N.03
Maggio/Giugno 2006

Il profilo spirituale del “sindaco santo” 

L’obiettivo che mi pongo con questa comunicazione non è certamente quello di un approccio scientifico (non ne avrei gli strumenti), ma semplicemente quello della rilettura di un’esperienza spirituale, sottolineandone alcuni tratti che a me paiono significativi e nella prospettiva di una vita contemplativa. L’angolo da cui ho tentato di osservare la figura di Giorgio La Pira è stato quello che mi consentiva di scorgere, da una parte, lo scorrere intenso della sua vita, attraverso alcune proposte di biografia e, dall’altro, la sua profonda intimità con il Signore, con la sua Parola, attraverso alcuni scritti e alcuni gesti decisi e semplici, pur in momenti difficili e di fronte a personalità significative del contesto socio-politico ed economico del suo tempo. 

Devo dire che la lettura e l’approfondimento della personalità di La Pira mi hanno consentito di superare una falsa immagine di lui, dovuta, forse, ad una certa superficialità con cui lo avevo sempre accostato e che me lo faceva apparire quasi un “ingenuo” nel modo di muoversi tra i potenti del mondo. 

Mi piacerebbe che accostassimo questa figura con l’atteggiamento di chi sa che ogni autentico vissuto cristiano è scuola per ciascuno: aprire lo sguardo ad altre esperienze spirituali non può che rafforzare la nostra. Vorrei che tentassimo di andare oltre l’ovvio per cercare, in profondità, alcune sollecitazioni che possono consentirci di rinvigorire la nostra dimensione cristiana e di nutrire il cammino per apprendere, seppure in circostanze diverse, la via della contemplazione nell’azione

Provare, quindi, a rileggere la nostra vita attraverso la figura di La Pira, senza forzature e senza paragoni, ma solo con il desiderio di poter dire: “è stato possibile vivere così… È possibile essere dediti così… È possibile essere contemplativi così!” Con questo atteggiamento possiamo introdurci, con delicatezza, nel cammino di La Pira… 

 

Alcune brevi note biografiche 

Nacque a Pozzallo nel 1904; a soli nove anni si trasferì a Messina presso la famiglia dello zio, Luigi Occhipinti, esponente della piccola borghesia locale. Diplomatosi in Ragioneria e ottenuta la licenza classica, si iscrisse alla facoltà di Legge. 

Nel 1924 si colloca la sua ideale “svolta cristiana”, attraverso i contatti con personalità del mondo cattolico messinese e con l’avvicinamento alla FUCI. In questo periodo universitario, nacquero le prime riflessioni sul rapporto cittadino-istituzioni. 

Nel 1926 si trasferì a Firenze per discutere la sua Tesi di laurea e di qui nacque il suo legame fortissimo con la città. Dalla fine degli anni ’20 iniziò il suo impegno diretto nell’associazionismo cattolico fiorentino. 

Già terziario domenicano, membro dell’Istituto secolare Missionari della Regalità e protagonista delle conferenze vincenziane, La Pira fu animatore dell’Azione Cattolica e del neonato Movimento dei laureati; la sua intensa capacità organizzativa, la collaborazione a riviste e gli interventi alle Settimane Sociali lo portarono, in breve tempo, a farsi conoscere oltre i confini fiorentini e a stringere contatti con il mondo milanese e romano, in particolare con Giovanni Battista Montini. 

Dal 1934 La Pira diede vita alla sperimentale esperienza della “Messa del povero” di S. Procolo: un originale tentativo di rinnovamento dell’impegno assistenziale al fianco delle fasce più marginali della società. 

Negli anni del regime fascista, la sua critica al regime stesso prese forma compiuta attraverso la rivista Principi, protagonista nel 1939-40 di un’origina-le forma di resistenza pacifica e culturale al regime e di una decisa denuncia della svolta a favore della guerra da parte dell’Italia. 

Ricercato dai fascisti, ripiegò su Roma, dove fu protetto dagli ambienti vaticani. Subito dopo la liberazione di Firenze, nel settembre del 1944, La Pira tornò nella sua città, dove assunse la guida dell’Ente Comunale di Assistenza (ECA). 

Accolto l’invito di Giuseppe Dossetti a candidarsi alle elezioni per l’Assemblea Costituente, entrò a far parte della prima sottocommissione della Commissione dei 75, responsabile della redazione dei diritti e doveri del cittadino. Qui si fece sostenitore di tesi improntate al “pluralismo organico” delle Istituzioni, dando un apporto sostanziale alla redazione della Costituzione. 

Fu tra i più vivaci protagonisti del gruppo dossettiano e, come redattore di Cronache Sociali, La Pira sviluppò la propria riflessione sul ruolo dei cristiani nella società. 

Eletto come deputato indipendente nelle liste democristiane, nel maggio del ’48 fu chiamato da Fanfani come Sottosegretario al Ministero del Lavoro; durante quella breve esperienza, segnata dall’avvio del piano Ina-Case, La Pira sostenne la priorità dell’occupazione e consolidò una serie di riflessioni in campo economico-sociale, confluite poi nel volume L’attesa della povera gente (1950) che scatenò un’accesa polemica con il fronte dei monetaristi. 

A seguito della frattura tra Dossettiani e DC di Governo, La Pira tornò a Firenze, accettando la candidatura a Sindaco; vi rimase per ben tre mandati (dal 1951 al 1965). Nella sua attività amministrativa mise in pratica tutto ciò che aveva approfondito negli anni formativi. Si ricordano alcune sue azioni clamorose: la requisizione delle ville disabitate (1953), il “caso Pignone” (che lo vide al centro di un acceso dibattito con la Confindustria e con don Sturzo) e la questione del Parco delle Cascine. Sulla stampa conservatrice era dipinto come “comunista di sacrestia”, privo del senso della misura. 

Quel primo mandato segnò anche l’avvio dell’azione internazionale di La Pira, che si sarebbe realizzata attraverso una complessa e graduale strategia di “interventismo pacifico”, portando Firenze ad essere una centralina del dialogo internazionale. Basti ricordare il “Convegno dei sindaci delle capitali del mondo” (1955) e i “pellegrinaggi di pace”, in particolare quelli con Kruscev. La Pira divenne portatore di originali forme di “diplomazia democratica” e seppe sensibilizzare l’opinione pubblica su temi quali il disarmo e la necessità del dialogo interreligioso. 

Nell’estate del 1959 l’ideale percorso di pace di La Pira culminò nell’intervento al Soviet supremo con un discorso sulla pace e sul disarmo, che divenne anche un invito ad abbandonare l’ateismo di Stato. 

Fortemente legato alle figure di Giovanni XXIII e Paolo VI, La Pira diede un contributo alla stagione conciliare. Sottoposto a continui attacchi personali sulla stampa conservatrice fiorentina come “illuso utopista”, isolato nella sua stessa coalizione, nel 1965 rinunciò a ripresentarsi per un quarto mandato. 

Si dedicò con sempre maggior forza alle tematiche della pace. Dal 1968 fu presidente della Federazione mondiale delle Città gemellate e, nell’ultimo decennio della sua vita, viaggiò ancora intensamente (Medio Oriente, Tunisia, Ungheria, Cile, Senegal, Urss e USA). Nel 1974-75 si rese ancora protagonista della fase preparatoria della Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la pace in Europa. Nel 1976 fu eletto per la terza volta alla Camera, ma il peggioramento delle sue condizioni di salute lo costrinse a rientrare a Firenze. Morì dopo alcuni mesi, il 5 novembre del 1977. Nel 1986 si è aperto il processo di beatificazione.

 

Alcuni tratti della personalità: un contemplativo in azione 

Non seguirò un ordine preciso o cronologico nell’affrontare questa parte della relazione; ciò che più mi sta a cuore è di riprendere alcuni passaggi della vita di La Pira da cui emergono sottolineature e rimandi al tema della “contemplazione nell’azione”. Utilizzerò alcune sue affermazioni o scritti per meglio descrivere la dimensione contemplativa della sua vita. 

La Pira arrivò a Firenze nel 1926; pochi anni dopo vinse il concorso per la seconda cattedra di Diritto romano (aveva 29 anni), materia che insegnò per 46 anni. Il primo aspetto su cui vorrei soffermarmi è una sua nuova idea caritativa: quella di riunire, ogni domenica mattina, nella Chiesa di San Procolo, i più poveri, i più abbandonati di Firenze, con i professori, i professionisti e i giovani, per aiutarsi gli uni gli altri, per condividere, per costituire, nella preghiera e nell’aiuto, la comunità cristiana. Certamente era un tratto di concretezza, una forte dichiarazione delle proprie scelte… Non si trattava di una semplice attenzione ai poveri (impegno di volontariato, San Vincenzo o altro), ma di una forte esigenza di “sborghesimento” del vivere cristiano. 

In quest’esperienza, per La Pira, furono di guida le parole del Vangelo: “Andate per i crocicchi delle strade e chiamate quanti trovate, poveri, ciechi, storpi, zoppi e conduceteli qui affinché si riempia la mia casa” (Lc 14,21). 

Una prima sottolineatura è dunque questo prendere alla lettera il Vangelo: si tratta di ingenuità oppure di una sintonia profonda con il Maestro, di un’esperienza di lui così radicale da non potersi discostare dalla sua Parola? Ma se collochiamo storicamente quest’azione ci rendiamo subito conto della sua provocazione: si era in pieno fascismo, quando i coloni rimanevano in fondo alla Chiesa parrocchiale e il ricco era trattato con ogni riguardo dallo stesso parroco. 

Già in questa prima esperienza emerge una concezione evangelica che si traduce in scelta netta: riportare alla stessa mensa eucaristica, insieme per un aiuto reciproco, il povero ed il ricco. Immediatamente emerge una personalità unitaria di La Pira: il Vangelo può essere vissuto senza edulcorazioni. Professore di Diritto romano, capace di coniugare una forte propensione alla ricerca e allo studio con una provocatoria traduzione nella vita. Probabilmente, questa personalità scaturisce da un ascolto continuativo della Parola, da una meditazione costante… per trovare le forme concrete della vita quotidiana, per tradurre e mediare storicamente, certo, ma senza nulla togliere alla freschezza dello stile evangelico. 

Ricordando la sua esperienza, in una conversazione del 1960 diceva: “Tutti coloro che hanno una responsabilità politica ed amministrativa devono meditare. Altrimenti siamo dei “direttori generali”: il direttore generale ordina, ma non deve intuire la direzione della storia”. 

Ciò che colpisce è la caratteristica di La Pira di stare a proprio agio in tutti gli ambienti: in Firenze, come professore, ebbe modo di avere scambi culturali anche con persone di alta estrazione culturale, attraverso frequenti incontri su ogni tema culturale… Anche grazie a questi momenti di confronto, La Pira passò da un atteggiamento d’indifferenza rispetto alla politica, ad una sempre più chiara consapevolezza tra impegno religioso e impegno civile (cfr. G. Campanini, L’apporto di La Pira e dei cattolici alla costruzione dello Stato democratico, Convegno di studio, Firenze, 5-7 novembre 1981). 

Vivere profondamente la dimensione cristiana comportava un’assunzione profonda delle proprie responsabilità sociali: «La vocazione cristiana incide, deve incidere, se è vera, nella famiglia, nella mia città, nella mia patria, in tutto il genere umano. Nell’ordine stesso delle cose io non sono un isolato. Sono unito ai miei fratelli, in relazione organica e solidale a essi» (A. Fanfani, in Principi 6-7, Firenze 1939, 122). 

Questo “incidere” non è da intendere alla maniera della conquista, però sicuramente emerge in La Pira questa forte propensione all’annuncio di Gesù, senza ostentazioni, ma anche senza esitazioni: questa incidenza vuole soprattutto significare il forte senso di responsabilità per il cristiano di essere in relazione organica e solidale con i fratelli. Viene allora superato ogni dualismo fra l’essere “dentro la Chiesa” o “fuori nel mondo”, perché vi è un legame organico e solidale con i fratelli. 

Questa convinzione non è frutto di automatismo, anzi in una lettera del 1954 La Pira scrive: “Non ho mai voluto essere né deputato né sindaco: mi ci hanno violentemente posto… Io non ho nessuna vocazione sociale, non desidero riformare niente; non ho nessuna dottrina sociale o metafisica da annunciare. Se un desiderio io possiedo è quello soltanto di stare col Signore nella pace benedetta dell’orazione e della riflessione”. 

Queste parole bene dimostrano quanto le propensioni possano essere diverse da ciò che poi si vive. L’assunzione di responsabilità forse consiste proprio in un farsi carico a prescindere dai desideri, dai sentimenti, dalle propensioni, dalle inconsapevoli difese messe in campo… Ma il paradosso sta proprio qui: mentre desiderava “soltanto di stare col Signore nella pace benedetta dell’orazione e della riflessione”, La Pira si ritrovò coinvolto in un forte impegno politico, con chiarezza di idee e scelte di campo ben precise. 

Il primo impegno pubblico di La Pira fu la partecipazione all’Assemblea Costituente, a cui si dedicò con forte passione. Scrive Fioretta Mazzei in La Pira, cose viste e ascoltate, pp. 46 ss: «La Pira lavorò alla Costituzione proprio a Fonterutoli. Nel 1946 riempì il tavolo di camera di edizioncine di tutti i Paesi, consultò i testi più antichi della biblioteca di mio padre…». 

La semplicità del cuore che gli derivava dal rapporto profondo con il Signore non riduceva di un millimetro lo studio e la ricerca, per non semplificare la complessità. È significativo questo “riempire la scrivania con le edizioni di tutti i Paesi”: indica ricerca, studio, comparazione… 

Arrivò alla Costituente – si scrive di lui – non solo con alcune idee, ma già con un vero e proprio articolato, frutto di un suo personale, sistematico ed approfondito lavoro. Incise molto su vari articoli: quello sulla famiglia (che egli stesso scrisse), quello in materia di lavoro ed economia, quello circa la costituzione di un organo di controllo (la futura Corte Costituzionale) ed il famoso articolo 7, che regolava i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica, riconoscendo i Patti Lateranensi… Articolo approvato anche con il consenso di Togliatti e dei comunisti! Di qui nacque il dialogo con Togliatti: primo dialogo tra cattolici e comunisti, senza sdolcinature, ma nella ricerca di convergenze sui grandi temi. Fu proprio uno dei principali artefici di quella storica “convergenza” delle “tre anime” della rinata democrazia italiana: quella comunista, quella laico-riformista e quella cattolico-democratica. 

Mi paiono quindi significativi alcuni tratti di La Pira: lo studio e l’apertura ad altre esperienze con piena libertà; la preparazione e l’approfondimento, che gli consentono la proposta; la capacità di dialogo, frutto di un saldo radicamento nei valori cristiani. La successiva esperienza al Governo fu come Sottosegretario al Lavoro (Ministro era Fanfani). Fino ad allora era stato un disegnatore delle linee politiche dello Stato, ma non aveva ancora sperimentato il peso dell’intervento di governo: era rimasto nel suo ambito di giurista. Scrive Fioretta Mazzei: «Quando accettò di essere eletto deputato nel 1948 ed in seguito di diventare Sottosegretario al Lavoro, con Fanfani Ministro, lo fece proprio perché pensava ad una larga possibilità di intervento. Accettò e volle il potere come possibilità di cambiare le cose. Ironizzò con i contestatori del potere: “…Non vogliono che lo prendano altri per prenderlo loro; senza potere che fai?”». 

La Pira affermava infatti che “l’operatività viene dal potere, è grande responsabilità”; sosteneva che “bisogna pensare prima di accettare, poi non si ha altro dovere che portare avanti bene le cose”. 

Emergono allora altri tratti salienti della personalità di La Pira: la capacità di cogliere l’importanza dell’impegno diretto in ambiti dove si prendono le decisioni e la consapevolezza piena che le responsabilità non si assumono con superficialità, occorre pensarci, ma poi una volta dentro le situazioni non ci si può sottrarre ad esse. Colpisce la chiarezza nell’accettare e volere il potere come elemento qualificante per cambiare le cose. Quasi a dire che il potere è importante per servire con più efficacia. 

Fu in quella posizione che potè elencare i bisogni elementari della gente (lavoro, casa, scuola, sicurezza) e che potè progettare (con piani strutturali e non sporadici) come rispondervi… fino al punto di lasciare il Governo per non aver ottenuto quanto necessario per completare il lavoro (anche se poi si pentì di questa decisione, rendendosi conto di non avere più possibilità operative). La decisione di lasciare va anch’essa collocata dentro la logica di La Pira: se il potere non è al servizio, tanto vale rinunciarvi. Dopo questa esperienza, nel 1950, scriveva il suo appello a nome della povera gente che attende una lotta organica contro la disoccupazione e la miseria. Sono pagine ricche di citazioni evangeliche. 

Sempre Fioretta Mazzei scrive a proposito di questo: «In realtà  per parlare così del Vangelo… ci vuole qualcosa di particolare che forse in pochi posseggono e che è frutto di una specie di unificazione interiore con esso: bisogna che l’intelletto ed il cuore ne siano stati profondamente irradiati, potenziati e finalmente semplificati». È il cammino della contemplazione intesa come esperienza profonda di Dio: si assume lo sguardo del Signore su tutto ciò che si va facendo. Certamente questa dimensione di interiorizzazione non va a scapito della professionalità: La Pira, il professor La Pira, studiò accuratamente il problema della disoccupazione. I suoi riferimenti al Vangelo non erano una coperta su un vuoto tecnico. I problemi, per essere affrontati, hanno necessità di soluzioni efficaci. 

Nell’imminenza delle elezioni politiche del 1958, così scriveva a Pio XII: «La mia vocazione è “misurata” dall’orazione, dalla meditazione, dallo studio: ritornerò a questi benedetti livelli del silenzio, dell’amore fraterno, della pace. Ma se devo restare nell’agone politico, il mio programma resta sempre più precisato: combattere l’ingiustizia, difendere gli oppressi, tutelare il pane dei deboli, sventare le insidie dei potenti. Se resto in questo agone, la mia testimonianza cristiana non può avere che questo carattere di fermezza e di decisione per la giustizia e la fraternità effettiva – istituzionale! – fra gli uomini». 

Vorrei che sostassimo un momento su questa “misura” che è l’orazione. Non dice: l’orazione sostiene la vocazione, dice: “misura”… cioè ne esprime l’autenticità, ne esplicita l’intensità, ne sottolinea il cuore. Possiamo allora dire che la misura della determinazione di La Pira nelle scelte politiche, sociali, nella ricerca senza sosta della pace e della giustizia è stata una grande ed intensa orazione. D’altro canto, la sua giornata al tempo delle grandi battaglie pubbliche fiorentine era scandita da: «ore di preghiera, nottate intere di preghiera, nei suoi tempi più giovani; raccoglimento di ogni mattina per tutta la vita. Si levava presto, prestissimo; ogni giorno alle 4-4,30; invecchiando, più tardi: 5-5,30». (F. Mazzei, La Pira, cose viste e ascoltate). 

Sono parole sue queste: «Orientare tutta la giornata intorno all’Eucaristia, farne la preparazione e il ringraziamento; riservare al Signore il tempo migliore, il più vivo, il più attento, il più affettuoso; imparare la dolcezza mite del Crocifisso». 

Sicuramente è come Sindaco di Firenze che La Pira emerse nella sua capacità di innovare la concezione della politica. Sono infatti parole sue anche queste: «La città è una casa comune in cui tutti gli elementi che la compongono sono organicamente collegati…Tutto fa parte di questa casa comune, una forza unica, un lievito unico, una responsabilità unica che è collegata ai comuni problemi… e una visione fraterna, organica, comunitaria, religiosa dà il senso della gioia dell’esistenza» (M. Primicerio, AC e Politica: la profezia di La Pira, Convegno di Loreto, 2004). 

Non si tratta di una pia esortazione: dietro tali parole sta una visione di società integrata, capace di progettare un disegno complessivo nel quale tutti possano trovare accoglienza e dignità. Si tratta di una strategia amministrativa, un’ipotesi di lavoro. 

Mi piace qui sottolineare la capacità di osare un “pensiero grande”, anche con il rischio di essere considerato utopista. È un progetto che mette al centro la “convivenza”. In fondo è su questo che dovrebbe misurarsi la politica: costruire città capaci di far vivere una forma buona di convivenza tra i suoi cittadini, costruire una casa comune. Questo esige, da parte degli amministratori, un servire con saggezza, non un dominare: solo nella logica del servizio si fanno strada i diritti di cittadinanza. È come dire che operare in politica comporta primariamente una visione di quale città si voglia costruire; la tecnica di governo non deve prendere il sopravvento sul progetto. Ciò ridurrebbe il respiro ed impedirebbe di pensare ad una “visione fraterna, organica, comunitaria, religiosa”, come espressione di una società fortemente integrata al suo interno. Mi pare che siano problemi molto attuali: non riguardano, forse, le nostre città? 

Non possiamo non ricordare alcuni episodi molto significativi di lotta sociale e politica che hanno visto La Pira protagonista nella difesa di posti di lavoro per migliaia di persone: pensiamo all’azienda Pignone (circa 1800 lavoratori), alla Galileo e a diverse altre realtà produttive. Per cogliere la pregnanza di questa scelta di campo dobbiamo collocare le sue prese di posizione (ha raggiunto molti livelli istituzionali, arrivando fino al Pontefice) nel contesto storico di allora (1950/1951). 

La vicenda rappresentò una formidabile pietra di inciampo per un liberismo che sembrava trionfare. Il dibattito suscitato provocò la ricerca di un maggiore slancio sociale da parte della stessa DC. Non c’è dubbio, com’è stato scritto, che l’episodio della Pignone costituì «il più deciso intervento in materia di lotta ai licenziamenti, che mai sindaco d’Italia abbia compiuto…». 

Per questi suoi interventi, La Pira si attirò tutte le ire dei benpensanti e dei loro organi di informazione, ma mantenne la sua posizione: «Un Sindaco che, per paura dei ricchi e dei potenti, abbandona i poveri – sfrattati, licenziati, disoccupati e così via – è come un pastore che, per paura del lupo, abbandona il suo gregge» (lettera al “Giornale del Mattino”, nel 1955). 

Di La Pira colpisce questo sguardo sulla storia, che è uno sguardo secondo Dio, fondato, da una parte, sulla meditazione della parola e sulla preghiera e, dall’altra, sulla conoscenza approfondita dei fatti e del loro calarsi nella realtà. Emerge sempre questa dimensione contemplativa che si traduce nell’intenso operare. In questa prospettiva, per il cristiano, l’impegno sociale e politico non è opzionale: è una scelta di carità. Fare politica, potremmo dire, significa assumere uno stile di vita, un atteggiamento spirituale (la carità è espressione dell’uomo spirituale); si tratta di mantenere viva l’evangelica sete di giustizia. 

Se la contemplazione nell’azione è un modo di vivere che assume il tratto e lo sguardo del Signore si può certamente condividere con La Pira quanto disse in un Convegno della DC: «Occorre dunque mettere, prima di ogni altra cosa, la politica al servizio della speranza! Non una politica che vada al rimorchio della paura, che utilizzi le paure per costruirsi. Ma un compromettersi con la storia per “rendere possibile ciò che è desiderabile”, servire l’obiettivo del bene comune che non è somma di singoli tornaconti, individuali o di gruppo». Approfondire la figura spirituale di La Pira consente di cogliere la sua profonda laicità, nonostante una certa cultura abbia teso a farlo apparire come clericale ingenuo. 

Interessante è il suo discorso al Cremlino, nell’agosto del 1959: «Signori, io sono un credente cristiano e dunque parto da un’ipotesi di lavoro che, per me, non è soltanto di fede religiosa, ma razionalmente scientifica. Credo nella presenza di Dio nella storia e dunque nell’Incarnazione e Risurrezione di Cristo dopo la morte in croce. Credo che la Risurrezione di Cristo è un evento di salvezza che attrae a sé i secoli e le nazioni. Credo dunque nella forza storica della preghiera. Quindi, secondo questa logica, ho deciso di dare un contributo alla coesistenza pacifica Est-Ovest, come dice il signor Kruscev… Dunque, signori del Soviet supremo, il nostro comune programma costruttivo, il nostro disegno architettonico deve essere questo: dare ai popoli la pace, costruire case, fecondare i campi, aprire officine, scuole, ospedali, far fiorire le arti e i giardini, ricostruire e aprire dovunque le chiese e le cattedrali. Perché la pace deve essere costruita a più piani, ad ogni livello della realtà umana: economico, sociale, politico, culturale, religioso. Soltanto così il nostro ponte di pace tra Oriente ed Occidente diventerà incrollabile» (Rodolfo Doni, Giorgio La Pira profeta di dialogo e di pace ). La sua non era ostentazione, ma semplice affermazione della propria identità. Non c’è contrasto tra identità e dialogo: quanto più profonde sono le radici, tanto più si è capaci di dialogare con gli altri, anche con chi è fortemente lontano dal proprio modo di pensare. 

La Pira soleva ripetere che Gesù, sollevato da terra, sulla croce, “attira tutto a sé”, come aveva promesso. Nella relazione al Convegno di Loreto dell’Azione Cattolica (3/9/04) il Prof. Primicerio diceva di lui: «…ricordo con quale vivacità e passione immaginava e descriveva la “fatica” di questo trascinarsi dietro la storia per ricondurla a Dio, di questo portarsi dietro Cesare e Napoleone… e tutta questa umanità che sembra non ne voglia sapere, che non voglia capire… E invariabilmente concludeva: “via, una mano gli si può dare anche noi!”». 

Questo era il suo rapporto con Gesù: veniva fuori, perché, potremmo dire, era unificato in lui. 

 

 

Alcuni richiami per noi:

 

– Il Vangelo come racconto di una vita possibile 

Abbiamo visto in La Pira una forte esigenza di “sborghesire” il vivere cristiano. Potremmo chiederci: che cosa ci imborghesisce nella vita? Ma prima di arrivare a questa domanda dovremmo forse porcene un’altra, e cioè: qual è la misura in base alla quale definiamo il nostro vivere borghese o no? Certo, potremmo rispondere subito dicendo che la misura è il Signore Gesù, indubbiamente, ma di quale Gesù stiamo parlando? Se non fuggiamo da un’onesta riflessione, ci rendiamo ben conto che per non distorcere il tratto del Signore dobbiamo ritornare alla sua Parola: dobbiamo farci orientare dal Vangelo. Abbiamo detto che La Pira fu “guidato” dalle parole del Vangelo. Troppo spesso ci rifugiamo nell’affermazione tranquillizzante che “il Vangelo non va interpretato alla lettera, che occorre fare una saggia esegesi, che va collocato nel contesto, ecc…”. Tutto vero, ma questo non ci esime dal trarne le implicazioni costanti per la nostra vita. Implicazioni semplici, ma che forgiano lo stile: tacere, parlare, essere miti, essere veri… debellare la menzogna, non escludere i più deboli dalle relazioni, ecc… Progressivamente questo ci libera da quel rispetto umano che ci omologa alla logica corrente e che provoca una divaricazione fra l’enunciazione dei principi ed il vissuto. Potremmo chiederci se nelle nostre riflessioni rientra questa “misura”, questo ricercare nel Vangelo le implicazioni costanti per la nostra vita. 

 

– Il Vangelo non è libro di pietà, ma vero “manuale di ingegneria” 

La semplicità della vita evangelica non semplifica la complessità, anzi, i semplici del Signore non banalizzano i problemi: sono sempre in ricerca, partono dalla constatazione dei fatti, dall’impellente necessità di trovare soluzioni credibili. Non dobbiamo confondere l’innocenza del cuore con il “buonismo” superficiale: si può camminare verso la semplicità pur sprofondando nello studio e nella ricerca. Ricerca e studio autentici generano silenzio interiore, sconfiggono ogni presunzione: il saggio ed il sapiente non alzano mai il tono, parlano con tutti, non umiliano nessuno, non prevaricano l’altro, non lo posseggono, non lo dominano, eppure difendono con tenacia la propria convinzione. Siamo in questa prospettiva? Come tradurre questa ricerca nella nostra vita e in quella delle persone che formiamo? 

 

– La vocazione cristiana incide, deve incidere 

Contemplare nell’agire consente di recuperare la differenza tra il portare frutto e il risultato della propria azione. Si porta molto frutto anche nell’apparen-te fallimento: siamo noi il nostro frutto, quando la nostra personalità si forma alla maniera di Gesù diffondendo intorno a sé uno stile di vita. Può essere uno stile perdente dal punto di vista del risultato, ma non demorde rispetto alle esigenze della giustizia, della verità, della dedizione; uno stile che vuole il potere come possibilità di cambiare le cose, ma, in qualche modo, è una visione “debole” del potere che ci è affidato. Una visione che comporta una disponibilità, un orientare il nostro operare per sostenere, mentre si agisce, anche una certa qualità dei rapporti umani. Come nel nostro cammino distinguiamo i risultati dai frutti? Come educhiamo a questo le persone che accompagniamo? 

 

– Non ho mai voluto essere né deputato né sindaco: mi ci hanno violentemente posto 

Emerge qui tutto il tema delle attitudini, delle propensioni e della responsabilità del vivere. Stare abitualmente alla presenza del Signore ci consente di stare nelle situazioni dove magari ci hanno violentemente posto, cioè dove le circostanze della vita, il discernimento, la necessità e la lettura dei bisogni del tempo ci chiedono di rimanere. La nostalgia del Signore alimenta la perseveranza quotidiana per rimanere nei luoghi che non ci attraggono. Come coniughiamo dentro di noi responsabilità ed attitudini? Come aiutiamo le persone che educhiamo a compiere i passi della perseveranza? 

 

– Meditare, pregare, per non diventare dei “direttori generali” 

Potremmo dire: per non diventare efficientisti. Interiorizzare la Parola per orientare la storia: assimilare cioè una visione della storia che la crede salvata ed orientata alla salvezza, perché Gesù è risorto. Meditare proprio per riandare alla relazione organica e solidale con i fratelli. Quale lavoro facciamo su di noi e sulle persone che accompagniamo per non perdere di vista la relazione organica e solidale con i fratelli? Il cammino della preghiera è, e può diventare, un cammino di semplificazione, di unificazione interiore: uno stare sempre alla presenza del Signore. La contemplazione, in questa prospettiva, sconfina la preghiera, tende a diffondersi al di fuori, costruendo una sorta di “stabilità” di pensiero: poco per volta, il senso della presenza di Dio diventa abituale ed invade tutta la vita… È il cuore che matura nella carità. In questa prospettiva, la contemplazione nell’azione altro non è che l’azione vissuta all’interno di questo abituale pensiero del Signore. 

 

Bibliografia 

RODOLFO DONI, Giorgio La Pira. Profeta di dialogo e di pace. Edizioni Paoline, Milano 2004. 

VITTORIO POSSENTI, La Pira. Tra storia e profezia. Edizioni Marietti, Genova 2004. 

GIORGIO LA PIRA, La nostra vocazione sociale. Edizioni Ave, Roma 2004. 

PIERO ROGGI, I Cattolici e la piena occupazione. L’attesa della povera gente di Giorgio La Pira. Edizioni Giuffrè, Milano 2004.