N.02
Marzo/Aprile 2005

La domenica provoca il giorno dell’uomo

Il senso di questa riflessione e condivisione è espresso nelle consegne con cui gli organizzatori mi hanno segnalato la prospettiva nella quale collocarmi: la lettura antropologica della Domenica nella nostra società e cultura, segnalando elementi vocazionali ed antivocazionali che interpellano le nostre comunità cristiane.

Di qui le domande:

– Come è vissuta la domenica dalle famiglie e dai singoli nella prospettiva della progettualità di una vita-dono da donare?

– A quale condizioni un giovane può trovare un itinerario di maturazione vocazionale?

Esse mi hanno interpellato non poco a studiare e cercare alcuni nuclei tematici convergenti negli obiettivi del convegno. Così ho dedicato allo studio del tema gran parte dell’estate proprio per individuare un’articolazione di contenuti utili, secondo criteri di semplicità, essenzialità, operabilità.

Riporto le espressioni delle consegne in modo che si possa completare il mio svolgimento del ‘tema’, integrandolo, precisandolo, correggendolo, ricentrandolo.

La domenica provoca il giorno dell’uomo. È vero. E questa provocazione vale anche per noi che la celebriamo. Vi sono aspetti, però, in cui si può affermare pure l’inverso: il giorno dell’uomo provoca la domenica. Lo è almeno nel senso che la domenica come tempo che noi credenti pensiamo di organizzare per Dio – accezione del termine più diffusa – è provocata dal tempo dell’uomo, dalla percezione che egli ne ha, dal complesso di valori simbolici che le attribuisce, dalle emozioni positive o negative che prova, o dall’indifferenza, dallo spazio antropologico che le dedica nell’organizzazione della sua esistenza.

Questa provocazione è per noi una chiamata all’ordine evangelico e non semplicemente l’occasione offertaci per testimoniare e annunciare la fede, dentro un presunto vuoto altrui che vogliamo riempire. Da queste provocazioni ci lasciamo interpellare a livello pastorale, cioè nell’intento di rivedere e riorganizzare un complesso di elementi, perché siano convergenti nel processo formativo (nel nostro cammino di conformazione al Signore Gesù), nel processo educativo (nell’impegno a favorire tale percorso agli altri), e nella responsabilità missionaria (nell’attenzione a far risuonare l’universalità della proposta di salvezza.

Ben ha espresso questa problematica Carlo Cibien nel suo articolo sulla Domenica. «Dal punto di vista pastorale la domenica è diventata un problema nel quale confluiscono tutte le contraddizioni del momento presente, non solo sul piano religioso e pastorale, ma anche su quello culturale, sociale, politico ed economico… Non è solo il vissuto della fede e l’impegno propriamente pastorale che sono chiamati in causa, ma tutta la complessità del tessuto sociale, con particolare riferimento al significato del lavoro e quindi del tempo libero, alle fondamentali esigenze naturali della vita di relazione e dei rapporti interpersonali ecc. Vengono in superficie tutti gli interrogativi e le perplessità che si sono determinati nella Chiesa, e più in generale nel mondo in cui viviamo, in seguito alle radicali trasformazioni verificatesi negli ultimi ’60 anni, ma che hanno radici ben più lontane e profonde. Sotto il profilo strettamente religioso, e in particolare per ciò che attiene alla celebrazione della domenica, due sono i fenomeni che hanno inciso e incidono ancora sulla domenica, fino a farle cambiare volto e a suscitare grosse questioni pastorali».

Richiama il passaggio da una società di tipo rurale, quindi statica chiusa, a una società industrializzata, caratterizzata dalla mobilità e dal pluralismo, quindi menziona un aspetto piuttosto sociologico.

L’altro fenomeno è quello che si potrebbe denominare culturale che ha avuto e ha notevoli riflessi negativi sulla fede e sul costume religioso, quindi sul modo di considerare e vivere la domenica. È il fenomeno «della secolarizzazione dilagante, tendente sempre più a diventare secolarismo. In base ad essa si afferma nell’uomo moderno la suggestione a ritenersi autosufficiente e il convincimento che il proprio destino, come del resto quello della storia, si risolvano su questa terra e non abbiano alcun riferimento alla trascendenza. Ne deriva la pretesa di escludere la religione dalle strutture e dalle pubbliche istituzioni, per confinarla tutt’al più nell’ambito della vita privata, quando pure non si arrivi a ritenerla insignificante o addirittura alienante. L’uomo che vive nella città secolare, non riuscendo più a cogliere il disegno di Dio nella storia, quale si attua oggi nel tempo della Chiesa e soprattutto nella liturgia, non avverte più il riferimento che la sua vita, e specialmente alcuni suoi momenti, ha con le celebrazioni liturgiche; per questo le conosce sempre meno, quando non le consideri nient’altro che forme di una pratica socio-culturale o l’espressione di una vaga religiosità di tipo sacrale, e non finisca quindi o con l’abbandonarle o col dar loro assai scarso rilievo nella propria vita»[1].

La concentrazione di tante e complesse problematiche intorno alla domenica spiega la molteplicità di convegni e congressi, ricerche e studi, sviluppatisi in questi ultimi anni, occasionati pure da pubblicazioni di documenti del magistero ecclesiastico, in particolare la lettera apostolica di Giovanni Paolo II, Dies Domini, (31 maggio 1998).

Tra i fattori della valorizzazione di questo giorno emergono il senso di appartenenza a Cristo e alla Chiesa, il rapporto con coloro che sono sinceramente impegnati nella vita cristiana, nel servizio e nella testimonianza. La qualità di questa appartenenza e di questo rapporto spiega il tipo di partecipazione all’azione liturgica domenicale: passività e superficialità, impegno a vivere il mistero celebrato, disponibilità a svolgere i diversi ministeri previsti dalla celebrazione.

Per gran parte degli italiani la messa domenicale resta l’unico atto religioso. Per un numero circoscritto di cristiani la domenica è un tempo di qualità che si traduce in un impegno di fede e di evangelizzazione coinvolgente la propria esistenza.

Secondo Cibien l’eccessiva moltiplicazione di messe, la frantumazione dei credenti in gruppi che tendono a riunirsi in celebrazioni autonome dalla comunità parrocchiale, la carente animazione e vitalità all’interno dell’azione liturgica sarebbero dei fattori che incidono sulla poca rilevanza ‘pubblica’ dell’assemblea domenicale. Nella ricerca di soluzioni l’autore suggerisce un’azione pedagogica e pastorale a diversi livelli e con precisi obiettivi.

«In particolare urge un impegno educativo globale e insieme capillare inteso a restituire alla domenica il suo pieno significato quale emerge dalla tradizione biblica e patristica, dalla riflessione teologica e dal magistero conciliare recente. S’impone un’attenzione alle contraddizioni e difficoltà createsi con la nuova situazione socio-culturale, per inventare una pastorale che ne tenga conto e s’impegni a superarle senza tradire le istanze più genuine e perciò imprescindibili del dato teologico. Si rende finalmente indilazionabile lo sforzo per calare nell’assemblea liturgica domenicale le istanze del rinnovamento liturgico, perché essa torni ad essere il momento forte, non esclusivo ma totalizzante in cui la comunità dei credenti celebra la pasqua di Cristo e la fa propria con autenticità di segni e di modi espressivi, con serietà di intenti, con piena e cosciente partecipazione personale ed ecclesiale»[2].

Non ho la pretesa di entrare in tutta questa complessa problematica, ma solo di condividere alcune considerazioni che possano favorire, spero, una progettualità pastorale più pertinente ai bisogni formativi ed educativi emergenti dalla comunità cristiana e anche dalla società attuale. Menziono pure la società, perché dalle ricerche emerge il vuoto esistenziale di coloro che alla domenica non danno alcun senso e perché il messaggio evangelico è l’offerta di salvezza proposta a tutti, quindi ai ‘cittadini della città terrestre’, attraverso la Chiesa che è il sacramento, segno e strumento della comunione con Dio e della unità del genere umano.

In questa prospettiva, dopo aver raccolto non poco materiale, più che fare una diagnosi – che poi non sarebbe nemmeno mia competenza, esistono ricerche ad hoc condotte da studiosi – vorrei segnalare alcuni nuclei tematici come snodi problematici che interpellano, individuare alcune risorse e proporre qualche prospettiva che ci provochi ad essere più coraggiosi e coerenti testimoni ed evangelizzatori.

 

Scandisco la riflessione in tre momenti.

Nel primo considero il tempo nel suo significato antropologico – come una presa di coscienza del giorno dell’uomo –, indicando alcuni tratti di come le nuove generazioni lo percepiscono. Una privilegiata attenzione va al giorno festivo, alla domenica.

Nel secondo momento riporto alcune provocazioni alla domenica, provenienti al contesto attuale, non ultima la tendenza a cancellarla con la dilatazione dei tempi di lavoro, un aspetto che colpisce in particolare il mondo giovanile.

Nel terzo momento qualche considerazione sulla domenica, quale giorno del Signore, ossia tempo del suo venire a noi, della sua chiamata, e il senso salvifico universalistico di questa venuta. È la pienezza del tempo. È quanto già dagli anni ’80 la CEI ha sottolineato, quanto con acute considerazioni è espresso negli Orientamenti Pastorali, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, quanto si ritrova abbondantemente esplicitato in molti siti internet cattolici, dando contenuto teologico e pastorale all’espressione dei martiri di Abitine Sine dominico non possumus.

 

Il mistero del tempo

L’avere o non avere tempo

Vorrei iniziare con una simpatica preghiera un po’ provocatoria che ci fa misurare la nostra distanza dai santi. Penso, ad esempio, a don Bosco, un grande lavoratore che ha voluto i salesiani in maniche di camicia, ossia lavoratori.

Egli ha avuto tanto tempo da dedicare agli altri, tanto lavoro, fino a legare il giorno alla notte e la notte al giorno, ed era sempre tranquillo, anche quando, per ascoltare qualche suo ragazzo, perdeva il treno. Ed era proverbiale pure il suo ringraziamento dopo la S. Messa, in sacrestia. Ed è nota la prassi pastorale eucaristica sua in un tempo di giansenismo. Egli ha condotto i ragazzi alla santità fondando la sua missione educativa sull’Eucaristia e sulla Confessione, su due colonne o due presenze. L’Eucaristia e la Madonna. Penso a Domenico Savio e alla sua estasi, ma anche all’offerta della sua vita per la conversione dei peccatori, alla sua letizia e irradiazione di gioia tra i compagni.

Durante l’estate nello studiare per capire il senso del tempo, con la pretesa di capire il tempo dei giovani, come se io fossi ben consapevole del suo significato, sono andata in crisi, ossia sono uscita dall’ovvietà. Mi sono ritrovata in tanti rilievi fatti sul mondo giovanile e sul loro analfabetismo religioso. Così, mentre leggevo e prendevo appunti per loro, annotavo per me.

Sovente diciamo che i ragazzi di oggi sono nel ‘non tempo’ e nel ‘non spazio’, hanno relazioni virtuali… Ma ciò che diciamo in maniera semplificatoria nei loro confronti ci definisce, dice chi siamo noi adulti.

Una prima acquisizione è pertanto di non stare davanti o di fronte ai nostri ragazzi, ma con. Non semplicemente lavorare, o studiare, o pregare… ‘per’, ma lavorare, studiare, pregare, soffrire con.

I loro limiti sono lo specchio di noi adulti, sono una possibilità per vedere dove vanno a finire le nostre scelte, le nostre organizzazioni sociali e istituzionali del tempo, le nostre conflittualità, le nostre latitanze nel mondo dei valori, il nostro individualismo, quindi la nostra incapacità di coniugare nostro tempo e tempo sociale, anche quando parliamo e operiamo il bene con poca attenzione al bene comune, all’universalità, alla comunità.

Sovente, di fronte a qualche fatto raccapricciante di qualche giovane ‘per bene’ ci domandiamo, come si è espresso il prof. Andreoli: “Chi sono questi nostri figli nel deserto delle nostre famiglie?”.

Questo deserto è una provocazione per me, perché l’essere religiosa non mi assicura, mi interpella nell’impegno di fare la mia parte nel tessere l’ambiente educativo, perché non sia deserto. Come?

Il criterio che mi ritorna sovente in mente è che il discernimento non si opera, delimitando uno spazio o un tempo a parte, ma facendo il nostro dovere.

È lì, in quello spazio tempo che viene il Signore a giudicare la nostra storia, a salvarla, portarla verso orizzonti inattesi. E la vocazione è proprio entrare in questi orizzonti incredibili di Dio.

È stato così per Maria di Nazaret, a differenza di Zaccaria, così per Giuseppe, per i pastori, per i magi… così per i discepoli… e sarà così fino alla fine, perché il Signore non si sovrappone alla nostra storia, al nostro tempo, ma lo qualifica.

In passato, in varie occasioni, ho considerato e parlato del tempo. Heschel direbbe che avevo ancora una mentalità spaziale di esso! Ora non credo di aver capito. Penso che la domanda sul senso del tempo mi accompagnerà come una chiamata all’ordine: consentire costantemente al Signore di coniugare la mia esistenza con la sua, con la sua storia singolare e unica, valorizzando la vita sacramentale.

Offro alcune considerazioni dal punto di vista della speranza, cioè scorgere nell’ambivalenza (le due facce con cui ogni dimensione umana si presenta) del mondo il kairos e chiedermi: “Quale grazia Dio ci vuole concedere in questo momento storico? Quali nuove opportunità per portare la sua Parola? Quali Res novae vuole realizzare? 

 

Signore non ho tempo

Sono uscito, o Signore. Fuori la gente usciva. Andavano. Venivano. Camminavano. Correvano. Correvano le bici. Correvano le macchine. Correvano i camion. Correva la strada. Correva la città. Correvano tutti. Correvano per non perdere tempo. Correvano dietro al tempo, per riprendere il tempo, per guadagnare tempo. Arrivederci, signore, scusi, non ho il tempo. Ripasserò, non posso attendere, non ho il tempo.Termino questa lettera, perché non ho il tempo.

Avrei voluto aiutarla, ma non ho il tempo. Non posso accettare, per mancanza di tempo. Non posso riflettere, leggere, sono sovraccarico, non ho il tempo. Vorrei pregare, ma non ho il tempo. Tu comprendi, o Signore, non hanno il tempo. Il bambino gioca, non ha tempo subito… più tardi… Lo scolaro deve fare i compiti, non ha tempo… più tardi… Il liceale ha i suoi corsi e tanto lavoro, non ha tempo, più tardi… Il giovane fa dello sport, non ha tempo… più tardi… Lo sposo novello ha la casa, deve arredarla, non ha tempo… più tardi… Il padre di famiglia ha i bambini, non ha tempo… più tardi… I nonni hanno i nipotini, non hanno tempo… più tardi… Sono moribondi, non hanno… Troppo tardi!… non hanno più tempo!… Così gli uomini corrono tutti dietro al tempo, o Signore. Passano sulla terra correndo, frettolosi precipitosi, sovraccarichi, impetuosi, avventati. E non arrivano mai a tutto, manca loro tempo.

Nonostante ogni sforzo, manca loro tempo. Anzi manca loro molto tempo. Signore, Tu hai dovuto fare un errore di calcolo. V’è un errore generale: le ore son troppo brevi, i giorni son troppo brevi, le vite son troppo brevi. Tu, che sei fuori del tempo, sorridi, o Signore, nel vederci lottare con esso. E Tu sai quello che fai. Tu non Ti sbagli quando distribuisci il tempo agli uomini, Tu doni a ciascuno il tempo di fare quello che Tu vuoi che egli faccia. Ma non bisogna perdere tempo, sprecare tempo, ammazzare il tempo. Perché il tempo è un regalo che

Tu ci fai. Ma un regalo deteriorabile, un regalo che non si conserva. Signore, ho tempo. Ho tutto il tempo mio. Tutto il tempo che Tu mi dai. Gli anni della mia vita, le giornate dei miei anni, le ore delle mie giornate. A me spetta riempirli, serenamente, con calma. Ma riempirli tutti, fino all’orlo. Per offrirteli, in modo che della loro acqua insipida Tu faccia un vino generoso, come facesti un tempo a Cana per le nozze umane. Non Ti chiedo questa sera, o Signore, il tempo di fare questo e poi ancora quello. Ti chiedo la grazia di fare coscienziosamente, nel tempo che Tu mi dai, quello che Tu vuoi ch’io faccia.

Dalla letteratura sapienziale, dal Qohelet, abbiamo una lezione umana che deve aprirsi al timor di Dio: c’è tempo per tutto (Qo 3,1-22)

 

Ogni cosa ha il suo tempo

1Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. 2C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. 3Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. 4Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare. 5Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. 6Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via. 7Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. 8Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace.

Siamo nelle mani di Dio

9Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica? 10Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini, perché si occupino in essa. 11Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine. 12Ho concluso che non c’è nulla di meglio per essi, che godere e agire bene nella loro vita; 13ma che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro è un dono di Dio. 14Riconosco che qualunque cosa Dio fa è immutabile; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché si abbia timore di lui. 15Ciò che è, già è stato; ciò che sarà, già è; Dio ricerca ciò che è già passato.

Disordini

16Ma ho anche notato che sotto il sole al posto del diritto c’è l’iniquità e al posto della giustizia c’è l’empietà. 17Ho pensato: Dio giudicherà il giusto e l’empio, perché c’è un tempo per ogni cosa e per ogni azione.

Sorte dell’uomo

18Poi riguardo ai figli dell’uomo mi son detto: Dio vuol provarli e mostrare che essi di per sé sono come bestie. 19Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. Non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità. 20Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere. 21Chi sa se il soffio vitale dell’uomo salga in alto e se quello della bestia scenda in basso nella terra? 22Mi sono accorto che nulla c’è di meglio per l’uomo che godere delle sue opere, perché questa è la sua sorte. Chi potrà infatti condurlo a vedere ciò che avverrà dopo di lui?

 

Il tuo papà Dio

Quale Padre misericordioso il Signore ci rivolge una preghiera per farci tornare a saggezza.

Quando ti sei svegliato questa mattina ti ho osservato e ho sperato che tu mi rivolgessi la parola anche solo poche parole, chiedendo la mia opinione o ringraziandomi per qualcosa di buono che era accaduto ieri. Però ho notato che eri molto occupato a cercare il vestito giusto da metterti per andare a lavorare. Ho continuato ad aspettare ancora mentre correvi per la casa per vestirti e sistemarti e io sapevo che avresti avuto del tempo anche solo per fermarti qualche minuto e dirmi: “Ciao”. Però eri troppo occupato. Per questo ho acceso il cielo per te, l’ho riempito di colori e di dolci canti di uccelli per vedere se così mi ascoltavi però nemmeno di questo ti sei reso conto.

Ti ho osservato mentre ti dirigevi al lavoro e ti ho aspettato pazientemente tutto il giorno. Con tutte le cose che avevi da fare, suppongo che tu sia stato troppo occupato per dirmi qualcosa.

Al tuo rientro ho visto la tua stanchezza e ho pensato di farti bagnare un po’ perché l’acqua si portasse via il tuo stress. Pensavo di farti un piacere perché così tu avresti pensato a me ma ti sei infuriato e hai offeso il mio nome, io desideravo tanto che tu mi parlassi, c’era ancora tanto tempo. Dopo hai acceso il televisore, io ho aspettato pazientemente, mentre guardavi la tv, hai cenato, però ti sei dimenticato nuovamente di parlare con me, non mi hai rivolto la parola. Ho notato che eri stanco e ho compreso il tuo desiderio di silenzio e così ho oscurato lo splendore del cielo, ho acceso una candela, in verità era bellissimo, ma tu non eri interessato a vederlo. Al momento di dormire credo che fossi distrutto. Dopo aver dato la buona notte alla famiglia sei caduto sul letto e quasi immediatamente ti sei addormentato. Ho accompagnato il tuo sogno con una musica, i miei animali notturni si sono illuminati, ma non importa, perché forse nemmeno ti rendi conto che io sono sempre lì per te. Ho più pazienza di quanto immagini. Mi piacerebbe pure insegnarti ad avere pazienza con gli altri, TI AMO tanto che aspetto tutti i giorni una preghiera, il paesaggio che faccio è solo per te. Bene, ti stai svegliando di nuovo e ancora una volta io sono qui e aspetto senza niente altro che il mio amore per te, sperando che oggi tu possa dedicarmi un po’ di tempo. Buona Giornata. Tuo papà DIO.

 

Il senso del tempo e la sua organizzazione

Agostino nelle Confessioni si chiede: «Che cos’è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so: eppure posso affermare con sicurezza di sapere che se nulla passasse, non esisterebbe un passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro; se nulla esistesse, non vi sarebbe presente»[3].

La domanda attraversa la storia. La si ritrova in tutte le culture nei molteplici tentativi di organizzare la vita personale e sociale nello scorrere delle generazioni. Il tempo racchiude una carica simbolica che esige di essere continuamente esplorata. È senza dubbio una dimensione fondamentale della persona umana, radicata nell’esperienza del cambiamento, percepito nella duplice direzione del succedersi e della durata, del mutamento e dell’identità.

Tale esperienza si fonda su condizioni intrinseche, quali i ritmi biologici, e estrinseche, quali i ritmi cosmici e i ritmi escogitati dalla società nel suo organizzarsi periodizzando il tempo. La persona valorizza i cambiamenti periodici come punti di riferimento per misurare il tempo (ad esempio il ciclo giorno/notte, il ciclo delle stagioni, le fasi lunari, i tempi commemorativi di qualche grande antefatto, le feste, ecc.) ed orientarsi nel grande processo di variazione.

In tal modo, attraverso la ripetizioni di cicli di attività, fa sì che segni attuali possano riferirsi ad azioni future, così distingue il passato, il presente e il futuro. Vive il presente nella memoria del già avvenuto e nella speranza di ciò che accadrà: lo schema del memoriale biblico ha agganci profondamente umani[4].

La persona umana abita il tempo ed è abitata dal tempo, si percepisce ed esperisce la propria vita e l’intera realtà come processo biologico, come divenire incessante, come nascita, crescita, morte. Ogni anno la terra va coltivata: arare, seminare, raccogliere. Ma, a differenza delle piante e degli animali, ella ha consapevolezza di essere assoggettata alla legge del tempo e riflessivamente cerca di cogliere o di dare un senso a tutto ciò che nasce, si sviluppa e muore. Il tempo, quindi, perde la mera connotazione di accidentalità cronologica e si fa valore qualitativo, esperienza vissuta, destino irriducibile, progetto di speranza, in una parola autobiografia. Ma in questo processo di umanizzazione fa i conti con anche il tempo cronologico, atmosferico, non solo con quello personale e sociale.

Nella nostra vita facciamo continuamente riferimento al tempo cronologico e atmosferico, due costanti parametri entro i quali svolgiamo le nostre attività, perché ogni cosa ha il suo tempo, necessita di un certo tempo ed è favorita o ostacolata dalle condizioni del tempo.Ad esempio, una bella o brutta giornata ha effetti diversi sulla nostra vita.

La prima infonde energie, allegria, ottimismo, predispone agli incontri. La seconda deprime, rattrista, rende pessimisti e ci porta ad isolarci. Lo stesso carattere dei popoli a volte è connotato dal tempo atmosferico. Solari o socievoli le popolazioni ove le giornate serene prevalgono su quelle nuvolose e fredde. Freddi e distaccati quelli dove i giorni nuvolosi e piovosi superano quelli in cui splende il sole.

Il tempo climatico determina nell’uomo anche una diversa percezione del kronos, del tempo cronologico. Così le giornate primaverili danno l’impressione di avere più tempo di quelle autunnali. E diventano metafora della vita. I giovani sentono di avere più tempo degli adulti i quali appunto, con la percezione di averne di meno, dovrebbero valorizzarlo di più, sapendo che certe occasioni non ritornano.

C’è un tempo per tutte le cose, per progettare, per costruire, per realizzare. La clessidra, il primo importante segnatempo, con la caduta lenta e costante dei piccoli granelli di sabbia ci ricorda questo divenire.

 

Giovani e tempo: alcune coordinate che ci interpellano

Il mistero del tempo, la sua codificazione con orologio, il rapporto tempo e persona umana nella società complessa, la spazializzazione del tempo e la sua codificazione; in particolare il rapporto del mondo giovanile con il tempo nelle sue svariate articolazioni, soprattutto in rapporto alla domenica[5] sono aspetti tematizzati in varie ricerche, non ultima in quella del CENSIS pubblicata il 18 novembre 2004. Riprendo queste ricerche segnalando alcune coordinate che ci provocano più profondamente come adulti accanto alle nuove generazioni. Forse possono essere utili per una progettualità educativa della domenica, come servizio alla crescita anche umana, quindi come possibilità di promuovere identità consistenti e un tessuto sociale solido e sano.

Valorizzo alcune considerazioni generali sul modo di percepire e gestire il tempo personale in quello collettivo, sociale e istituzionale, nel passaggio dalla nozione di tempo storico alla determinazione delle generazioni, quindi al passaggio da una generazione all’altra, un elemento molto significativo, in quanto, in una società in cambiamento, nei giovani esso non avviene automaticamente[6].

Infatti il mutamento attuale differisce da quello delle epoche precedenti, perché imprevedibile, privo di intenzionalità, di un progetto collettivo, è piuttosto un intreccio di dinamiche scientifiche, tecnologiche, politiche che sfuggono alla collettività. Non essendo intenzionale, non essendo legato a mete e obiettivi unificanti condivisi, non alimenta la tensione verso il futuro, non genera speranza. Di qui la crisi del mito del cambiamento come apportatore di progresso tecnico e anche civile e morale.

Se il mondo adulto non ha mete, le nuove generazioni faticano a farsi delle prospettive. Non hanno accanto la generazione immediatamente precedente. Quindi sono sole e di fronte al presentimento della precarietà di tutto ripiegano nel presente. Incontrano molte difficoltà nel rapportare tempo sociale e tempo individuale, tempo naturale e tempo sociale, perché ognuno nel collocare la propria esistenza sociale nella propria agenda individuale deve sviluppare le proprie regole e i propri criteri. E questo esige una serie di capacità nel gestire il tempo.

Una prima capacità sta nel trasformare la quantità in qualità, quindi tradurre il tempo dato in tempo vissuto con intensità. La distrazione è un segnale che indica come il soggetto sia distolto da quello che fa, catturato nella sua attenzione da eventi esterni o interni che si sovrappongono. Se questi si moltiplicano rischiano di frammentare l’esistenza, di banalizzare i fatti, di svuotare il tempo.

Un’altra capacità sta nell’abilità a passare da un tempo all’altro, da un’attività all’altra, conservando la propria identità, senza rigidità e senza confusione, dentro un progetto di vita consistente. Se nel presente i vari tempi si accavallano, complicandosi in una complessità addensata, se non si ordina l’esperienza in una successione temporale in cui si distinguono e si raccordano i vari elementi, tale capacità risulta compromessa.

La terza capacità sta nella determinazione delle priorità tra le molteplici richieste temporali. Vi sono tempi vincolati, in cui il soggetto è obbligato, e tempi dilazionabili, in cui il soggetto può decidere secondo priorità.

La dimensione teleologica, quindi l’elaborazione di un progetto a lunga scadenza che fa differire una gratificazione in vista di mete desiderate, è fondamentale per vivere il tempo e non svuotarlo, lasciandosi vivere. La progettualità, infatti, è uno dei modi fondamentali della persona di rapportarsi al tempo. La qualità di esso indica il grado di apertura o di chiusura degli orizzonti temporali.

Il soggetto che elabora un progetto significativo a livello personale è aperto all’imprevisto, non si chiude di fronte al nuovo, si ridefinisce, senza perdersi, gestendo i tempi diversi e passando da un tempo all’altro secondo criteri di priorità, secondo finalità, costruendo strategie di azione ad hoc. In questa direzione il tempo sociale, per quanto vincolante e costrittivo, non gli appare come un grande orologio di cui è un ingranaggio, ma come lo spazio di esistenza nel quale costruisce la propria soggettività.

La ricerca, per verificare la dinamica di queste capacità, offre tre coordinate: la rappresentazione della storia come il luogo dei grandi antecedenti che motivano il presente e spingono verso il futuro, antecedenti condivisi, quindi socialmente visibili, come un nucleo di valori ai quali vale la pena dedicarsi; il quotidiano come il contesto concreto in cui i grandi antecedenti prendono carne e danno orientamento significativo alla vita e, quindi, alimentano la progettualità; il tempo diverso, la domenica, la festa, il tempo libero, che dovrebbero rappresentare sinteticamente una differenza che dà senso, qualità al quotidiano.

La ricerca fa intravedere un mondo giovanile abbastanza variegato.

La rappresentazione del tempo della storia indica la capacità del soggetto di collocare la propria vicenda in una dimensione più vasta, che la precede e la supera; alimenta la consapevolezza di appartenere a un mondo che storicamente lo precede e oltrepassa i confini della propria esistenza.

È il senso della storia. Non tutti lo posseggono o lo posseggono ugualmente. Il tempo biografico è il tempo della propria esistenza fatto di un passato, di cui si conserva una memoria, di un presente, nel quale ci si riconosce, e di un futuro, fatto di attese, progetti, speranze e timori.

Il modo in cui si raccordano memoria di ciò che si è, coscienza di ciò che si è ora, attesa di ciò che si vuol divenire, struttura l’identità. Il nesso che collega passato, presente e futuro biografico può essere più o meno forte, ma può essere ordinato anch’esso, come il tempo della storia, lungo un continuum.

Il tempo quotidiano comprende i vari segmenti nei quali si distribuisce il proprio agire o non agire lungo la giornata. Può essere più o meno programmato e ottimizzato. Può comprendere tempi morti, sovrapposizioni, intrecci, alternanza di segmenti e piani temporali diversi. Può avere scansioni nette, separazione e isolamento di porzioni temporali e di attività. Rispetto a questo complesso processo organizzativo della vita nella storia i giovani assumono vari comportamenti.

Vi è chi percorre sicuro un tragitto attraverso la scuola, la professione, come un tragitto predisposto con mete e aspirazioni. Chi accumula tentativi ed errori nello sforzo di districarsi nel labirinto di una realtà troppo intricata per lui. Chi prende le proprie distanze dal tempo sociale per poter meglio esplorare il campo delle opzioni possibili e porre condizioni che garantiscano l’integrità del proprio individuale, del proprio progetto. Chi staziona in una dimensione senza tempo, aspettando che gli eventi scelgano per lui qualche esito possibile.

Una parte di giovani presenta pure una sindrome di destrutturazione temporale, che traspare dall’assenza o frammentazione della memoria storica, dalla labilità dell’orizzonte temporale dei progetti personali, dall’assenza di criteri relativamente persistenti nel gestire il tempo quotidiano.

Il senso di appartenenza e la famiglia favoriscono la strutturazione del tempo, come nelle difficoltà l’assenza o l’appartenenza sporadica aprono il varco alla destrutturazione temporale.

Mi sembra importante riportare alcuni elementi relativi alla rappresentazione della storia, al quotidiano e al tempo diverso, perché possono segnalare alcuni bisogni formativi ed educativi e spingerci alla ricerca di prospettive più pertinenti al vissuto dei giovani.

Circa la rappresentazione del tempo della storia emerge una povertà di significati e di valori.

A gran parte dei giovani appare più come archivio che come maestra, per una molteplicità di fattori.

Nel tempo sociale la storia è sfocata, perché mancano grandi progetti condivisi e la quantità degli avvenimenti ne oscura il senso. L’accelerazione del cambiamento non si accompagna ad alcun significato assiologico e non viene vissuto come progresso. La rapidità con cui stili e modelli di vita si abbandonano, senza lasciare tracce, genera superficialità e povertà psicologica, mentale, spirituale.

La storia tende a scomparire anche dalla vita pubblica, dalle attività economiche e politiche, enfatizzando lo sperimentabile emotivo, quindi una sorta di narcisismo collettivo. Di fatto il senso storico cresce in una collettività che condivide accadimenti storici di grande rilevanza (negativi o positivi), tra questi la storia della fede.

Alle domande su quale evento storico (anche della propria famiglia) abbia inciso sulla propria vita, quale fatto del passato lo appassioni in particolare, le risposte offerte dai giovani mettono a nudo una povertà di analisi e di immagini concrete nel rappresentarlo, una fragile e superficiale conoscenza dei fatti come svuotati di significato, una carente curiosità per il passato, anche familiare.

È chiamato in causa l’insegnamento scolastico, centrato in prevalenza sugli avvenimenti dai quali non si lascia intravedere il loro significato e il loro influsso sul futuro. I mezzi di comunicazione di massa non favoriscono l’approfondimento delle questioni con la ricerca delle cause e con i collegamenti con il passato e il futuro. Talvolta anche la famiglia appare senza radici.

Questi elementi non favoriscono nelle nuove generazioni il radicamento nella storia collettiva, piuttosto li lasciano come fruitore fuori di essa, senza un contesto, il legame con la società, con lo Stato, con il bene comune, con le genealogie umane del proprio Paese. Quindi non aiutano a superare atteggiamenti egocentrici. Questa mancanza di spessore fatto di passato, presente e futuro genera incertezza, dispersione di risorse personali, di tempo.

Nella maturazione di un giovane occorrono consolidate tradizioni condivise. Senza un solido riferimento al passato, alla memoria collettiva carica di significati simbolici, il futuro non si presenta come portatore di mete da raggiungere, ma va ad accrescere il peso del passato. Questo dà ragione della difficoltà dei giovani a progettare la vita.

Gli Orientamenti Pastorali insistono ed a ragione su questo punto. Parlano del servizio della gioia e della speranza per ogni uomo che la Chiesa svolge quale compito primario. Dire speranza significa annunciare la qualità del tempo proteso verso la definitività salvifica, quindi sottolineare che nulla è perduto di quanto è accaduto nella storia. L’escatologia non risucchia la consistenza del tempo. In questa direzione gli OP enunciano anche istanze e problematiche (n.2), in particolare il progressivo ridimensionamento, se non la scomparsa dell’orizzonte escatologico; la tentazione di dilatare il tempo presente a scapito della memoria, della tradizione, dei grandi antefatti carichi di senso, che danno spinta verso il futuro, che danno consistenza alla speranza. Il contenuto di questa memoria, che è sorgente di speranza, è la vicenda del Signore (cap. I), la memoria delle grandi opere del Signore. Su questo fondamento si radica la missione della Chiesa (cap. II).

L’Italia ha la fortuna di avere una storia della fede ricchissima, espressa in numerosissime opere d’arte, in una tradizione popolare fatta di sentenze e proverbi di profonda saggezza evangelica, una genealogia della fede fatta di testimoni il cui esempio oggi interpella ad una vita di alta spinta ideale, oltre il ripiegamento narcisistico. Proporre tale risorsa non solo all’interno della comunità cristiana, ma alla società civile è un servizio all’umanizzazione del Paese; è offrire alle nuove generazioni una opportunità singolare per crescere nella loro identità solida e vera. Infatti, un io senza radicamento storico, senza una memoria carica di senso, aperto in tutte le direzioni, è un io debolissimo, facilmente eterodiretto, non autonomo. Questi limiti sono anche di una società che nega le sue radici con il suo patrimonio culturale e spirituale.

La quotidianità è come lo strumento del tempo biografico, una opportunità di scandirlo secondo priorità che danno la qualità del tempo vissuto (lavoro, tempo domenicale e tempo libero). La sua qualità non è misurabile dal suo spessore cronologico, quanto dal modo di gestirlo.

Nei giovani si nota la difficoltà a orientarsi e coordinare tempi individuali personali e temporalità sociale, a saper differire una soddisfazione per la realizzazione di un progetto, a raccordare il proprio tempo con i molteplici tempi sociali riducendone lo scarto e riconoscendone la diversità insieme alla possibilità di farlo convergere nell’unità della propria esistenza. Il percorso verso questa integrazione presuppone la capacità di autoriconoscersi e la certezza di essere riconosciuto dagli altri, ed esige uno stabile senso dell’identità personale.

Nella cultura odierna in questa direzione si incontrano numerose e crescenti difficoltà dovute alla sempre maggiore disarticolazione dell’universo simbolico, alle molteplici possibilità, alla compresenza di una pluralità di principi organizzativi, e, per le giovani generazioni, agli ostacoli che si frappongono ad una soddisfacente collocazione nella struttura dei ruoli sociali adulti.

Nel quotidiano, gli ambiti di mediazione tra tempo personale e tempo sociale possono assottigliarsi ed impoverirsi, le temporalità dei diversi gruppi sociali possono ripiegarsi su se stesse, con crescenti difficoltà nell’assegnare un senso al tempo collettivo, di riconoscerlo come tempo comune. Specie per i giovani il quotidiano può trovare, nel tempo delle istituzioni, un riferimento soltanto parziale e sbiadito.

Può essere percepito come luogo privilegiato per molte possibilità di esperienze, con l’opportunità di scegliere di trasformare il contingente in reale o di considerare il reale in termini di pura contingenza. In questa direzione vi sono differenze tra chi gestisce il tempo secondo un progetto, chi sperimenta procrastinando le scelte senza impedirsi nessuna scelta possibile, chi sta ad attendere, ammazza il tempo.

La presenza di criteri definiti nel gestire il quotidiano fa emergere l’esigenza soggettiva di cercare raccordi stabili con il tempo delle istituzioni (la scuola, il lavoro) alla luce di un progetto esistenziale, finalizzato all’acquisizione dei ruoli adulti. Se la dimensione del consumo prevale su quella dell’investimento temporale, allora la pianificazione temporale appare superflua. La giornata potrà divenire un grande recipiente da riempire di volta in volta, a seconda delle occasioni, degli incontri, dell’estro del momento, oppure da lasciare in tutto o in parte vuoto. Si può invertire il ciclo giorno/notte, dato che per l’indomani non è prevista una tale programmazione temporale da esigere il differimento di una soddisfazione immediata, come lo stare in compagnia degli amici, discutere, scherzare, o semplicemente far passare il tempo.

Oggi il passato non prefigura più l’avvenire che, di conseguenza, è molto meno conosciuto anticipatamente rispetto a qualche tempo fa. I giovani oggi non hanno una via tracciata, una professione che li attenda, per cui la qualità dei tempi quotidiani risente di incertezza e di impreparazione nei confronti dell’avvenire. L’oscurità compatta e profonda che avvolge il tempo futuro si accompagna alla mancata capacità soggettiva di dominarla, di controllarla, sia pur parzialmente. 

All’appiattimento dell’orizzonte temporale fa riscontro un senso dell’identità tanto problematico da rendere ardua la possibilità di padroneggiare il quotidiano e assegnargli un valore. Vivere nel presente e per il presente più che una scelta è una strada obbligata. Giorni festivi e giorni feriali scorrono nella medesima, omogenea vacuità.

Di domenica, poiché non si lavora e non si studia, molti emergono nella visibilità sociale con l’impossibilità di ignorarli. Ciò può provocare in alcuni non solo fastidio, ma una violenta oppressione psicologica. Essi cercano un rifugio nel tempo notturno come antitetico all’ordine socio-temporale dominante, pertanto desiderato e interessante, non per la sua qualità, né per gli incontri o per ciò che si fa. È un tempo vuoto.

L’incapacità tanto di strutturarlo quanto di modificarne in prospettiva la qualità, mentre appiattisce l’orizzonte temporale, preclude anche la possibilità di considerare il presente come un tempo ricco di opportunità da vivere intensamente, con un’attitudine interiormente positiva. Il presente è semplicemente contrapposto, senza differenziazione, al ‘non ora’, accomunati da un’omogenea mancanza di qualità.

È grazie alla facoltà intellettuale di deduzione causale che il tempo può essere considerato una totalità funzionale e dinamica, come la relazione che intercorre tra il soggetto che agisce ed il fine verso cui l’azione è diretta.

La presentificazione, invece, rivela l’assenza di dimensioni temporali che indichino il nesso di causa/effetto. Manca la finalizzazione del tempo e, quindi, della possibilità di elaborare e attuare un progetto. Un eccesso di destrutturazione temporale indebolisce talmente l’identità da diventare facile preda di dominio e di assoggettamento. Sulla stessa strada può condurre un eccesso di strutturazione, perché priva l’esistenza di un presente effettivo.

Il quotidiano è terreno privilegiato per sperimentare un nuovo modo di vivere il presente, non luogo della routine e dell’alienazione ma, piuttosto, ambito prioritario della ricerca di senso, di cogliere le opportunità che offre il presente e trasformare l’incertezza in una scelta di libertà. Esso, quindi, risulta una risorsa preziosa proprio in ragione delle possibilità, non necessariamente per il progetto di vita. L’importante sta nella vita di relazione, negli incontri, nell’avventura, nella sperimentazione di modi di essere forti, intensi. La posta in gioco è riuscire a vivere il tempo senza precludersi alcuna esperienza e, insieme, senza spaventarsi di fronte alla discontinuità qualitativa che può caratterizzarlo. Incertezze, temporanee depressioni o semplici cali di tensione sono ritenuti il prezzo da pagare per non chiudere la propria identità in un preciso ruolo sociale, impegnandosi in una posizione esistenziale che precluderebbe ulteriori sperimentazioni. Dietro la rivalutazione del presente si nasconde, dunque, il tentativo di mantenere fluida la definizione dell’identità, di prendersi il tempo per decidere quale itinerario seguire, senza imporsi, nell’immediato, uno specifico principio unitario come guida della propria condotta.

La presenza di consistenti investimenti progettuali determina un forte livello di programmazione anticipata e la persistenza di criteri nell’organizzare il tempo al quale si attribuisce elevato valore.

Il tempo quotidiano consente di riconnettere ogni nuova esperienza all’interno della trama biografica, di arricchirla, riconfermandone l’orientamento progettuale. Il tempo individuale si armonizza con il tempo sociale. La quotidianità può diventare un’esperienza entusiasmante perché, dietro l’apparente ripetitività delle giornate, è offerta la possibilità della propria autorealizzazione, di costruire il futuro, di arricchire e di vivere senza angoscia il presente. L’ampia gamma delle possibilità offerte viene selezionata e le possibilità selezionate costituiscono l’intelaiatura attorno alla quale prende corpo il percorso biografico.

La capacità di rintracciare il filo che lega le esperienze del presente a quelle del passato e di guardare al futuro con speranza, si lega alla consapevolezza della propria unicità. La definizione dell’identità è dunque strettamente connessa a quella del progetto: sono quello che sarò grazie al futuro che sto costruendo.

La destrutturazione incide sull’autorealizzazione e sull’etero-destrutturazione.

Nell’autorealizzazione il soggetto ‘usa’ sociale in quello individuale per scavarsi delle nicchie che garantiscano materialmente la possibilità di mantenere fluida l’identità, lasciando al proprio futuro la massima apertura. Deliberatamente sceglie di non scegliere.

Nell’etero-destrutturazione, invece, il soggetto percepisce e vive la giornata come tempo vuoto di significato, angoscioso, come una sequenza puntiforme di istanti interscambiabili. Raramente riesce a dargli un’impronta personale e se anche, eccezionalmente, gli si presentano condizioni favorevoli, non sa dare che un’impronta passeggera, destinata a svanire con lo scorrere del tempo. Non arriva nemmeno a porsi il problema di come usare bene il tempo. Sua vera urgenza è ammazzarlo. Così al quotidiano, luogo del vuoto e della noia e non del senso, non dà alcun valore. Vive il tempo individuale come del tutto slegato da quello sociale, ne subisce l’oppressione. Percepisce le opportunità, ma contemporaneamente, le vede al di là delle proprie capacità di controllo. Il suo orizzonte futuro ha un’apertura che non deriva da una scelta consapevole, quindi non è valorizzata come possibilità per la propria realizzazione. Il senso dell’identità è precario; mostra una insicurezza ontologica. Né il presente, né il futuro gli offrono appigli per costruire un’immagine di sé sufficientemente soddisfacente, tale da saturare i dubbi e le incertezze interiori sulla questione: chi sono?

Come si nota la percezione e la valorizzazione del tempo implica la capacità di alimentare una ricerca di senso della vita tale da reggere nel divenire. La festa, la domenica, è la grande opportunità per riqualificare l’esistenza coltivando alte spinte ideali.

Per noi educatori è un appello: non possiamo lasciare i giovani in questo magna, dobbiamo aiutarli con la proposta di valori consistenti, con la proposta di spiritualità, con il messaggio di Gesù, con la sottolineatura del significato della domenica quale giorno del Signore, giorno di salvezza, sole che illumina il resto della settimana. Questo giorno celebrato assume una peculiare forza umanizzante anche per la società civile, per la sua consistenza, perché risulta una opportunità per uscire dal qualunquismo esistenziale. La domenica, quindi, ha senso. Ma essa è provocata dal tempo umano, anche dal tempo giovanile.

 

La domenica come tempo umano provocato

Il vissuto del tempo domenicale è un tempo sociale dalle caratteristiche particolari: tempo di libertà per quanti sono inseriti nel lavoro, tempo spesso coercitivo per chi, avendo scelto di rompere con il tempo delle istituzioni, lo subisce. La settimana, attraverso l’alternanza regolare dei ritmi di lavoro e di riposo, indispensabile tanto all’uomo quanto all’organizzazione della società, garantisce un equilibrato rapporto tra tempi individuali e tempi sociali.

È stato Costantino nel 321 a porre la coincidenza del giorno di riposo degli schiavi con la domenica, giorno di festa della comunità cristiana. Lungo i secoli, proprio per venire incontro ai servi e a quanti svolgevano lavori materiali con grande investimento di energie fisiche, si sono moltiplicate le feste infrasettimanali.

Ma soprattutto a partire dal secolo 17°, nella nascente società industriale, il numero eccessivo delle feste è visto come un problema per le esigenze di regolarità e continuità nel lavoro delle macchine. La questione è ritornata e ritorna con nuovi contenuti e con più ampie proporzioni.

Non va sottovalutata la tendenza a far prevalere il riposo sulla festa, perché ha dei riflessi sul senso della vita e sul rischio di alimentare atteggiamenti narcisistici. Infatti, il riposo si può realizzare da soli, senza la necessità di chiamare in causa motivi condivisi socialmente, e in qualunque modo, anche semplicemente dormendo, mentre la festa, per essere vissuta pienamente, presuppone uno stare insieme nella libertà per delle ragioni condivise, per delle finalità che oltrepassano gli interessi individuali, pertanto favorisce la solidità delle relazioni sociali.

Offro alcune considerazioni che vengono, oltre che dallo studio su Il tempo dei giovani, anche dalla ricerca del CENSIS e da un intervento del cardinal Giacomo Biffi. È possibile ricuperare questo materiale via internet.

 

La domenica degli italiani: i risultati dell’indagine

(Massafra, 18 novembre 2004)

La ricerca segnala quattro nuclei tematici: 1. Riposo, famiglia e relazioni nella domenica degli italiani; 2. L’appartenenza religiosa e la partecipazione alla Messa; 3. Domenica vissuta, domenica desiderata; 4. Il lavoro domenicale e la fruizione matura di consumo e televisione.

 

1. Riposo, famiglia e relazioni nella domenica degli italiani

Dall’indagine emerge che è la relazionalità il fulcro della domenica degli italiani, dagli adolescenti agli anziani, e nei diversi contesti geografici e sociali di vita. La famiglia, la casa, la televisione, i luoghi di acquisto e di consumo sono rivisitati a partire da questa dominante domanda di relazioni, che permea le scelte e i comportamenti degli individui. Anche la spiritualità nelle sue diverse forme, particolarmente importante per alcune fasce di cittadini (ad esempio, i cattolici praticanti), viene in prevalenza vissuta con i propri familiari o con altre persone.

Altro protagonista delle domeniche degli italiani è il riposo, tempo certamente dedicato a spezzare la spirale stressante del lavoro, ma che si può considerare, senza eccessive forzature, anche tempo di meditazione, opportunità per soffermarsi su aspetti di sé e della propria esistenza che, nel convulso succedersi della quotidianità, sono relegati al margine.

Invece, lo spazio dedicato complessivamente alla spiritualità (inclusa la partecipazione alla Messa) è meno rilevante di quello riservato ad altre attività e gli italiani non sentono il bisogno di ampliarlo. Più in generale, dai risultati dell’indagine è emersa una certa difficoltà della Chiesa a rispondere al bisogno crescente di relazionalità. Infatti, se la Messa è sempre stata anche un’opportunità di incontro, di relazioni, di scambio e, addirittura nei piccoli centri è stata a lungo la principale occasione di spazialità relazionale, allo stato attuale ci sono altri contesti e ambiti vitali che rispondono in modo più efficace alla voglia di prossimità relazionale.

Persino i nuovi templi del consumo sono frequentati non tanto perché esiste un virus consumista che attanaglia gli italiani, ma perché vengono trasformati in occasione di incontro. Anche la fruizione televisiva è strumentale alla relazionalità familiare e amicale, tanto più che nei confronti dei contenuti dei programmi domenicali gli italiani esprimono critiche radicali.

Negli stili di vita prevalenti degli italiani, quindi, la domenica è tempo di riposo, di meditazione e soprattutto di relazioni, ma quest’ultima priorità trova solo parzialmente risposta nella Messa o nelle pratiche di spiritualità proposte dalla Chiesa.

Dare forza alla dimensione comunitaria della Messa, dal contenuto alle modalità di fruizione, è pertanto un passaggio essenziale anche per potenziare la presenza nella società della Chiesa che, comunque, alla luce dei dati non va sottovalutata. Infatti, la religiosità è tutt’altro che espunta dal contesto sociale micro, in particolare dalle famiglie; non va, però, sottovalutato il rischio, forse ancora poco visibile, della sua marginalizzazione in favore di una relazionalità superficiale, fatta più di compresenza di persone che di scambio profondo, di reciproca crescita e maturazione.

La fatuità delle relazioni in un contesto di benessere che moltiplica le attività da fare in famiglia o con gli amici (dal guardare la televisione al nuovo turismo di prossimità) è, probabilmente, la forma più moderna e insinuante di despiritualizzazione.

Gli italiani non sono assolutamente schiavi del consumo e hanno un approccio distaccato e critico verso la televisione, ma il soffice e ovattato benessere delle domeniche familiari potrebbe alimentare una relazionalità lieve, poco coinvolgente, fatta di rimozioni; una relazionalità orizzontale, dove c’è poca voglia e stimolo per pensare e andare oltre la piacevole quotidianità.

Un’altra minaccia silenziosa, ma incombente, è legata all’estensione del tempo di lavoro che va tracimando oltre gli steccati tradizionali, occupando anche la domenica e piegandola alle esigenze produttive.

Sono i laureati, più coinvolti dai nuovi modelli produttivi legati alle tecnologie dell’informazione, a dedicare in misura maggiore la domenica al lavoro professionale, evidenziando il rischio che in un futuro non molto lontano la domenica come tempo di riposo, relazioni e meditazione possa essere fagocitata dalla logica della società perennemente produttiva.

 

2. L’appartenenza religiosa e la partecipazione alla Messa

Il 57,8% degli intervistati (59,5% tra i 16-17enni e 68,8% tra i residenti nel Sud-Isole) si è dichiarato cattolico praticante, il 28,7% cattolico non praticante, il 4,3% di altra religione e il 9,2% ateo o indifferente. Dei cattolici praticanti il 21,4% va a Messa settimanalmente, il 16,5% dichiara di essersi recato a Messa la domenica precedente l’intervista, il 16,8% vi si reca saltuariamente ed il 3,1% a Natale, Pasqua e in circostanze particolari. Il 62,6% di coloro che vanno dichiara di farlo perché è cattolico praticante, il 17% perché lo fa sentire in pace con se stesso; mentre tra gli adolescenti spicca il 18,3% che indica nella Messa una occasione per avere qualche minuto per riflettere (è l’8,5% la media totale del campione).

Sulle motivazioni della non partecipazione alla Messa, dai dati emerge che il 33,7% dichiara di annoiarsi, di non sentirsi coinvolto, il 19,8%, invece, non partecipa perché preferisce rimanere in casa a riposarsi, mentre circa l’11% nella Chiesa non sente spiritualità. Il non sentirsi coinvolti ha una relazione praticamente inversa con l’età degli intervistati e, infatti, è indicata come ragione della non frequenza della Messa dal 41,6% dei 16-17enni intervistati. Il 5% dice di non andare a Messa perché non gli piace il prete, di non stimarlo e di non vedere in lui un modello, mentre circa il 22% lo ritiene troppo preso dai suoi interessi e poco disponibile.

È la parrocchia il luogo preferito per andare a Messa, come afferma oltre il 76% degli italiani, percentuale che sale tra i 16-17enni all’80,2%. Va notato come la partecipazione alla Messa cali vistosamente quando le persone sono in viaggio o in vacanza, visto che il 51,4% non frequenta in tali occasioni; la percentuale è più elevata al Centro (53,6%) e, soprattutto al Sud-Isole (62,5%).

Se è vero che il 68,4% dichiara di essere informato sulla frequenza alla Messa di parenti, amici e colleghi, non va sottovalutata la percentuale del 31,6% che, invece, afferma di non parlare di queste cose. Il dato indica una sorta di pudore o di riservatezza che confina le scelte e i comportamenti religiosi nell’ambito delle questioni molto personali e intime, secondo l’ideologia illuminista è un fatto privato. Oltre il 43% degli intervistati al Centro esprime questa non conoscenza dei comportamenti altrui sulla partecipazione alla Messa. Per la maggioranza degli italiani la pratica della spiritualità è relazionale, visto che il 51,2% la fa con i familiari ed il 6,4% con altre persone, mentre il 42,4% da solo.

 

3. Domenica vissuta, domenica desiderata

Riposo o lavoro domestico al mattino, relazioni familiari nel pomeriggio, tanta televisione la sera: è questo il contenuto di un’ordinaria domenica degli italiani. Poco cambia tra inverno e estate (più turismo nelle mattine delle domeniche estive e più divertimento nelle sere); mentre sostanzialmente analoga è la domenica degli adolescenti, con il riposo al mattino, le relazioni familiari al pomeriggio, la televisione la sera e, d’estate, molto divertimento. Il riposo caratterizza le mattine domenicali, è certamente tempo per se stessi, utile per recuperare fisicamente e per spezzare il ritmo lavorativo o dello studio, ma anche per riflettere, meditare, andare con la mente a temi e argomenti che, di solito, rimangono ai margini.

Sarebbe un errore considerare il riposo come un sinonimo di ozio malsano o semplice recupero meccanico di energie, piuttosto è un’opportunità per ri/pensare e progettare, un’occasione che settimanalmente gli italiani si concedono per dare uno sguardo non frettoloso alla propria esistenza.

Non molto ampio è lo spazio riservato alla spiritualità che concerne il 27% degli italiani nelle mattine invernali e il 19,7% in quelle estive; più alto nell’inverno il richiamo alla spiritualità tra i cattolici praticanti (44,5%), i possessori di licenza elementare (43,9%), gli over65enni (39,4%), i residenti nel Sud-Isole (38,3%) e le donne (32,3%).

Con riferimento ad altre attività, va segnalato che la wellness e lo sport sono praticati da percentuali che oscillano tra il 7% dei pomeriggi domenicali invernali e oltre il 12% dei pomeriggi estivi; importanti anche i consumi culturali fuori casa che riguardano oltre il 23% degli italiani nelle sere estive della domenica, così la lettura e la riflessione rilevanti nelle sere delle domeniche invernali (13,6%), in particolare nel Nord-Est.

Quasi l’85% degli italiani si dichiara soddisfatto del modo in cui trascorre la domenica, con i 16-17enni (90,6%), i 18-29enni (90,1%) i residenti nel Nord-Est (89,5%) e quelli nel Nord-Ovest (85,8%) che risultano più soddisfatti della media.

Non è una forzatura constatare che, tra riposo e relazioni, gli italiani hanno la domenica che, in sostanza, vogliono, visto che sono residuali le percentuali degli insoddisfatti.

Con riferimento alle attività alle quali la domenica gli italiani vorrebbero dedicare più tempo, il 46,6% cita il turismo, il 27% il riposo, il 18,8% il divertimento ed il 18,6% i consumi culturali fuori casa (cinema, teatro, musica ecc.); solo il 3,3% vorrebbe dedicare più tempo alla spiritualità. Il turismo va considerato come un insieme composito di attività a volte molto diverse tra loro; quello che va crescendo è il turismo di prossimità, legato alle visite brevi (in giornata o al massimo un weekend) nei borghi, nelle città d’arte, nei territori dotati di risorse paesaggistiche o di beni culturali di particolare rilievo; è il 35,1% degli italiani a indicare, come spostamento preferito per la domenica, il visitare un luogo nuovo, percentuale che sale al 41,9% nel centro, al 39,5% tra i 30-44enni ed al 38,5% tra i 45-64enni.

In sostanza, va crescendo tra gli italiani la voglia di dedicare più tempo libero, compreso quello domenicale, ad un turismo di riscoperta del patrimonio di tradizioni e conoscenze localistiche. In questo senso, non va sottovalutato l’effetto positivo che può avere la conoscenza dello stretto intreccio che esiste tra storia e tradizione locale da un lato e religiosità dall’altro, espresso anche dai segni visibili (chiese, monasteri, edicole ecc.) impressi sul territorio o nel patrimonio urbano dei piccoli e grandi centri.

La religiosità permea la storia e il territorio italiano e la progressiva consapevolezza di questo aspetto è, soprattutto per gli adolescenti, un elemento di riflessione importante, sicuramente da stimolare. Tanto più che una netta maggioranza di persone (il 62,2%) lo effettua con la famiglia ed il 35% con altre persone; anche tra gli adolescenti prevale la dimensione relazionale del turismo, visto che il 46,2% lo pratica con familiari ed il 53,8% con amici.

In sostanza, il turismo localistico, di prossimità, è un modo per stare insieme, un’opportunità di nuova socializzazione, al quale i giovani appaiono particolarmente interessati; inoltre, vanno valorizzate le sue potenzialità positive di stimolo alla riflessione e alla conoscenza.

In generale, la domenica è per l’85% degli italiani il tempo della relazione in famiglia, e con parenti, amici e nei luoghi della socializzazione e, tale visione, è condivisa trasversalmente nel corpo sociale e nei diversi contesti territoriali.

Altre definizioni fatte proprie dagli italiani e che aiutano a interpretare il significato che concretamente attribuiscono alla domenica sono:

– per il 76,8% tempo pieno piuttosto che tempo vuoto;

– per il 50,7% tempo da consumare, piuttosto che da investire;

– per il 91% tempo della libere scelte, dell’autonomia, piuttosto che tempo costretto al consumo.

Diversi i significati assunti dagli adolescenti per i quali la domenica è sì tempo pieno, ma in misura inferiore rispetto agli adulti (per il 32% dei 16-17enni è tempo vuoto di contro al 23,2% degli italiani); è, poi, tempo da investire (60,6%) più che da consumare, e tempo votato alla libera scelta e alla relazione.

È pienamente comprensibile questo continuo ritorno al tema della relazionalità visto che, in fondo, anche la televisione che, pure è la grande protagonista delle domeniche in casa, è un’occasione per stare insieme con più del 69% degli italiani che la guarda con gli altri membri della famiglia o con gli amici.

Il luogo che per la maggioranza degli italiani meglio riflette l’atmosfera domenicale è la casa (tab. 20); quasi l’82% pranza in casa ed il 76,8% vi cena; quasi il 13% ed il 6,2%, invece, rispettivamente, pranza e cena presso parenti.

I luoghi della domenica sono, pertanto, in linea con la fruizione soffice, positiva del tempo, incentrata sulla relazionalità familiare, che spezza la velocità dei giorni lavorativi, consente di pensare a se stessi, praticare attività insolite e, soprattutto, recuperare una dimensione di utile e proficua lentezza in cui ritagliarsi opportunità per meditare.

Va tuttavia rilevato che la soddisfazione diffusa degli italiani per la domenica non lo rende il giorno più amato, visto che una netta maggioranza dichiara di preferire il sabato, in particolare tra gli adolescenti (83,6%) e i più giovani (75%).

 

4. Il lavoro domenicale e la fruizione matura di consumo e televisione

Di tanto in tanto si riaffaccia la spinta a omogeneizzare la domenica agli altri giorni della settimana, destituendola del suo particolare contenuto di giorno di festa dedicato al riposo, alla famiglia, alla spiritualità e alle attività non lavorative.

Le ragioni del superamento della domenica tradizionale alludono quasi sempre ad un mutamento cruciale degli stili di vita che, nei fatti, avrebbero superato la tradizionale scissione tra tempo di lavoro, concentrato nei giorni feriali, e tempo di riposo proprio della domenica e dei festivi.

I dati dell’indagine mostrano che questa motivazione è sostanzialmente infondata, che la specificità domenicale è ancora molto forte, sentita e vissuta dagli italiani. Certo è che dal mondo produttivo giungono spinte a superare la festività domenicale obbligando un numero sempre più alto di persone a lavorare nei giorni festivi, ad esempio nelle attività commerciali e nei servizi.

Ragioni di economicità (massimizzare l’uso delle strutture) unite alla voglia di offrire l’opportunità di praticare gli acquisti ai cittadini che durante la settimana lavorano, animano la richiesta di rendere la domenica giorno lavorativo.

Dai risultati dell’indagine emerge che, allo stato attuale, il lavoro professionale domenicale concerne il 31,3% degli italiani, di cui il 5,4% tutte le domeniche, il 13,8% qualche domenica al mese ed il 12,1% qualche domenica l’anno. È una minoranza importante per la quale lo steccato che tradizionalmente divide i festivi dai feriali durante le settimane è praticamente saltato, con tutte le implicazioni per l’organizzazione della vita familiare e anche per il proprio rapporto con il tempo libero.

Il lavoro domenicale ha una relazione diretta con il livello del titolo di studio, giacché è il 47,5% dei laureati a praticarlo (di cui il 6,4% tutte le domeniche) a testimonianza di modelli lavorativi e di gestione del tempo, probabilmente legati anche alla nuove tecnologie che rompono l’obbligo della vicinanza fisica, in cui la ripartizione tradizionale tra riposo e lavoro è sostanzialmente scardinata.

Da notare, poi, che sono i lavoratori della fascia più giovane, i 30-44enni (oltre il 42%) e i 18-29enni (40,5%), ad essere più coinvolti da questa ristrutturazione silenziosa, ma sostanziale, del tempo di lavoro.

Altro protagonista della domenica degli italiani, spesso demonizzato come vera droga, è il consumo; dai dati dell’indagine, invece, emerge che complessivamente il consumo venga vissuto dagli italiani con una certa maturità, lontano da forme di neoschiavitù consumeristica. Infatti, il 41,6% degli italiani ha dichiarato di non avere effettuato acquisti durante una domenica degli ultimi due anni, percentuale che sale ad oltre il 46% per i 45-64enni ed al 65,3% per gli over65enni. Il 33,3% che ha effettuato acquisti lo ha fatto nel comune in cui risiede ed il 25,1% in un comune diverso da quello di residenza; spicca l’attitudine prevalente degli adolescenti che, non solo hanno maggiormente effettuato acquisti domenicali negli ultimi due anni (73,8%), ma hanno avuto una più alta mobilità verso comuni diversi da quelli di residenza proprio per effettuare gli acquisti (37,2%).

Nel rapporto con il consumo, poi, prevale la dimensione relazionale visto che è un’attività che una grande maggioranza di intervistati pratica con la famiglia (52,9%) o con altre persone (19,7%). Per gli adolescenti gli acquisti sono un’attività da svolgere con gli amici, un modo per condividere il tempo domenicale (57,9%).

Relativamente ai consumi culturali (cinema, teatro ecc.), è il 37% degli italiani a praticarli con la famiglia ed il 59,8% con altre persone; percentuali che per gli adolescenti sono pari, rispettivamente, al 61,6% ed al 33,6%.

Il 53% degli italiani dichiara che non gli capita mai di spendere impulsivamente e il 55% non è d’accordo con l’idea che fare acquisti possa essere un modo per scaricare le proprie tensioni quotidiane.

Si spacca il campione relativamente al giudizio tra supermercati e negozi tradizionali, ma è importante sottolineare che il 39,6% afferma che il grande centro commerciale può essere talvolta un luogo di incontro, percentuale che sale al 51,8% nel Sud-Isole, al 64,3% tra i 16-17enni ed al 53% tra i 18-29enni.

Più che luogo di consumo, i centri commerciali sono ripensati e utilizzati come luoghi di socialità, in particolare dai più giovani e nei contesti che, con tutta probabilità, sono più carenti di luoghi di fruizione della relazionalità.

È da notare che il 38,5% degli italiani è favorevole all’apertura dei negozi poiché durante la settimana non ha il tempo per fare i propri acquisti, il 31,6% è in ogni caso contrario, mentre il 29,9% lo considera un modo divertente per trascorrere la domenica. In sostanza, prevale un approccio utilitarista, legato più all’impossibilità di fare shopping nel corso della settimana che ad una spinta consumeristica da estendere anche alla domenica.

L’altra grande protagonista delle domeniche degli italiani è, senza alcun dubbio, la televisione. Come rilevato, i programmi sono seguiti nelle famiglie o con parenti e amici, e non emergono significative differenze di età o di luogo di residenza o anche di ampiezza demografica del luogo di residenza.

Tuttavia, la tv non domina le menti degli italiani come molti sono semplicisticamente portati a credere. Il 53,7% degli intervistati ritiene che proponga una visione della domenica come tempo del divertimento, mentre poco più del 25% individua nella programmazione un’idea di tempo del riposo; molto più giù il riferimento alla domenica come tempo della famiglia o della riflessione.

Il giudizio sulla programmazione domenicale è molto critico, visto che oltre il 42% parla di superficialità, il 16,5% reputa i programmi divertenti, il 10,7% rilassanti e il 10,2% disimpegnati. È una tv frivola, forse volutamente leggera, ma guardata con relativa estraneità dagli italiani, che prendono le distanze, ne percepiscono la fatuità e, come tale, ne fanno una fruizione matura, distaccata, spesso come puro sottofondo ad altre attività e, soprattutto, alla relazionalità familiare e tra amici.

Mi sembra interessante riportare da Avvenire una interessante pagina di commento.

«Sia il giorno del Signore, non dello shopping»: Il vescovo Bregantini al convegno CEI su lavoro e consumi: “Sbagliato fare acquisti la domenica” (Massafra-Taranto) di Gianni Santamaria.

Una domenica vissuta in pienezza è più bella. Perciò, ha detto il vescovo di Locri-Gerace, Giancarlo Bregantini, chiudendo ieri il convegno CEI di Massafra “La domenica tra lavoro e consumi”, occorre gestire, non subire i cambiamenti, armonizzare lavoro e riposo. E in più il presidente della Commissione Episcopale per i Problemi Sociali e il Lavoro ha espresso delle riserve di carattere etico sul fatto che un cristiano tenga aperta un’attività commerciale di domenica. Il pastore ha proseguito, invitando i cristiani a «non fare la spesa di domenica e a scegliere possibilmente quei negozi che di domenica non aprono, nella logica del consumo critico». Ai politici è indirizzata la richiesta di valorizzare «fino in fondo» la legge 53 del 2000, ponendo «limiti precisi all’attuale tendenza alle deroghe». E, infine, senza chiudere gli occhi sui cambiamenti in corso va constatato che «le relazioni nate attorno ai centri commerciali sono in realtà illusorie e distorte, perché attivate e strumentalizzate per il consumo».

Infine l’invito a «valorizzare in pieno la celebrazione domenicale». Ieri a Massafra si sono tirate le somme di una tre giorni intensa. E lo si è fatto, dopo il saluto del Governatore della Puglia, Raffaele Fitto, cui il convegno ha portato la solidarietà nel giorno della tragedia di Foggia, mettendo al centro la «folla solitaria» che sciama nei centri commerciali nell’anonimato e nella estraneità. L’immagine è stata usata dal segretario confederale della CISL, Giorgio Santini.

Occorre, invece, «valorizzare la persona». È in gioco una nuova concezione del tempo, del lavoro, del consumo. In una parola della società del futuro. Vi si erano soffermati i partecipanti alla tavola rotonda conclusiva, moderati dal direttore dell’agenzia SIR, Paolo Bustaffa. Il rappresentante sindacale ha invitato a non arrendersi di fronte a cambiamenti vorticosi e invasivi, ma a cercare di stabilire delle «misure e delle priorità». Prima di tutte «una gestione del tempo, attenta alla persone». È un dato di fatto, comunque, che nella festa tante persone non trovino più stimoli di socializzazione, non solo in parrocchia neppure nell’agorà cittadina. Un problema che per Bustaffa investe appieno la politica e la «capacità di gestire una città». Non basta, infatti, condannare. Occorre offrire alternative di senso a chi – famiglie, ma anche anziani soli – passa una giornata tra le vetrine. In questo contesto i cristiani, ha detto il direttore dell’Ufficio CEI per la pastorale del tempo libero, turismo e sport, monsignor Carlo Mazza, devono fare uno sforzo di conversione culturale. Essere «lucidi nel discernere i tempi e le culture per capire cosa vogliono essere e testimoniare la domenica e negli altri giorni». In particolare il sacerdote ha richiamato l’attenzione sulla riscoperta della libertà soggettiva e sulla dimensione del corpo. Elementi che con sport e fitness caratterizzano il week-end e rischiano di oscurare «il valore cristiano della domenica».

 

 

Ma qual è il rapporto dei giovani con la domenica?

Nelle moderne società urbanizzate il riposo dal lavoro è stato progressivamente esteso anche al sabato, ma per la maggioranza del mondo adulto, stabilmente inserito nei ruoli produttivi, la domenica è per eccellenza un giorno diverso. Alla sospensione degli obblighi lavorativi si accompagna un clima sociale del tutto particolare. La percezione di questa differenza da parte dei giovani è molto varia.

Alcuni la considerano un giorno come gli alti, ma nelle loro risposte emerge un vuoto di senso, di ulteriorità, una sconcertante solitudine, e, contemporaneamente, una difficoltà e persino incapacità a organizzarlo. Dal loro vissuto non emergono significati nuovi, umanizzanti, per riqualificare quello o un altro giorno. Tuttavia sono pochissimi i giovani che si mostrano impermeabili alle particolari valenze sociali della domenica. Essa tende, infatti, a suscitare reazioni particolari: emotivamente assai forti in chi la vive negativamente come tempo spiacevole ed oneroso, sostanzialmente più equilibrate in chi ne riconosce in tutto o in parte la positività. Anche chi è legato in modo discontinuo alle scansioni del tempo istituzionale e non conosce una rigida demarcazione tra tempo del dovere e tempo del piacere difficilmente vive tale tempo senza lasciarsi coinvolgere. Fa eccezione un esiguo gruppo che non solo rifiuta a priori di considerare la domenica un giorno diverso, ma dichiara pure di non sperimentare alcuna concreta differenza tra il vissuto feriale e quello domenicale. È da rilevare che nessuno di questi ha rapporti di lavoro, né stabili, né episodici. La totale assenza di obblighi lavorativi sembra essere alla base di questa indifferenza.

Per alcuni, poi, la scadenza domenicale è vista come una regola imposta dalla società, valutata come significativa solo da chi vive il tempo della scuola o del lavoro come coercitivo. Per molti studenti il tempo trascorso all’interno dell’istituzione scolastica sembra essere oggetto di una sorta di totale rimozione.

L’avversione nei confronti della domenica si attenua nei soggetti che, pur riaffermando la sostanziale uguaglianza di tutti i giorni della settimana, sembrano più consapevoli del nesso esistente tra questa convinzione e la loro particolare condizione, implicitamente considerata privilegiata, di non lavoratori.

I giovani che hanno acquisito una autonoma strutturazione del tempo di vita sulla base di regole e modelli alternativi a quello dominante, vivono la loro impermeabilità e indifferenza alle scansioni del tempo sociale con un equilibrato e non coinvolgente rapporto con il tempo domenicale. Al fondo, dalle loro risposte, emerge quella tendenza ad allontanare una scelta progettuale di vita che abbia consistenza nel tempo.

La domenica come un giorno negativo emerge soprattutto lì dove esistono i problemi di senso socialmente condiviso, dove è latente l’enfatizzazione dell’io, la confusione di libertà e arbitrio dentro una società che collettivamente non vive valori che danno senso.

La maggior parte dei giovani che si collocano in questo gruppo hanno problemi relazionali che la domenica fa esplodere, creando occasioni di maggior scambio e circolazione di soggetti e in particolare i rapporti familiari. È il fantasma del tempo sociale.

In realtà la domenica non è socialmente un giorno come gli altri, anche se lo si desidera, quindi con essa questi giovani devono fare i conti. Il tempo istituzionale che, nei giorni infrasettimanali, è possibile, con un po’ di abilità, ignorare, qui ricompare prepotentemente e viene soggettivamente vissuta come minacciosa.

Ci si sente diversi, ma si è costretti in apparenza ad essere uguali alla moltitudine di coloro che, per scelta o per obbligo, vivono la domenica come isola di libertà. Non emerge da questi giovani una particolare capacità ad organizzarla, ma piuttosto come evasione, fuga nel come fanno gli altri, noia e solitudine.

L’accresciuta possibilità di scambi interpersonali che la domenica consente presenta aspetti positivi solo per chi, all’interno del nucleo familiare, non sperimenta rapporti di subordinazione. La domenica, dunque, sembra avere la capacità di evidenziare, e talvolta far esplodere, quelle contraddizioni che l’abituale organizzazione della quotidianità permette più o meno accuratamente di celare, offrendo meno opportunità di rapporti.

Per un altro gruppo di giovani la domenica rivela la coercizione rappresentata dai tempi dell’obbligo (di lavoro o di studio) e lo è proprio perché in essa quei tempi sono assenti. Il giorno festivo, lungi dal potere essere vissuto come spazio di libertà, diventa così l’emblema di un’organizzazione sociale nemica, le cui scansioni temporali, apparentemente rispettose dell’autonomia del singolo, suscitano una violenta avversione. Ma i soggetti non riescono a organizzare il proprio tempo in modo alternativo, per cui esso risulta tempo morto, vuoto di significati, del tutto sprecato.

C’è anche chi arriva a considerare spiacevole la domenica, perché non desidera la pausa che essa impone al consueto ed impegnato ritmo di vita. Ma prevalente è il numero di chi considera la domenica un giorno diverso e positivo.

I giovani, impegnati nel lavoro o nella scuola, valorizzano la libertà domenicale, in modo analogo a gran parte degli adulti, come pausa rigeneratrice, area di autonomia indispensabile per controbilanciare gli effettivi negativi, fisici e psicologici, della settimana lavorativa, come l’occasione di socialità, di scambi interpersonali, di rapporti umani. La vedono come tempo in cui è possibile concentrare l’attenzione su quelle sfere di vita – affettive o ludiche, culturali o religiose, politiche o sociali – abitualmente subordinate alla centralità dei tempi produttivi, modificando in modo consistente e positivo la qualità del proprio vissuto temporale.

Mario Pollo riprende questa ricerca e l’approfondisce proprio in relazione al rapporto tra giovani e domenica-festa[7]. Dallo studio emerge che il numero e i gruppi di giovani che danno un rilievo alla domenica è significativo, quindi è una grande opportunità per l’evangelizzazione.

Tutto questo evidenzia che, nonostante la secolarizzazione, in Italia resta la scansione del tempo con la domenica e le ricorrenze religiose importanti.

 

 

Riflessioni sul Giorno del Signore

Riporto, in alcuni punti sintetizzando, alcune annotazioni molto pertinenti ed acute del cardinal Giacomo Biffi.

 

Le perplessità di un Pastore

Le provocazioni fatte all’organizzazione della domenica e alla proposta ecclesiale sono raccolte in sei ‘denunce’ o ‘consigli’. 

La prima, fin dall’inizio della sua attività ministeriale: è scorretto insistere nell’esortare all’osservanza del «precetto festivo», perché è una visione «precettistica» della domenica, assolutamente da superare, in quanto il «giorno del Signore» è per essenza un giorno di gioia, e questa non può imporsi per legge; quindi meglio non parlare mai più di «precetto festivo». Il ragionamento sembrava avere il fascino dei pensieri intelligenti e la carica liberatrice dei pensieri nuovi. Restava da verificare se fosse anche un ragionamento capace di portare a messa qualche cristiano di più.

La seconda critica deriva proprio dall’aver imboccato questa strada pastorale, sottolineando tutta la bellezza della domenica come giorno della gioia con i suoi motivi teologici e teologali: perché il mondo è stato creato, perché è stato rinnovato dall’azione redentrice di Cristo, perché su questo giorno si riverbera la luce letificante del Risorto, perché anticipa, trascendendo la monotonia feriale della vicenda terrestre, la felicità del Regno dei cieli.

L’accusa era di avvalorare il gioco astuto dei borghesi, che alla religione chiedevano proprio di imbellettare con qualche rito ornamentale e consolatorio le loro ingiustizie e pacificare così le loro false coscienze.

Se, poi, in Chiesa più che i borghesi, c’erano lavoratori e lavoratrici, la cosa non era meno deplorevole, perché alienante, in quanto distoglieva gli uomini dai loro veri problemi e dalle loro povertà, cullandoli con i vagheggiamenti dell’al di là, facendo perdere al messaggio cristiano la sua originaria carica rivoluzionaria.

La strada da percorrere era l’opposta: scuotere il torpore dei praticanti con la prospettiva impietosa di tutte le iniquità della società in cui si vive e con la condanna delle strutture oppressive, facendo della domenica non il giorno della gioia, ma il giorno dell’accusa, della protesta, della coscientizzazione del proletariato (come si arrivava a dire, aggredendo con la mentalità «borghese» anche l’incolpevole lingua italiana).

Non ha seguito questa strada non per mancanza di coraggio, ma perché incompatibile con la prassi di Gesù che va a mensa con i peccatori e pubblicani e non ha mai raggelato un boccone ai suoi commensali né inacidito il vino bevuto in allegra compagnia, col richiamo (nel bel mezzo del pranzo) all’ingiustizia della società, alla miseria degli uomini, al problema della fame nel mondo, mali che gli erano noti e lo facevano soffrire. Se i pubblicani continuavano a invitarlo, è segno che non lo ritenevano un guastafeste.

Un’altra critica è avanzata, ed è nei confronti delle assemblee parrocchiali come non ecclesialmente genuine e credibili, perché composte di persone reciprocamente estranee e indifferenti, non convergenti in unità di pensieri, di pene, di speranze, abitudinarie e senz’anima. Non erano comunità.

Come si potevano qualificare come «credenti»? Potevano essere definiti al massimo «cristiani sociologici» con il rischio che egli diveniva «parroco sociologico» costituito in uno stato obiettivo di responsabilità morale o quanto meno di complicità; una complicità che, qualunque cosa facessi, non poteva che aggravarsi.

Che fare? Si suggeriva di abbandonare questa assemblea sociologica e di affidarsi a una valida e profetica alternativa costituita dalle «comunità di base». Ma poco dopo qualcuno cominciò ad accorgersi che non costituivano un’alternativa molto affidabile, perché la loro vitalità dipendeva spesso dalle doti e attrattive caratteriali di alcuni dei partecipanti e avevano una durata media di qualche decina di mesi. Ricordo un parere d’Oltralpe, che sconsigliava di ripetere un’esperienza già dimostratasi fallimentare nella Germania degli anni trenta, quando si era tentato un analogo passaggio dalla parrocchia alle piccole comunità, sotto l’influsso di quella che allora era ritenuta una geniale e feconda intuizione pastorale, ma che adesso veniva dai più qualificata sprezzantemente come ideologia socio-romantica.

Ma, a parte la questione sulle dimensioni e sulla natura della comunità cristiana, qualcosa di certo poteva essere insegnato sul «giorno del Signore» considerato in se stesso racchiudendo in sé in modo obiettivo un mistero di salvezza, sicché il compito della pastorale poteva ricondursi a quello di aiutare i credenti a entrare sempre più consapevolmente e sempre più esistenzialmente in possesso di una ricchezza più alta e sostanziosa, che è già donata alla Chiesa: già è, per così dire, tra le nostre mani.

Ma in quegli anni iniziava ad affacciarsi alla ribalta teologica e pastorale una forte affermazione circa il valore della «secolarità» delle cose e la sua sufficienza per una lettura adeguata della realtà; affermazione che poi dava il via alla proposta (fino allora inaudita) di «desacralizzare» l’intera vita cristiana e quindi anche l’azione cultuale. Secondo quest’ottica, non esiste una realtà «sacra» e una «realtà profana», non esistono «azioni sacre» e «azioni profane»: la sola distinzione consentita è quella tra il «buono» e il «cattivo», tra ciò che è umanamente autentico e ciò che non è autentico.

In tale visione neanche i giorni potevano essere classificati in «sacri» e «non sacri»: tutti i giorni sono di Dio e tutti i giorni sono dell’uomo. Era lo stesso concetto di «sacro» a dover essere abbandonato come vano e fuorviante. Da qualche parte sembrava addirittura che si irridesse alla visione misterica della domenica, come a qualcosa di astratto, se non di onirico e di fiabesco.

Si potrebbe continuare in questa descrizione dei disorientamenti e delle perplessità che a un pastore derivavano dall’apprendimento delle teorie di alcuni moderni scrittori di cose ecclesiali, i quali fino al Concilio sembravano quasi tutti ammantarsi nell’atteggiamento dei “probati auctores”; mentre poi pare che spesso si siano divertiti a giocare agli “enfants terribles” della cultura cattolica, spregiudicati e volubili.

Avere ogni domenica gli stessi volti conosciuti e amati, volti di uomini che nella loro unica vita decidono di un destino eterno, non incoraggia certo un pastore, che abbia conservato un po’ di cuore e un po’ di senno, a proporre insegnamenti cangianti ed effimeri e ad avventurarsi in esperimenti sempre diversi.

Così si spiega che molti pastori abbiano dato l’impressione di essere spesso incerti, confusi e un po’ persi; e non è lo stato d’animo più conveniente per chi ha il compito irrinunciabile di essere guida dei suoi fratelli.

Appunti e riserve su alcuni «miti»: una valutazione critica di alcune sentenze circolate tra noi, fino ad assumere la connotazione quasi di affermazioni ‘mitiche’, come tali sottratte a un esame critico approfondito. Avevano qualche parziale validità; ma spesso peccavano di unilateralità, di troppa semplificazione. L’eresia, ha osservato acutamente Chesterton, talvolta più che un errore è una verità che si è dimenticata di tutte le altre.

 

Primo «mito». Il carattere oppressivo della legge.

La legge è coartante, limita la libertà, mortifica lo slancio interiore, contrasta la fantasia dello spirito, spegne la gioia. Ciò che è comandato, diventa perciò stesso odioso.

C’è molta verità in questa persuasione. Tutti noi conosciamo la critica alla legge mosaica che si trova nelle lettere di Paolo. Tuttavia il sospetto è che qualche assalto al «precetto festivo» trovi ispirazione più nella concezione nominalistica, largamente presente nella cultura contemporanea, che non in quella paolina.

Secondo la concezione nominalistica, la legge è essenzialmente un atto di volontà; è sempre perciò qualcosa di arbitrario, di sopravvenuto alla natura delle cose e di imposto estrinsecamente. È perciò sempre, poco o tanto, irritante e mal tollerata. La mentalità di oggi ha esasperato al massimo questo sentimento, fino alla persuasione almeno implicita che è «vietato imporre» ed è «vietato vietare».

Ma san Tommaso nel suo trattato “De legibus” ci insegna che la legge non è tanto un «imperium» quanto una «ratio»: è una intrinseca «misura del comportamento», che si identifica con la natura o almeno vi si innerva e vi si connette (Ia-IIae quaestiones XC-CVIII). Quindi, lungi dall’essere oppressiva, aiuta il soggetto «misurato» a conoscersi nella sua verità e gli consente di essere autenticamente se stesso. Press’a poco come, quando acquisto un’automobile, non posso giudicare una prepotenza e un’insidia alla mia gioia di proprietario, se il venditore mi avverte che nella macchina, per farla marciare, devo mettere la benzina.

Paolo stesso, che si proclama liberato dalla legge, riconosce di essere «énnomos Christoù» (1Cor 9,21), cioè di avere la propria legge nell’organico inserimento in Cristo. Il problema del precetto domenicale è appunto di appurare se la domenica sia o non sia parte del mistero totalizzante di Cristo, di vedere se sia possibile dirsi adeguatamente inseriti in Cristo senza celebrarla. I martiri di Abitine che dicevano: «Sine dominico esse non possumus», è probabile che non pensassero affatto a un’obbligazione di carattere meramente esteriore, che insidiasse la loro gioia.

Questa è una questione pastorale che dovrà essere affrontata senza superficialità.

Bisogna far entrare nella coscienza comune dei fedeli che la celebrazione domenicale (e non soltanto la celebrazione eucaristica) è obbligatoria e vincolante non perché sia arbitrariamente imposta dall’autorità, ma perché è intrinseca alla stessa struttura interiore della personalità cristiana e alla natura misterica della comunità ecclesiale.

 

Secondo «mito». Il culto di Dio come «alienazione».

Il concetto di alienazione, di origine hegeliana, arriva alla cultura contemporanea attraverso la mediazione di Marx per il quale l’uomo cade nell’alienazione di tipo religioso, quando, dimenticando che l’unica sua patria è la terra, perde se stesso inseguendo le chimere dell’al di là e cercando un immaginario rapporto col Dio trascendente che egli stesso si è figurato. Sotto l’influsso inavvertito di questo pensiero può capitare di trovare anche dei cattolici che giudicano alienante una liturgia primariamente dedicata alla contemplazione di Dio e alla memoria di Cristo e qualificano alienante una domenica contrassegnata in modo eminente (anche se non esclusivo) dal culto del Signore.

Questo giudizio di alienazione, in Marx coerente con la sua antropologia, è perfettamente antitetico all’insegnamento di Cristo e al suo Vangelo. Anche in Gesù noi troviamo l’idea di alienazione, ma in ben altri termini. Qualche esempio: «Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?» (Mt 16,26). «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignuola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi tesori nel cielo… Perché dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,19-21). «Stolto questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?» (Lc 12,20). «La vita di un uomo non dipende dai suoi beni» (Lc 12,15). Secondo Cristo si supera questa alienazione quando ci si reintegra, vale a dire si ritorna a essere ciò per cui siamo stati creati: cioè dei contemplatori di Dio e del suo progetto. «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3).

Se noi crediamo che la natura vera dell’uomo sia quella teologicamente attingibile – e cioè sia di essere immagine viva di Cristo nel suo molteplice aspetto di ricercatore, di adoratore, di figlio e di erede del Padre – dovremo ritenere appartenente intrinsecamente a noi tutto ciò che ci pone in rapporto diretto coll’Unum necessarium e dovremo ritenere alienante tutto ciò che ci porta a perderci nella molteplicità delle cose.

 

Terzo «mito». Lo stato di «diaspora».

È abbastanza frequente sentir parlare, perfino con un certo compiacimento, di Chiesa che, dopo il tramonto della cristianità, si troverebbe in stato di «diaspora» o di dispersione. La parola si ritrova nella lettera di Giacomo (1,1) e nella prima lettera di Pietro (1,1). Ma il suo uso sollecita un minimo di riflessione critica, se si vuole evitare qualche malinteso.

Se si intende dire che i discepoli di Gesù «non abitano proprie città, non parlano una lingua speciale e non vivono una vita a parte» (come dice la Lettera a Diogneto, V,2), ma esistono sparsi, presenti e attivi in tutto il mondo e in tutte le situazioni umane, frammisti ai non credenti come il grano della parabola evangelica, e perciò anelanti a essere radunati nei granai del Regno, il termine è senza dubbio da accogliere. Basterà ricordare a questo proposito le belle espressioni con le quali, sempre la Lettera a Diogneto, descrive la vita «incredibile» («paràdoxos») dei cristiani: «Ogni estranea regione è patria per loro, e ogni patria è per loro terra straniera…» (V,5). Sarebbe invece inaccettabile nell’economia della Nuova Alleanza la parola «diaspora», se per essa si volesse disconoscere la profonda e inalienabile realtà di comunione che lega i cristiani tra loro, a partire dal carattere oggettivo e permanente della rinascita battesimale. È una realtà che non giace solo sul piano dell’invisibile, ma si manifesta anche sul piano sociale e visibile. In questo senso, la redenzione di Gesù è stata proprio il superamento definitivo dello stato di dispersione: il Signore è morto – ci dice il quarto evangelo – «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,52).

La Chiesa è dunque la fine senza ritorni della diaspora, sicché un’ipotetica diaspora sarebbe per assurdo la fine non tanto della cristianità quanto della Chiesa. Ma questo affascinante vocabolo, da taluno è usato per fare da furtivo supporto all’asserto che la cristianità sia un’idea costantiniana, medievale, assolutamente improponibile oggi: la cristianità è defunta, ed è un’encomiabile liberazione (si sente dire ogni tanto).

E chi mai ce lo ha rivelato? La cristianità, cioè il riverbero sociologico della realtà misterica della Chiesa, è stata attuata in ogni epoca che è seguita all’effusione pentecostale. La comunità di Gerusalemme e le Chiese paoline sono state autentiche cristianità, addirittura con elementi sociali, giuridici, economici, che, secondo la moda dei nostri giorni, sarebbero «integralisti». Va detto piuttosto che le forme di cristianità sono mutevoli: nessuna è eterna, e ogni secolo deve costruirsi la propria.

La domenica è intrinsecamente orientata a trascendere la diaspora e a essere una manifestazione oggettiva ed eloquente della cristianità. La disgregazione, come tutti i fermenti di male che derivano dal peccato, è un’insidia sempre in atto per i discepoli di Gesù che vivono ancora nel mondo; il mistero del giorno del Signore, come il mistero dell’Eucaristia dal quale non può mai essere avulso, neppure nella considerazione, ci è dato appunto per superarla. Uomini, topograficamente e socialmente dispersi, sono dalla domenica convocati in una unità anche esteriore e visibile. «Di tutti coloro che abitano nelle città o nelle campagne si fa il raduno nello stesso luogo», scriveva Giustino. Ogni celebrazione domenicale è dunque intimamente orientata a trionfare dell’impulso disgregante del Maligno nella comunione donataci dal sacrificio di Cristo.

 

Quarto «mito». L’enfatizzazione della «comunità».

In questo mezzo secolo la nozione di comunità si è progressivamente diffusa nelle tematiche pastorali, e oggi la si incontra un po’ in tutti i contesti. Le parrocchie sono diventate in larga misura comunità parrocchiali, almeno nella loro carta intestata. Che cosa è la comunità e che cosa è la comunione? Comunità è un’aggregazione di creature umane che si conoscono, hanno tra loro rapporti di amichevole consuetudine, pongono in comune problemi, gioie, aspirazioni, progetti, si sentono anche sul piano emotivo legate le une alle altre. Fino a diversi decenni fa gli uomini conducevano un tipo di esistenza fortemente comunitario. Oggi la situazione è molto cambiata. Viene il sospetto che quando noi esaltiamo la comunità più che rappresentare una situazione di fatto riveliamo una nostalgia.

Al tempo stesso però tentiamo di assegnarci un compito e un ideale; e qui sta la positività della locuzione. Comunità non è sinonimo di comunione, che è un concetto teologico che evoca il grande e sorprendente dono del Padre, che ci ha radunati a costituire un’unica realtà trascendente: la realtà del «Christus totus» (del Cristo totale). Questa è la definizione reale della Chiesa, che perciò è mistero di comunione. Ma deve essere anche «comunità»?

Se è vero che la Chiesa è una comunione santa di uomini peccatori che tentano di vivere da fratelli (quindi comunitariamente) riuscendoci sempre poco, allora la parrocchia va vista come una comunione trascendente (fondata sulla fede, sul battesimo, su un minimo di appartenenza al Corpo di Cristo), che si sforza, e deve sforzarsi, di diventare sempre più comunità anche socialmente percepibile. La vitalità e il pregio di una parrocchia, delle sue domeniche, delle sue celebrazioni eucaristiche sarà desumibile dall’ampiezza, dalla efficacia, dalla generosità delle sue esperienze comunitarie; ma non va dimenticato che la piena coincidenza della comunione con la comunità si avrà soltanto nella Gerusalemme celeste. Bisogna perciò fare attenzione a non far coincidere sbrigativamente la parrocchia con la comunità. Si rischia di escludere dalla nostra sollecitudine quei fratelli che per diversi motivi non si inseriscono nelle iniziative e nei momenti comunitari, e ma restano parrocchiani a tutti gli effetti e sono anch’essi destinatari della nostra operosa carità pastorale.

 

Quinto «mito». La «desacralizzazione».

Proponiamo un’ultima riflessione sulla categoria del «sacro» e sull’ideologia della «desacralizzazione». La categoria del «sacro» è sempre stata patrimonio comune della dottrina e della prassi ecclesiale. Anche il Vaticano II ha parlato di «sacra liturgia», «sacre celebrazioni», «musica sacra», «arte sacra», «segni sacri», «sacro ministero», «tempi sacri». In questi decenni la terminologia sacrale è stata fatta oggetto di estesa contestazione. Il mito è che ricorrere alla categoria della «sacralità» comporterebbe il pericolo di ricadere in una concezione vetero-testamentaria o addirittura cosmologica pagana. Sacralizzare luoghi, tempi, cose, sarebbe rivolgersi di nuovo ai deboli e miserabili elementi del mondo (cfr. Gal 4,10-11). Anche la domenica quindi non può più essere presentata come un giorno sacro. Al fondo di questa critica, che contrasta con l’intera tradizione ecclesiale, c’è una insufficiente comprensione del disegno salvifico del Padre.

L’economia in cui viviamo non è l’economia della pura natura né l’economia dell’elevazione innocente: noi viviamo nell’economia della redenzione, in un mondo contaminato dalla colpa e riconquistato e rianimato dalla grazia. L’epoca in cui ci troviamo, tra la prima e la seconda venuta del Signore, è già l’epoca della vittoria di Cristo, ma non della totale e visibile disfatta del male; è l’epoca del progressivo riscatto. Satana non è ancora estromesso e la sua azione si esercita ancora.

Le realtà vanno a una a una raggiunte e liberate dalla forza del Redentore, i cuori vanno a uno a uno santificati. Tutti noi siamo coinvolti in questa lotta, che si svolge dentro e fuori di noi. A questo punto si inserisce la dimensione sacrale come una sorprendente misericordia del Padre. Poiché egli ha scelto di apparire temporaneamente sconfitto e quasi allontanato dalla sua creazione, Dio si preoccupa di quelli che sono suoi e sono costretti a restare nella tensione nonostante la loro fragilità e la loro congenita tendenza a disanimarsi. Li assicura allora di una sua speciale presenza salvifica che eccede quella puramente creaturale ed è sottratta alla volubilità degli atteggiamenti interiori dell’uomo (quindi alla deteriorabilità della presenza di grazia). Questa è la presenza sacrale, che non si smarrisce coi nostri smarrimenti, che sopravvive alle nostre sconfitte, che rimane base salda di ogni ripresa.

Per esemplificare, il battezzato conserva una somiglianza inviolabile col suo Redentore anche se si è lasciato riprendere dal peccato. Cristo è presente e opera indefettibilmente nel sacerdote anche quando questi è divenuto indegno della grazia di cui è ancora strumento. Sono due esempi di «persone sacre».

Ma ci sono innumerevoli realtà che appartengono all’ordine del sacro, di quella presenza salvifica che non dipende dal permanere della libera adesione dell’uomo, ma trova il suo fondamento nella fedeltà di Dio che supera ogni nostra possibile infedeltà. Sacro è il libro ispirato da Dio, sacra è l’infallibile trasmissione della verità rivelata, sacri sono il banchetto eucaristico e tutti i riti sacramentali.

La sacralità è una dimensione essenziale del progetto con cui Dio ci salva e la si incontra in ogni angolo del mistero cristiano; ma possiede una diversa intensità e si attua con diversa pienezza. Si capisce allora come si possa arrivare per analogia digradante a ritrovare il «sacro» oltre che nelle persone e nelle azioni, anche nelle cose, nei luoghi, nei tempi che in modo stabile sono riservati al culto del Signore e possiedono una connessione permanente con l’iniziativa salvifica.

La santità soggettiva è richiesta e sostenuta dalla sacralità, così come la sacralità esige la corrispondenza del soggetto. La verità intrinseca della Sacra Scrittura sollecita l’apertura personale della fede; l’infallibilità del magistero suppone l’atteggiamento di docilità degli animi; l’immancabile efficacia dei sacramenti postula che siano amministrati e ricevuti nell’amore; la consacrazione battesimale ci impegna a vivere la vita nuova; il mistero obiettivo della domenica ci domanda che in quel giorno abbiamo a rendere esplicita in noi la memoria della risurrezione di Cristo e ad anticipare coscientemente il giorno eterno.

La sacralità e la santità dunque non si oppongono né si risolvono l’una nell’altra; sono due aspetti fondamentali e irrinunciabili del progetto di salvezza. La sacralità degli atti, delle cose, dei tempi, dei luoghi, è legata a questa epoca della storia di salvezza (tra la prima e la seconda venuta del Signore). Nell’universo pacificato perderà la sua ragion d’essere. In questo tempo negare o trascurare tale categoria significa non avere una comprensione adeguata della misericordia del Padre, che resta presente tra noi con la sua forza rinnovatrice e liberante, oltre ogni nostra possibile defezione.

Si può capire come il senso della sacralità si estingua in una teologia che abbia smarrito il principio sacramentale, l’idea del sacerdozio ministeriale e il sentimento della vita cristiana come progressiva mistagogia. È difficile spiegare questa eclissi in una teologia che voglia con intelligenza restare cattolica, cioè non voglia lasciare nell’ombra niente di quanto è contenuto nel tesoro della Rivelazione.

Naturalmente se si definisce la domenica giorno sacro, cioè connesso obiettivamente col mistero salvifico, si rende perciò stesso necessario chiedersi perché, in che senso, in che misura si avvera questa connessione. Si rende cioè necessaria l’esplorazione e la contemplazione del mistero della domenica, proprio come mistero, come grazia, come realtà che ci trascende.

 

Concludendo segnala cinque rapide annotazioni di metodologia pastorale.

1. Occorre ripartire dal mistero salvifico, considerandolo non tanto un’occasione per le nostre esercitazioni e le nostre ipotesi quanto un dono da ricevere e da assimilare e quindi l’azione liturgica come atto essenziale di obbedienza a un disegno che ci precede e ci sovrasta. Con questo atteggiamento interiore non faticheremo a capire che il progetto salvifico è già in se stesso un progetto di promozione dell’uomo, elaborato nell’eternità, prima dunque della così detta svolta antropologica, dalla sapienza trascendente del Padre. La realtà della domenica va dunque accolta in tutta la sua ricchezza, come giorno del Signore risorto, come giorno della gioia dei redenti, come giorno della carità, come giorno epifanico della Chiesa, come giorno dell’attesa e dell’anticipazione escatologica.

2. Il mistero della domenica va proposto continuamente a tutto il popolo di Dio nella sua verità e nella sua totalità, senza mutilazioni, distorsioni o aggiunte stridenti. Le nostre tentazioni sono molte: da quella di voler migliorare il progetto a quella di praticare sconti nell’annuncio della realtà salvifica. La proposta va presentata integralmente, con chiarezza e fermezza, nella convinzione che in essa sta la salvezza dell’uomo.

3. Se la proposta di Dio è totalizzante e deve restare integra, la risposta dell’uomo è sempre inadeguata e parziale. Questa perenne insufficienza della risposta è un fatto che va pastoralmente riconosciuto, senza credere possibile che si avveri il miraggio di una comunità purificata da ogni passività, senza la propensione gnostica a costruire una piccola Chiesa di perfetti. Tutti i cristiani vanno rispettati e amati anche nella terminologia pastorale. Tanti «cristiani sociologici» nel momento della prova e dell’adesione penosa alla volontà di Dio si sono rivelati molto più autentici di quanto non si possa dedurre dal loro modo di partecipare alla messa! Nessuno di noi è un cristiano intero. Siamo tutti dei tentativi di essere cristiani; tentativi che riescono a percentuale diversa, misurata solo dal giudizio di Dio. L’azione pastorale si prefiggerà soprattutto di ottenere che il tentativo sia da tutti ripetuto senza stanchezza. I veri pastori non disprezzeranno mai neppure il più esiguo frammento del Regno, anzi saranno sempre attenti e docili alla parola del Signore: «Raccogliete i frammenti, perché nulla vada perduto» (Gv 6,12).

3. Non è necessario che un raggruppamento di battezzati costituisca una comunità umanamente viva e compatta perché si possa celebrare la domenica, ma è necessario che un raggruppamento di battezzati che celebra la domenica si sforzi di dare origine a una comunità viva e compatta. Il che significa che non sono le affinità elettive, ideologiche, culturali né le connessioni socialmente umane a metterci in grado di entrare in comunione col mistero del Signore risorto, ma è il Signore risorto che ci raduna in una comunione ecclesiale e ci sollecita a superare il nativo egoismo fino a costituire veramente una famiglia.

4. Infine non si deve considerare il grande numero dei fedeli che si riuniscono nelle nostre chiese un segno necessario dell’autenticità del nostro annuncio. Il Signore non ha mai assicurato la maggioranza al suo piccolo gregge (cfr. Lc 12,32): non coltivare illusioni fondate su promesse che non ci sono state fatte, è il modo migliore per non lasciarsi sopraffare dalle delusioni. Ma non bisogna guardare alle chiese deserte come a un valore, a una prova della genuinità del Vangelo che predichiamo, a un indizio di fede più personale e matura. Gli insuccessi e le apostasie possono essere momenti inevitabili e anche previsti dal disegno di Dio, ma non c’è bisogno di presentarli come eventi di grazia. Oltre ogni esito, dobbiamo lavorare nella fedeltà e nella speranza. Le vittorie definitive non sono in programma prima dell’apparizione gloriosa del Signore, alla quale dobbiamo sempre pensare con desiderio. Ci si impegna con più animo, con maggior tranquillità interiore, con equilibrio più sicuro a una più cosciente e partecipata celebrazione della domenica terrena quando ci si ricorda che in ogni caso alla fine ci attende la domenica eterna.

 

 

Nella pienezza del tempo. Il tempo dell’uomo nel tempo di Dio e il tempo di Dio nel tempo dell’uomo

Noi crediamo

Sul senso teologico della domenica sono state proposte e saranno proposte riflessioni ad hoc. Esistono pubblicazioni di prestigio. Pure i siti internet ci offrono abbondante materiale. Si può dire che in tutte le diocesi la Lettera pastorale ha questo contenuto fondamentale.

Il Giubileo, poi, fin dalla sua preparazione remota e prossima, è stato un celebrare la presenza del tempo di Dio nel tempo umano, ossia l’occasione per prendere coscienza che con l’evento dell’incarnazione il Signore è sempre con noi, l’Emmanuele. Egli è la pienezza del tempo. Egli è il tempio santo in cui adorare Dio in spirito e verità.

Con la resurrezione la sua vicenda, libera dai limiti dello spazio e del tempo, si dona a ciascuna creatura umana come salvezza. E la salvezza è permetterGli di coniugare la nostra vita con la sua, perché possiamo vivere la filiazione divina in Lui.

È la fortuna unica e singolare offerta all’umanità da Gesù, il Figlio di Dio e nostro fratello. Egli attende solo il nostro consentire. Maria è la creatura umana che in maniera unica e singolare ha consentito fino al sì ai piedi della Croce. Ella partecipa a questo mistero in modo singolare e unico, fino ad accogliere la maternità unica e singolare, cioè la maternità universale, come Nuova Eva accanto al Nuovo Adamo. Ella, l’Immacolata, ci ricorda le origini incontaminate dell’umanità, nel suo peregrinare nella fede ci guida a camminare nella fedeltà, con la sua assunzione ci assicura la sua presenza nella nostra storia, nel nostro tempo, con la sua sollecitudine e tenerezza di Madre.

La domenica come giorno del Signore è il memoriale per eccellenza pubblico, visibile, che la Chiesa celebra, è come l’epifania del suo mistero, in quanto ella nell’Eucaristia nasce nel suo essere e nella sua missione. Qui la comunità cristiana è sacramentalmente in comunione con tutte le generazioni che ci hanno preceduto nel segno della fede, come unico popolo diffuso nel mondo.

Non si pone, quindi, il problema: è possibile celebrare la domenica in un tempo di pluralismo?

Questo tempo di pluralismo enfatizzato soprattutto come pluralismo religioso ci offre una opportunità singolare, anzi ci presenta il dovere di proporre questo mistero di salvezza a tutti, perché destinato a tutti come sorgente di liberazione e di libertà. L’appello e l’opportunità in primo luogo per noi credenti per uscire dalla latitanza e confessare coraggiosamente il Signore, per evangelizzare la nostra vita, facendola passare dalla frivolità della devozione alla consapevolezza del mistero che ci avvolge e ci interpella.

Guai a me se non evangelizzassi, esclamava Paolo, l’apostolo delle genti, in un contesto socio-culturale e socio-religioso per nulla semplice.

“Non possiamo vivere senza domenica!”. Possiamo anche noi confessare così la nostra fede?

Questa è la prima e radicale testimonianza che siamo interpellati a dare. Non siamo chiamati a salvare il mondo dalle ingiustizie, ma ad accogliere il Salvatore e annunciarLo al mondo, facendo passare la sua salvezza attraverso la nostra fragile carne, la nostra piccolezza. Annunciare il suo Vangelo non come rifugio o evasione, come depotenziamento, ma come la via unica e singolare, proposta da noi con gioia, con fedeltà, con passione per l’umanità, non imposta.

Con l’esultanza della Vergine, con il suo consentire feriale tutto festivo, perché abitato sempre dal Signore, sempre tempo domenicale, con il suo aiuto materno e partecipando alla sua fecondità spirituale.

Il primo appello è, quindi, alla comunità cristiana, ad ogni credente in Cristo, a noi gli adulti che dovremmo chiederci: “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede?”. Fede in noi. Fede nell’umanità. Se qui non ci fosse per la nostra latitanza? Gli Orientamenti Pastorali ci offrono tanti inputs per convertirci al giorno del Signore e trovare nella parrocchia il tempo e lo spazio per una comunità realmente eucaristica, e divenire missionari ad gentes.

 

Nell’ambivalenza della vicenda umana il discernimento evangelico

Come aiutare i nostri giovani, non per proselitismo, non perché abbiamo timore che la Chiesa abbia un volto vecchio, ma per sollecitudine per la loro crescita, per l’amore materno e materno che pensa alla loro consistenza? Gli Orientamenti Pastorali spingono ad operare il discernimento dei semi di bene, dei semi di speranza nell’oggi che è l’oggi di Dio. Don Bosco direbbe che in ogni giovane c’è una porta accessibile al Bene.

Ho fresche alcune annotazioni che la prof.ssa Graziella Giovannini ci ha offerto in Educare oggi tra crisi di identità e ricerca di senso, nel convegno internazionale Io ti darò la Maestra… Il coraggio di educare alla scuola di Maria. Riprendo qualche suo rilievo che può suggerire alcune prospettive pastorali.

Il nostro è un tempo scandito dall’esplosione delle differenze e dalla globalizzazione, dentro una socio-cultura che ha enfatizzato l’io, l’individuo, con le sue molteplici scelte e opportunità, e ha posto l’accento sul suo rimodellamento continuo dell’io dentro i molteplici contesti e svariati significati.

Abbiamo visto in precedenza come questi elementi incidono sui giovani per la loro ambivalenza ed hanno esiti positivi solo a certe condizioni. Queste condizioni vanno assicurate. La vocazione anche a livello antropologico è la grande opportunità per unificare le proprie risorse dentro un progetto consistente per il quale vale la pena consacrare la vita.

La risposta alla vocazione dice una certa consapevolezza di identità. È stato sempre così. È una chiamata ad essere e ad essere secondo il disegno di Dio, congiungendo creazione – chiamata all’essere – e salvezza in Cristo. Oggi l’identità è al centro soprattutto del mondo giovanile come problema e opportunità. Infatti nella crescita, quindi nel divenire conservando la propria identità, essa prima era assicurata dal contesto socio-culturale, oggi è messa in crisi nelle sue motivazioni e valori, dal continuo rimodellamento.

L’enfatizzazione dell’individuo nelle molteplici opportunità, mentre dà la sensazione di potersi realizzare in tante direzioni, rischia di indebolire l’identità, in quanto essa si può ridefinire continuamente, rimodellandosi nei diversi contesti, lasciandosi sempre un margine per rivedere e mettere in discussione anche le scelte fondamentali della vita. Essendo in continuo mutamento, quindi debole, il soggetto fatica a riconoscersi nel tempo.

La società odierna porta all’esasperazione il processo di individualizzazione fino a separarlo dall’appartenenza, per cui il rapporto con il senso, i valori, l’autonomia, la libertà, è posto in discussione costantemente. L’autonomia diventa tendenza alla scelta di valori autoreferenziali, la responsabilità per il sé, per la propria realizzazione, mette tra parentesi il noi, la responsabilità nei confronti degli altri, per il bene comune. Dato che si può sempre scegliere continuamente e discontinuamente, non emergono gli obiettivi da perseguire con fedeltà, non emerge l’urgenza di progettualità, di finalizzare le scelte. È una prassi che porta alla dissoluzione del sé nell’egocentrismo e narcisismo, è la porta aperta all’eterodirezione. Il soggetto è talmente debole che è soggetto a qualsiasi progetto, è eterodiretto. La massima valorizzazione dell’io è la sua massima debolezza.

I rischi sono pure per la società, per cui sono difficili le relazioni sociali significative umane. È difficile il tessuto sociale solido e il convergere sul bene comune. Abbiamo dedicato poca attenzione a costruire il noi sociale. Di qui la necessità di educare alle regole, oltrepassando il ‘mi regolo di volta in volta’, legittimato da una cultura in cui la collettività non si pronuncia sulla sintesi di valori antropologici fondamentali.

 

Alcune opportunità

Essere con i giovani, testimoniando e accompagnando il loro percorso di crescita con itinerari formativi concreti e adeguati alla loro condizione.

Le coordinate fondamentali da tener presenti possono essere:

1) la coniugazione dell’io con il noi, quindi la crescita nella solidarietà, valorizzando il bisogno di relazioni e liberandolo dall’egocentrismo; la Chiesa è la comunità con relazioni teologali sincroniche e diacroniche e l’Eucaristia le fonda e le alimenta;

2) l’attenzione a mettere in rapporto in modo educativo i luoghi vitali perché non siano ‘sfruttati’ come evasione o peggio come occasioni per ammazzare il tempo; la parrocchia è questa occasione provvidenziale da valorizzare di più, ma è chiamata a rivedersi nel suo modo di organizzarsi;

3) la famiglia va rapportata ad altri ambienti educativi che la sostengano per una socializzazione più ampia, ma anche sovente i giovani trovano le opportunità di fede più fuori che dentro la propria casa; la comunità cristiana è sacramento della famiglia umana;

4) promuovere nuove forme di appartenenza e lavorare per la ricomposizione delle diverse forme di appartenenza, promuovendo l’associazionismo; senza appartenenza non maturano progetti significativi nemmeno a livello umano; il valore della comunità cristiana in questo senso è confermato da una lunga e significativa tradizione;

5) vanno vigilati i processi di impoverimento dei tempi sociali festivi, perché questo impoverimento provoca la tendenza a riempirli di significati futili e paganeggianti; si pensi alle polemiche sul natale che mostrano un vuoto preoccupante a livello umano mascherato con l’ideologia del rispetto delle differenze; in realtà dobbiamo riconoscere una profonda carenza di valori condivisi come collettività;

6) occorre educare nella flessibilità con l’attenzione alla fedeltà, a mantenere le promesse, alla continuità nel tempo; evitare la molteplicità delle cose e degli impegni che restano parola morta, ma, come direbbe don Bosco, “poche cose con perseveranza”;

7) abbiamo abituato i ragazzi a correre, relativizzando il tempo delle generazioni, il tempo generazionale, il senso del tempo attraverso le generazioni, quindi il legame con il passato e con il futuro;

8) la proposta religiosa emerge sempre più come il contesto vitale che favorisce l’unificazione personale dentro un orizzonte significativo di senso.

Più in rapporto alla celebrazione della domenica, in particolare alla domenica come la possibilità di accogliere con intenzionalità più ricca ‘il venire del Signore nel nostro tempo’, il percorso è esaltante e dura tutta la vita. Non a caso è viatico, cibo del cammino. Di fatto la percezione della chiamata divina si accompagna sempre al desiderio della Comunione quotidiana, perché anche a livello personale la Chiesa, quindi l’essere discepolo, nasce nell’essere e nella missione dall’Eucaristia.

La celebrazione eucaristica va raccordata in modo particolare al sacramento della confessione, soprattutto come il luogo in cui la progettualità matura nella sua consistenza di fedeltà alla promessa, nutrita dalla forza di Dio. Essa ha una valenza fortemente educativa per le nuove generazioni, spesso sole nel decidere sulle grandi questioni personali e sociali.

 

In passato ho proposto dei percorsi secondo queste coordinate fondamentali a livello educativo[8]:

1. l’Eucaristia è la pienezza del tempo nella vita del credente; qualifica il tempo della crescita, le fasi della vita con i relativi compiti di sviluppo al cui svolgimento la comunione con il Signore e la guida di Maria dà significati che oltrepassano ogni nostra immaginazione, perché conducono al progetto divino;

2. l’Eucaristia come comunione con il Signore attraverso il suo corpo e il suo sangue, quindi il valore del corpo, pure nella sua differenziazione sessuale, come luogo fisico della chiamata all’amore; di qui l’accompagnare i giovani nella scoperta delle nuove dimensioni dell’amore attraverso lo sviluppo e le trasformazioni del loro corpo;

3. l’Eucaristica come dono di Gesù al quale rispondiamo riconoscenti con il nostro dono attraverso il servizio ai poveri; di qui l’educazione alla solidarietà ricca di contenuti teologali e l’apertura a una consapevolezza dei diritti umani che nasce dal vedere in ogni persona l’immagine di Dio.

Il compito che questo anno eucaristico ci affida è entusiasmante e vogliamo dedicarci ad esso con tutto l’ardore e l’ardire che Gesù Eucaristia ci dona. Di fronte alle istanze e agli appelli, talvolta provocazioni, che emergono dalla socio-cultura odierna possiamo dire come Maria: “Come è possibile questo?”. Sappiamo che Dio ci dà un anticipo di fiducia al quale è sempre fedele. A questo anticipo di fiducia sua vogliamo rispondere con un anticipo di radicale affidamento alla sua volontà di salvezza.

Don Orione, in occasione della canonizzazione di don Bosco, dice ai suoi figli spirituali: «Ho sempre pensato che don Bosco si è fatto santo perché nutrì la sua vita di Dio, perché nutrì la nostra vita di Dio. Alla sua scuola imparai che quel Santo non ci riempiva la testa di sciocchezze o di altro, ma ci nutriva di Dio e dello spirito di Dio. Era pieno dello spirito di Dio e nutriva se stesso di Dio e nutriva noi di Dio. Come la madre nutre se stessa, per poi nutrire il proprio figliolo, così don Bosco nutrì se stesso di Dio, per nutrire di Dio anche noi»[9]. Don Orione ha fatto questa esperienza da giovanetto, entrando all’oratorio di Valdocco.

E se Gesù ci mandasse tanti Orione? Affidandoci alla fedeltà del Signore osiamo sperare di guardarli tutti con quella profondità spirituale che conquistò quel giovane.

 

 

 

Note

[1] in Liturgia, a cura di SARTORE D., TRIACCA A.M., CIBIEN C., Cinisello Balsamo, San Paolo 2001, 585.

[2] Ivi 588.

[3] SANT’AGOSTINO, Le Confessioni XI,11-14, in Opere 1, Roma, Città Nuova 1965, 379.

[4] Cfr. HESCHEL A.J., Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Milano, Rusconi Editore 1972; RIZZI A., Il segreto del tempo. Meditazioni su tempo, festa e preghiera, Leumann (TO), Elle Di Ci 1993; AUF DER MAUR H., Le celebrazioni nel ritmo del tempo, I, Leumann (Torino), Elle DiCi 1990, 35-40; ZADRA D., Il tempo, in particolare il capitolo secondo: Il tempo simbolico: l’anno liturgico cristiano, 57-108.

[5] La ricerca Il tempo dei giovani, ricerca promossa dallo IARD condotta da CALABRÒ A.R., CAVALLI A., COLUCCI C., LECCARDI C., RAMPAZI M., TABONI S., a cura di CAVALLI A. , Bologna, il Mulino 1985: Sebbene sia dell’85 ha tuttora il suo valore. POLLO M. la valorizza nello studio Il vissuto giovanile del tempo, in TONELLI R. – GARCIA J.M. (a cura di), Giovani e tempo, Roma, LAS 2000, 19-55.

[6] CAVALLI A., Introduzione, in Il tempo dei giovani, 9-45.

[7] Cfr. POLLO M., Il vissuto giovanile del tempo, in TONELLI R. – GARCIA J.M. (a cura di), Giovani e tempo, Roma, LAS 2000, 19-55.

[8] Ho offerto delle indicazioni concrete pastorali in Nell’esultanza dell’Eucaristia e di Maria. Per una mistica apostolico-educativa al femminile, in “Rivista di Scienze dell’Educazione” 35 (1997), 201-241.

[9] Don Luigi Orione e la Piccola Opera della Divina Provvidenza vol. 1, Roma 1958, 393 (promanuscripto).