matrimonio, al ministero ordinato, alla vita consacrata.

 

 

 

Conclusione

Concentrare l’azione della parrocchia sul Battesimo è il modo concreto, con cui si afferma il primato dell’essere sul fare, la radice rispetto ai frutti, il dato permanente dell’esistenza cristiana rispetto ai fattori storici mutevoli della vita umana […] I cammini di educazione alla fede, che la parrocchia offre, devono essere indirizzati alla scoperta della vocazione di ciascuno. La pastorale vocazionale non può essere episodica o marginale” (VMP 9). Queste ulteriori sottolineature della Nota pastorale CEI non fanno che confermare quanto ci siamo venuti dicendo, specie in questa ultima parte del discorso. Le stimolazioni e le sfide di questo Forum intendono farci fare un passo in avanti in tutto questo. Ora non resta che passare all’opera. Ma se continuiamo a rimanere divisi, o, al massimo, ci accontentiamo di restare collegati in parallelo, non cesseremo di allungare la somma dei problemi e delle nostre inadeguatezze, senza quella risposta valida, che può essere data solo dalle “viribus unitis”, come dicevano gli antichi e che, per tornare alla Tamaro, fanno parte dell’unica rivoluzione che esiste, quella che si decide nel profondo e parte dal cuore.

 

 

Note

[1] Intervista alla Tamaro riportata da Il nostro Tempo, 36 (10 ottobre 2004).

 

Riferimento bibliografico

CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia. Nota pastorale (30 maggio 2004), in Notiziario della Conferenza Episcopale Italiana, 5/6 (1 luglio 2004), pp. 129-162.

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