N.03
Maggio/Giugno 2006

La direzione spirituale e il discernimento dell’azione di Dio nella storia

La direzione spirituale, o accompagnamento lungo le vie dello Spirito, è comunemente definita come quel tratto di cammino esistenziale che un credente fa in compagnia d’un fratello/sorella maggiore, nella fede e nel discepolato, che l’aiuti a discernere la voce e l’azione del Dio-che-chiama nella storia e nella propria storia, e a rispondergli in libertà e responsabilità. 

È evidente la natura radicalmente vocazionale dell’operazione, ove vocazione non significa solo la scelta decisiva della vita, quanto i discernimenti continui del credente ob-audiens, che cerca ovunque la volontà di Dio, al fine di creare in lui non solo l’attitudine coraggiosa d’un momento, quanto e soprattutto la disponibilità costante e progressiva a riconoscere in ogni momento i segni dell’eternamente amante e chi-amante, per scegliere d’agire di conseguenza. 

Lo scopo di questa nostra riflessione è proprio quello di indicare almeno alcune caratteristiche di questo tipo di accompagnamento spirituale, sul piano teorico e pratico. Con un duplice fine: quello immediato di formare nel giovane la capacità di discernere l’azione di Dio negli eventi della propria vita personale e sociale, per imparare a dare una risposta vocazionale piena ed evangelica, matura e totale nelle scelte quotidiane. Mentre scopo finale sarebbe quello di capire come aiutare ogni cristiano che vive la propria vocazione nel mondo ad esser testimone di risurrezione e di speranza dentro il mondo oltre che nella Chiesa. C’è dunque una serie di connessioni in tutto ciò, come vedremo, che lega passato e presente, fede e speranza, storia e memoria, storia personale e storia di salvezza, Chiesa e mondo… 

Accenneremo prima, molto brevemente, ad alcuni principi teorici, di natura teologica, per poi proporre in modo più approfondito un modo pratico di accompagnare lungo questo cammino di discernimento. 

 

 

Dove abita Dio? 

Ne menzioniamo solo alcuni più fondamentali e utili per il nostro discorso, in ordine al senso della presenza di Dio, al luogo ove abita il Trascendente, e alla possibilità di conoscerne l’azione nella nostra vita. Ad ognuno di questi principi corrisponde una precisa conseguenza sul piano operativo-pedagogico. 

 

«Dio della mia vita» 

(la vita personale come unica possibilità di conoscere Dio) 

L’accompagnamento spirituale nasce dal desiderio sincero di un credente di cercare Dio e le sue tracce nella propria vita. Per questo egli cerca l’aiuto in un altro credente, perché è consapevole della difficoltà e complessità della ricerca, mentre vuole – per altro – fare un serio cammino di discernimento. L’oggetto dunque è innanzitutto Dio, non una qualche decisione soggettiva da prendere; il punto di riferimento sono i segni della sua presenza, non il proprio cammino di perfezione. Tutto, certamente, è in funzione d’una risposta personale, ma proprio per questo chi si fa accompagnare da un altro è ben consapevole d’essere alla ricerca dell’Altro per eccellenza. Proprio per evitare ogni fuorviante soggettivismo. Eppure, al tempo stesso, sa che tale ricerca non lo porterà lontano da sé: al contrario, è la condizione per “trovarsi”, e dunque non potrà esser fatta in nessun altro “luogo” che non sia la sua personale storia. È la novità del cristianesimo; è la legge dell’Incarnazione, in forza della quale ogni esistenza terrena proclama la verità dell’amore dell’Eterno; anzi, la incarna, la manifesta, la rende storia e carne, volto e sguardo, parola e tratto, mistero ed evidenza. Ed è sempre una rivelazione nuova e inedita, proprio perché l’oggetto è l’amore di Dio, che non si ripete mai uguale a se stesso, ma è sempre concepito e configurato in funzione della persona amata, a seconda d’essa, fatto apposta per lei, impensabile senza di lei. Anzi, potremmo dire che l’unica possibilità di conoscere Dio ci è data, concretamente, dalla nostra singola esistenza, che è manifestazione d’un tratto unico-singolo-irripetibile del Dio che ci ha creati unici-singoli-irripetibili; esistenza che è racconto del suo amore ed insieme a tutte le altre innumerevoli esistenze umane diventa quindi “racconto di Dio” che si snoda nel tempo. Qui, in effetti, trova la sua radice l’assoluta originalità della nostra personale esistenza. Dio, infatti, non ha altri che me, la mia persona e la mia storia per manifestare il suo modo di amare una persona come me; dunque i miei giorni sono anche storia dell’amore dell’Eterno, storia assolutamente originale di qualcosa che non s’è più ripetuto in quel modo; il tempo della mia vita è espressione dell’amore di Colui che è fuori del tempo, ma s’è reso tempo e storia nella misura piccola e limitata della sua creatura! 

Si tratta allora, per chi davvero vuol esser credente, di apprendere a riconoscere questa manifestazione di Dio dentro la propria storia. Cosa tutt’altro che scontata, e che non può certo ridursi ad una qualsiasi educazione alla fede, come normalmente è impartita oggi. Io credo, anzi, che sia proprio questo il senso autentico della fede, il senso vero, sia sul piano biblico-teologico che su quello psico-pedagogico, come vedremo più avanti. 

E credo anche che sia il senso moderno, quello che dovrebbe costituire lo stile attuale d’una vera educazione alla fede dei nostri giovani.

  

L’oggettivo e il soggettivo 

(il soggettivo come luogo ove l’oggettivo della fede s’incarna) 

Normalmente nell’atto credente c’è, o ci dovrebbe essere, una sintesi di oggettivo e soggettivo: si crede a delle verità rivelate, rivelate da Dio, riconosciute nella sua Parola e proposte dalla Chiesa a tutto il popolo credente, il quale è tenuto ad aderirvi, a viverle, a metterle in pratica e a testimoniarle. Sono dunque verità oggettive, valgono per tutti e tutti sono chiamati a conformare ad esse la propria vita. 

Questo, in sostanza, lo schema della proposta credente o il suo dinamismo nel momento in cui la fede è di fatto offerta e sollecitata. Schema oggi per tanti versi in crisi, e povero soprattutto nella sua forza propositiva specie nei confronti delle nuove generazioni, che in particolare avvertono un distacco tra queste verità rivelate e la loro esistenza di tutti i giorni; che non si sentono abbastanza coinvolti in questo dinamismo; che non avvertono intercettate le loro esigenze e sentono distante questo Dio… Hanno ragione, in fondo, o quanto meno sono molto comprensibili queste ragioni, riassumibili in una fondamentale: il soggettivo (o il personale) entra in scena solo come luogo della conferma comportamentale della verità di fede, solo in un secondo momento, dunque, tutto sommato, abbastanza defilato e meno significativo nell’economia dell’insieme. L’individuo è chiamato, in buona sostanza, a credere ed osservare nella propria storia il dato rivelato, com’è giusto che sia, poiché quel dato è vincolante, viene da Dio e rivela il suo volto. 

Tutto ciò è giusto, ma forse insufficiente per fondare una fede adulta, libera e responsabile, fede ove il personale diventi anche luogo e spazio ove quel dato oggettivo prende forma, una forma soggettiva. In tal modo quella rivelazione di base, che resta intatta e diviene criterio interpretativo, è resa viva e palpitante, assume connotazioni originali e caratteristiche, viene in qualche modo personalizzata e l’individuo la sente più sua, non più verità astratta e omologante, ma fonte di senso per la sua storia. La quale – a sua volta – assume una dignità ed un valore inediti, vero e proprio locus theologicus, in quanto luogo della rivelazione, in cui quella verità entra in dialogo con la persona umana e stabilisce con lei un contatto assolutamente originale, rivelandosi in una maniera tutt’altro che ripetitiva. In tal senso, allora, la vita dell’uomo, di ogni uomo, diviene rivelazione di Dio, come un piccolo, ma originale frammento del suo continuo ed infinito rivelarsi. In fondo è la medesima prospettiva, sul piano biblico, con cui il pio israelita era invitato a guardare la sua propria esistenza di popolo che riconosceva, dentro la sua personale vicenda, i passi di quel Dio che ne aveva inventate di tutti i colori per andargli incontro, per rivelargli il suo amore e mostrargli il suo volto, per manifestarsi come il Dio ricco di misericordia e diverso dalle divinità dei popoli vicini. Israele cercava e trovava nella sua storia personale, non altrove, i tratti del suo Dio. Di qui, come sappiamo, la creazione della liturgia e l’istituzione delle feste: esattamente “per non dimenticare”. 

Ma anche da un punto di vista psicologico tutti saremo sicuramente d’accordo su quanto questa seconda prospettiva sia in se stessa enormemente più convincente e avvincente dell’altra, particolarmente in una cultura come quella odierna dove, pur con mille contraddizioni e ambiguità, è sottolineata e rivendicata la centralità ed originalità dell’io, contro ogni dipendenza ed ogni “deduttivismo”.

 

Il passato e il futuro 

(il vissuto come luogo del discernimento) 

Per entrare e far entrare progressivamente nella logica da noi indicata diventa indispensabile, anzitutto, rivolgere l’attenzione sulla storia del soggetto. Chi chiede d’esser accompagnato per un discernimento vocazionale normalmente ha l’attenzione rivolta al presente, o al futuro. Anzi, tutto il suo mondo interiore è proteso verso il futuro e quella decisione che sta per prendere. In realtà è impossibile fare tutto ciò da credenti, ovvero capire il progetto del Creatore sulla creatura, se non si scruta con molta attenzione la storia della creatura stessa per scorgervi le orme di Dio.  Potremmo considerarlo un principio fondamentale per un cammino d’accompagnamento vocazionale: l’attenzione alla storia della persona è ancor più importante delle sue affermazioni di principio, della sua stessa volontà di consacrarsi al Signore. E non solo perché “le scelte autentiche possono nascere solo dai fatti più che dai desideri o dalle intenzioni,[1] per quanto lodevoli, sincere e buone”, ma perché lo stesso progetto di Dio non è mai qualcosa di estemporaneo ed inedito: è un disegno che abbraccia tutta l’esistenza, è presente fin dai suoi inizi, sotteso a tutta la storia, nascosto e pure riconoscibile nel cuore dell’esistenza stessa, persino evidente, oltre l’apparenza dei fatti nudi e crudi… 

In un primo senso, dunque, tale attenzione storica diventa già criterio e modalità di ricerca vocazionale, o aiuta comunque a discernere la vocazione come progetto di Dio. Ma non solo questo: l’aspetto più rilevante è che il giovane stesso venga progressivamente formato a leggere e scrivere la propria storia dal punto di vista di Dio, più rilevante ancora del fatto che qualcuno riesca ad identificare nella sua storia i segni della sua vocazione, per poi decidere ed avere il coraggio di fare una scelta in linea con il progetto di Dio… o lasciarsi scegliere da lui. 

Un autentico accompagnamento lungo le vie dello Spirito è necessariamente un accompagnamento vocazionale, così come ogni pastorale autenticamente cristiana (ogni liturgia, catechesi, omelia, celebrazione della Parola…) è pastorale vocazionale; non perché e quando si pone esplicitamente l’obiettivo del discernimento vocazionale, terminando o ritenendo il proprio compito concluso, una volta condotto a termine il discernimento stesso (che, evidentemente, si fa una sola volta nella vita come scelta della propria vocazione), ma perché mira a porre il credente in condizione di vivere la propria fede con senso di responsabilità, leggendo in ogni istante della propria storia, il segno o i segni della presenza e della chiamata di Dio, per poi rispondervi con libertà e responsabilità. È così, tra l’altro, che nasce la speranza, e un’autentica opzione vocazionale è[2] fatta soprattutto di speranza . In tal senso dobbiamo dire che invece molte volte tale accompagnamento è inteso in modo riduttivo, come finalizzato immediatamente e unicamente alla scelta vocazionale, senza per altro riuscire molto spesso nell’intento, proprio a causa di questa interpretazione parziale e riduttiva non solo dell’accompagnamento spirituale, ma della stessa vita credente e dei suoi elementi fondanti. 

Io credo che oggi il problema sia proprio quello dei cosiddetti “fondamentali”, degli elementi di base e considerati tali per fare un’autentica scelta credente, così com’è fondamentale nella vita d’ogni essere umano saper leggere, scrivere e decidere. Siamo giunti ad una crisi che non è più semplicemente legata alla fatica intrinseca del credere o del fare un certo tipo di scelta cristiana, ma siamo nel pieno d’una crisi che tocca il senso stesso della fede e la sua ripercussione sulla vita, la possibilità stessa di credere restando liberi, il luogo e l’oggetto della fede, gli organi e la facoltà dell’atto credente. Insomma, è una crisi radicale, della quale la contrazione vocazionale non è che un aspetto tra i tanti, e che semmai va letta come crisi di tutte le vocazioni, dell’idea stessa della vita come vocazione. Diventa dunque importante imparare di nuovo a credere, partire da una catechesi di base credente; in parole semplici, a fronte d’uno spaventoso analfabetismo spirituale, si tratta d’imparare a leggere e a scrivere la propria fede, per esser poi in grado di imparare anche a decidere da credenti nella croce di Cristo, rimanendovi fedeli. 

Resta ora da vedere come realizzare in concreto un accompagnamento spirituale che porti a questo tipo di sviluppo dell’atto credente, verso lo stato adulto del credere.

 

 

Come discernere l’azione di Dio? 

Dopo aver tentato di vedere il “luogo” in cui Dio si rende visibile e incrocia l’esistenza, interpellando la creatura, spostiamoci ora sul versante umano, per cercare di cogliere il senso della risposta che ogni persona deve a lui, l’Eterno chiamante. 

 

Imparare a leggere 

Si tratta, allora, prima di tutto d’imparare a leggere, a leggere la vita, la propria storia personale. Più in particolare a coglierne il senso, che per un cristiano è legato alla presenza di Dio in essa. La vita d’ognuno “contiene” Colui che cielo e terra non possono contenere, e dunque va decifrata e interpretata alla luce di questa presenza. Non potrebbe essere diversamente se davvero la si vuole rispettare nella sua verità ed apprezzare nella sua bellezza. 

 

 

Leggere per cogliere il senso già presente 

Diciamo che l’uomo ha un’unica possibilità di trovare sensata la propria avventura esistenziale: leggerla come qualcosa che Dio ha voluto, preferendola alla non esistenza, qualcosa cui Dio continua a voler bene, custodendola come preziosa. 

C’è allora un senso già presente nella nostra esistenza, già intrinsecamente radicato in essa, forse non sempre così immediato e leggibile a prima vista, ma reale e indubitabile. In fondo “si legge” qualcosa che è già scritto, che possiede già una sua riscontrabile oggettività, e che come tale va rispettato e non può esser distorto; non si può leggere una cosa per un’altra! 

Fare direzione spirituale significa attirare sempre più l’attenzione su questo senso già presente, accessibile al credente, fondato sul dato essenziale ed elementare della nostra fede: l’amore del Padre per ciascuno di noi, figli suoi; quell’amore che ci costituisce nell’essere, che rende la vita dono suo e noi suoi pre-diletti, cioè amati da sempre e per sempre, ancor prima dei nostri meriti e demeriti, nella nostra amabilità e pure non amabilità, attraverso una serie infinita di mediazioni, di persone, volti, nomi, incontri… mediazioni imperfette e segnate dal limite, ma nelle quali è nascosta questa benevolenza divina e attraverso le quali tale benevolenza è giunta a ciascuno di noi.

 

 

Il perfetto nell’imperfetto, il tutto nel frammento 

Si tratta, in questa prima fase, che è la fase elementare dell’apprendimento della fede e d’una fede storica, d’imparare a riconoscere il bene: il bene di quel progetto che il Creatore ha su ciascuna sua creatura; si tratta, fondamentalmente, di imparare a riconoscerlo nella misura piccola e limitata della singola esistenza come sacramento dell’amore dell’Eterno. Questo riconoscere qualcosa di grande in una dimensione ridotta, magari anche segnata da un limite particolarmente evidente e pesante, non è certamente operazione scontata, né tanto semplice e facile. Noi siamo istintivamente portati a riconoscere il divino non proprio ovunque, in ogni luogo e situazione, ma …“sulle alture”. Ci viene più facile identificarlo nella perfezione umana, nella positività spinta al massimo grado, nel gesto eroico di qualcuno, nella santità di qualche altro. 

Imparare a leggere la vita da credenti significa, invece, aprirsi davvero alla legge dell’Incarnazione, che ribalta questa nostra pretesa, pagana alla radice e senz’altro molto poco cristiana, per accettare che Dio si riveli anche nella precarietà della vita umana, della nostra personale esistenza. Anzi, proprio questo è il bello della rivelazione cristiana: che il sommamente perfetto sopporta di svelarsi attraverso l’imperfetto, o che l’amore di Dio per noi è così grande che non può esser limitato o impedito, frenato od offuscato dalla povertà e dall’opacità umana. Poiché il tutto può abitare nel frammento.

 

 

Integrare il bene 

Imparare questo leggendo la propria storia vuol dire integrare il bene, che significa non solo riconoscerlo nelle tante situazioni positive che, pur frammiste all’inevitabile limite umano, riempiono la storia di ognuno e lasciano trasparire la presenza di Dio (ad es. il fatto d’aver avuto una bella famiglia, d’aver vissuto un rapporto positivo con le figure genitoriali…), ma soprattutto aver la capacità della riconoscenza grata nei confronti di Dio, come pure delle persone che hanno mediato la sua benevolenza, superando la tentazione di dare per scontato il bene ricevuto, di non saperlo apprezzare, di pretendere di riconoscerlo solo in chissà quali gesti, di ritenerlo quasi un diritto, di non aver la libertà di commuoversi dinanzi alla constatazione di tanto amore, ricevuto in tanti modi e da tante persone… Così Guardini: “Io …ho ricevuto me stesso. Al principio della mia esistenza… non sta una decisione d’essere, presa da me stesso. Tanto meno semplicemente ci sono, senza che necessiti d’alcuna decisione d’essere… Bensì al principio della mia esistenza sta un’iniziativa, un Qualcuno, che ha dato me a me Stesso[3]. In ogni caso sono stato dato, e dato come quest’individuo determinato” . 

Gli fa eco Von Balthasar: “solo una cosa è esclusa: che io consideri la mia esistenza… come una cosa ovvia, dovuta, necessaria …; ora importa soltanto che il mio intimo venga compenetrato dalla consapevolezza che nulla di ciò che sono e che mi viene continuamente donato mi è dovuto, né la vista della luce, né il sorriso di un altro uomo, né il poter amare situazioni, cose, amici, ecc.; in tutto questo vi è un momento di dono, che esige e suscita uno spontaneo ringraziamento” [4] . 

È fondamentale questa scoperta-constatazione da un punto di vista vocazionale, perché è proprio un autentico germe vocazionale. Dentro di essa, infatti, c’è un po’, almeno in nuce, il senso della vita come bene ricevuto, al di là di ogni merito, che tende poi evidentemente a divenire bene donato. Ma è impossibile che scatti questa seconda dimensione, quale opzione di vita, se prima non scatta la percezione grata e riconoscente del bene concretamente e storicamente ricevuto, che riempie ogni giorno dell’esistenza e che straripa dal proprio vissuto.

 

 

Esercizio pratico: la propria storia come «luogo» di preghiera 

È importante, allora, l’esercizio della memoria credente, autentica disciplina della mente e del cuore, tipica di chi non s’accontenta di ricordare lucidamente senza lasciar fuori nulla, ma apprende lentamente a riportare quel che ricorda (la propria storia personale) al suo centro naturale, alla sua origine, ovvero all’amore del Creatore. È l’esercizio di chi si domanda, dinanzi ad ogni evento: “Che senso ha questo fatto in relazione a quell’amore che è all’origine della mia storia, e che proprio perché all’origine non può non segnare tutta la mia esistenza? Come può il mistero di quest’amore, che mi ha preferito alla non esistenza, illuminare questo fatto, dargli verità?”. Non si tratta, allora, semplicemente di ricordare, ma di farlo in un contesto di preghiera, entro il quale sia possibile o venga addirittura spontaneo il riferimento al gesto del Padre che mi ha voluto esistente e continua a volermi tale; che mi ha reso ad immagine del Figlio e continua a plasmarmi secondo questa immagine. È come se la storia del soggetto divenisse progressivamente luogo di preghiera, e l’orazione sempre più simile ad una ricerca della presenza di Dio nella propria storia, come una costante domanda: “Dov’eri, Signore, in quell’evento? Cosa mi stavi dicendo e donando?”[5]

È decisivo, in tutto ciò, l’apprendimento d’un metodo, più che la pretesa di capire tutto una volta per tutte . In questo metodo il confronto sistematico con il mistero delle origini (il vero mistero non è perché moriamo, ma perché siamo vivi) in un atteggiamento orante è il passo preliminare che va nella giusta direzione.

 

 

Segni e componenti di capacità di lettura credente[6] 

Ne vediamo alcuni con una semplice indicazione descrittiva: 

– anzitutto un senso della fede che si lega con la storia, proprio come la fede d’Israele, fatta soprattutto di memoria di ciò che Dio ha fatto (il pio ebreo ricordava credendo e credeva ricordando);

– una fede storica (e biblica) che diventa sempre più fede molto personale, capace di disegnare un volto singolare di Dio, segnato dalle vicende della propria storia;

– una certa riconciliazione con il passato, o con la propria storia, che conduce al senso della propria amabilità radicale, fondamentale per la stima di sé; ma riconciliazione anche con il futuro, ovvero certezza che nel futuro Dio continuerà ad esser presenza fedele e amorosa, com’è stato nel passato; 

– un senso di sorpresa dinanzi al bene ricevuto, sempre superiore a quel che la persona avrebbe potuto pensare di meritare;

– una profonda gratitudine verso quella Volontà Buona che ci ha preferiti alla non esistenza,

– ma anche gratitudine verso tutte quelle mediazioni umane che, magari inconsapevolmente e certo con tutto il loro limite, hanno fatto da tramite a questa benevolenza;

– l’attenzione al dettaglio, al minimo gesto di amore ricevuto, poiché quando si parte dal presupposto che nulla ci è dovuto, ogni frammento di bene diventa sorprendente, e, di fatto, l’individuo diventa sempre più capace di riconoscerlo, anche in misura minima all’apparenza (perché la sua soglia percettiva del bene è molto bassa, ovvero è sensibile ai più piccoli gesti e capace di percepirli);

– la sorpresa, unita alla gratitudine ed alla finezza nel cogliere anche i segni cosiddetti piccoli, conduce la persona alla commozione per il dono della vita… e all’intuizione vocazionale, per quanto ancora vaga, che la vita deve continuare ad esser dono, né potrebbe essere diversamente;

– un senso di Dio che scorge i tratti del suo volto e i segni della sua tenerezza nei volti, nei nomi, nei fatti e nelle esperienze della propria storia personale…

 

 

Segni di analfabetismo infantile o d’incapacità di lettura 

Al contrario, l’analfabeta, o sottosviluppato nella fede, che è fermo ancora ad uno stadio pressoché infantile del credere, avrà: 

– un atteggiamento non proprio riconciliato con la propria storia: di non accettazione di alcune parti d’essa (di certe persone, fatti…) e forse di rimozione, almeno parziale;

– una memoria per nulla o poco grata, tipica di chi dà tutto per scontato, e più portata alla lamentazione o alla rivendicazione che non alla riconoscenza commossa;

– una soglia percettiva del bene molto alta, per cui la persona ricorderà o darà peso solo ai segni d’una certa entità, o sarà rozzo e approssimativo nella lettura della propria vita, giungendo persino ad ignorare gesti e segni d’affetto di cui pure è stato oggetto;

– l’assenza di ogni appello vocazionale emergente dal proprio vissuto;

– e soprattutto l’incapacità di percepire il volto e l’amore dell’Eterno nascosto nella trama della propria storia: una sorta di scissione tra fede e storia.

 

Imparare a scrivere 

Se leggere è cogliere il senso già presente nel dato esistenziale, scrivere significa elaborare personalmente un senso, e in qualche modo attribuirlo alla realtà, in particolare a quella della propria esistenza. Scrivere è in realtà la più alta forma del pensare. Dunque è operazione qualitativamente superiore a quella del semplice leggere, poiché implica un maggior coinvolgimento del soggetto, determinandone una crescita nella qualità della fede. Si potrebbe considerare il passaggio da una fede elementare ad una fede giovanile e creativa.

 

 

Scrivere per dare un senso nuovo 

È molto importante specificare che questo senso attribuito alla propria esistenza nasce sempre, in ultima analisi, dal senso oggettivo, quello già presente (visto prima), ma che ora il soggetto elabora creativamente, applicandolo in modo originale alla situazione del momento e pervenendo in ogni caso ad una sintesi nuova. Parte dunque dal senso già presente per attribuirne uno nuovo alla propria vicenda esistenziale. 

Qui intendiamo il verbo “scrivere” in senso anzitutto simbolico, complementare al “leggere”, ovvero come capacità di dare forma definitiva e compiuta al pensare, che sfoci nella formulazione d’un significato personale da attribuire alla realtà, al proprio vissuto, passato e presente. Ma intendiamo lo “scrivere” anche in forma materiale – perché no? – come esercizio molto concreto e umile di scrittura, che abilita progressivamente a compiere questa operazione di attribuzione di senso anzitutto alla propria storia. Lo riteniamo molto importante dal punto di vista della maturazione dell’atto credente.

 

 

L’umile arte e fatica dello scrivere 

Lo scrivere, infatti, dal punto di vista del metodo e dell’attività mentale (e non solo mentale) che richiede, è molto più coinvolgente del leggere, implica un’operazione più complessa, che va più in profondità, attraverso percorsi e connessioni laboriose, e fa scorgere in modo ancor più preciso e coerente una logica che domina tutto, una mano che tutto avvolge e dirige, mano grande e sicura, che protegge e custodisce, ferisce e risana, mano in cui il giovane ritrova scritto il proprio nome e …soprannome, la propria storia e vocazione, il passato e il futuro, l’amore e il dolore che hanno accompagnato i suoi giorni e tenuto deste le notti… 

Lo scrivere dà solidità e consistenza al lavoro della memoria, la …costringe ad arrivare a conclusioni precise e fa vedere allo scrivente con maggior evidenza quei segmenti di vita ancora privi d’una rivisitazione credente, che ancora attendono di ricevere un senso pasquale; consente di veder meglio certi collegamenti, ma anche certe omissioni, di ritornare più avanti su intuizioni e illuminazioni avute un tempo, senza correre il rischio di dimenticarle, e anche se in effetti il fissare su carta certe idee dà la sensazione d’aver come terminato un dato lavoro, consente pure di ritornarci sopra continuamente per correggere e precisare meglio, approfondire e scrutare più acutamente . Ovvio che può accettare di compiere questa fatica solo chi è umile e ha pazienza, ovvero colui che sa di non aver ancora compreso in pieno il senso del proprio vivere (e morire) poiché è consapevole d’esser dinanzi al mistero, e dunque non ha urgenza di capire tutto[7]. 

 

 

Scrivere per «ricapitolare in Cristo» 

Ma soprattutto dal punto di vista del contenuto la fatica dello scrivere (poiché di fatica si tratta, specie agl’inizi) è preziosa e funzionale ad una crescita nella fede. Poiché diventa di fatto un esercizio di rilettura sistematica e d’interpretazione coerente della propria storia alla luce del mistero della Pasqua del Signore Gesù. 

È Paolo, infatti, che indica con concretezza e precisione il criterio di quella che lui stesso chiama la “ricapitolazione” della vita, di tutte le cose, celesti e terrestri, in Cristo, nel sangue della sua croce, o che noi oggi chiamiamo “integrazione”. I due termini stanno ad indicare un processo che consente al soggetto di raccogliere tutta la propria esistenza, per coglierne il senso a partire dal mistero pasquale, o per dare un effettivo senso pasquale a ciò che, eventualmente, è stato vissuto con altro spirito o atteggiamento interiore. Qui si tratta, in altre parole, non solo di scoprire il senso già presente, quanto di dare un senso nuovo. 

La cosa sensazionale, e tutt’altro che scontata, è proprio questa: che è possibile dare nuovo significato anche al passato, a ciò che abbiamo già vissuto, ed eventualmente abbiamo vissuto male, a ciò che abbiamo rifiutato o allontanato, negato o scaricato sugli altri… o solo sopportato e subito. Certo, perché su un piano credente e della psicologia credente, non esiste il passato, ma tutto può essere risignificato alla luce del mistero della croce di Gesù, piantata nel cuore della storia e d’ogni storia personale, fonte di senso, di luce e di verità come nessun’altra realtà.

 

 

Integrare il male 

Da un lato, per esser più precisi, noi crediamo che l’essere umano sia libero al punto di poter riprendere in mano la propria esistenza, per ridare senso a ciò che ne era privo o pareva averne solo uno negativo, o per dare senso nuovo a ciò che è stato vissuto male. Dall’altro crediamo pure che la fede sia esattamente ciò che consente di fare al massimo grado questa operazione, il cui compimento segnala il passaggio ad una fede adulta da parte di un credente maturo. In realtà, finché uno non compie questa operazione, la sua fede resta infantile. Ed è una fede senza speranza, poco spendibile. 

Se, dunque, imparando a leggere si riconosceva il bene già presente nella vita d’ognuno, apprendendo a scrivere s’impara a riconoscere il male, fatto o subito, dal peccato personale alla violenza sofferta, e soprattutto a dargli un senso redentivo, come ha fatto Gesù, caricando di senso l’evento più insensato che la storia ricordi. 

 

 

Esercizio pratico: dare senso pasquale al vissuto 

L’esercizio da proporre in questa fase, allora, sarà anzitutto quello di concentrare l’attenzione del credente sulla ricerca di quegli episodi della sua esistenza che maggiormente si prestano ad esser memoria del gesto sacrificale di Gesù, della sua passione e morte, del suo modo, in particolare, di riempire di senso quello che sembra assurdo o ingiusto o cattivo, o che forse l’individuo stesso non ha vissuto a suo tempo con questo spirito e con questa memoria. Si tratta, dunque, come abbiamo detto, di ricercare eventi di contatto col male, con una certa negatività più o meno subita e sofferta, magari non ancora integrata e risolta, come può essere una violenza psicologica o morale, una calunnia, un’infermità seria, un lutto…, ma anche con il proprio male personale, con un’infedeltà grave, forse ancora vissuta con sensi di colpa deprimenti e non come luogo di esperienza della misericordia. Non si pretende certo di cambiare immediatamente il modo di considerare questi frammenti di storia, magari sofferta, ma almeno di cominciare ad intravedere il mistero dietro o “dentro” la ferita umana. Abbiamo tanti esempi di persone che hanno lentamente integrato eventi di vita drammatici o che sembravano inesorabilmente segnati da negatività incancellabile[8] . 

Per fare concretamente questo esercizio possono esser molto utili alcune categorie bibliche, come chiavi di lettura-scrittura della propria storia, nella convinzione che la propria vita è modellata, in sostanza, sulla vicenda della storia d’Israele, ne ripete i momenti centrali e più significativi, come se tali eventi fossero i …titoli dei capitoli di quel libro che è la vita di ciascun credente, o come se la storia del popolo eletto fosse la storia-madre di ogni esistenza credente [9] . 

Ovviamente, soprattutto in questa fase, un esercizio del genere può esser portato avanti non solo in un contesto di preghiera, ma di maturità orante, con tutto ciò che comporta in termini di tempo dedicato, di contemplazione del Crocifisso, di preghiera di supplica, di riconoscimento delle proprie paure… La domanda con la quale l’orante si rivolge a Dio non sarà tanto preoccupata di cercare il perché di certi eventi, né s’accontenterà di scrutare il luogo dove Dio s’è nascosto in quella particolare situazione, ma cercherà di comprendere come fare memoria in quel particolare momento di sofferenza del sacrificio del Figlio-Servo-Agnello; come vivere oggi perché quell’evento assuma senso e divenga parte della propria storia di salvezza[10]. Questo tipo di domanda è tipico della persona adulta nella fede. Diventa dunque centrale, in questo momento, la celebrazione del sacrificio eucaristico, come momento assolutamente privilegiato e illuminante di questa lettura, come richiamo quotidiano a ripetere il gesto sacrificale di Gesù, a vivere facendo tutto “in memoria di lui”[11]

In tal modo si delinea sempre più il disegno dell’integrazione della storia attorno alla Pasqua del Signore, e diventa anche più naturale e consequenziale decidere di offrire la propria vita al Dio dell’amore, nella consapevolezza di non far nulla d’eroico…

 

 

Segni di capacità di «scrittura» credente [12]

Chi è capace di scrivere avrà: 

– anzitutto una sempre maggiore integrazione della propria storia, ben oltre la semplice accettazione (e tanto più una passiva rassegnazione), come processo però sempre in atto, mai terminato, sempre alle prese con una presenza di Dio da scoprire e riscoprire nelle pieghe del proprio passato;

– a livello ancora spirituale un’interpretazione della fede sempre più legata alla storia e alla storia personale, perché capace di darle senso, compreso ciò che sembrerebbe ineluttabilmente negativo; 

– una grande familiarità col dato biblico, rivissuto in qualche modo nella propria vicenda esistenziale, dunque personalizzato, in qualche modo, riscoperto ogni giorno come fonte della propria identità; 

– a livello psicologico, e non solo, la certezza della propria positività, che non riposa solo sulla certezza del bene e dell’amore ricevuti, ma anche sulla consapevolezza di esser davvero soggetto della propria esistenza, suo interprete originale, capace di dar senso anche a quello che altri chiamerebbero “destino”;

– un’interpretazione sempre più corretta e dignitosa della libertà, visto che con questa lettura l’individuo è libero persino di capovolgere il significato di certi avvenimenti;

– una grande serenità di fondo, determinata dalla percezione dell’unità e coerenza del proprio vissuto… nel quale l’individuo comincia ad intravedere creativamente una prospettiva vocazionale, almeno come orientamento di fondo;

– una certa maturità di giudizio, nel cogliere anche il senso degli avvenimenti attorno a sé, della storia civile e mondana, senza mai prescindere dal proprio coinvolgimento personale e dalla propria responsabilità. 

 

 

Segni di analfabetismo adolescenziale o d’incapacità di scrittura [13]

Molti credenti oggi, sanno solo leggere, non hanno mai imparato a scrivere la loro fede partendo dalla storia vissuta, o la loro storia dal punto di vista della fede. Tali analfabeti mostreranno allora questi segni: 

– evidentemente il primo segno in tale direzione è il rifiuto di fare questo tipo di lavoro o la paura della fatica d’una riflessione sistematica e coinvolgente;

– una lettura-scrittura superficiale o che procede per luoghi comuni e frasi fatte;

– l’incapacità di uscire da risentimenti, desideri sottili o impliciti di vendetta, aggressività reattiva, da vari virus che infettano la memoria (memoria offesa, arrabbiata, lamentosa, deresponsabilizzante, insensata, depressa… );

– un’interpretazione sostanzialmente adolescenziale della fede e della vita, passiva e ripetitiva, a volte addirittura rivendicativa e pretenziosa;

– l’incapacità di cogliere la funzione del limite e del male, e di convertire tutto ciò in strumento ed occasione di bene;

– una tendenza a ripetere la vita, a subire le conseguenze del passato (magari incolpandone il passato stesso o …la figura materna, di solito); tendenza ad adottare stili di vita regressivi, con atteggiamento più o meno fatalista (“non c’è niente da fare”), più che ad assumere un atteggiamento adulto, libero e responsabile di fronte ad esso.

 

Imparare a decidere 

La prospettiva finale del nostro discorso è quella di aiutare il giovane, che viene accompagnato lungo le vie dello Spirito, a muoversi nel mondo come testimone di resurrezione e di speranza, vivendo così la propria vocazione dentro il mondo oltre che nella Chiesa. È proprio in questo senso che sta andando la Chiesa italiana, anche in preparazione al prossimo Convegno di Verona [14]

Ed è per questo che abbiamo dato un’interpretazione della direzione spirituale anzitutto come progressivo apprendimento della capacità di leggere e scrivere la vita, perché siamo convinti che questo deve fare essenzialmente un accompagnamento nelle vie dello Spirito e soprattutto un accompagnamento che voglia esser vocazionale. Come può scoprire l’azione di Dio, anzitutto, e poi la propria chiamata chi non ha imparato a decifrare ed interpretare la vita attorno a sé? Sarà esattamente da questa lettura-scrittura che emergerà sempre più chiara la vocazione d’ognuno e tutti, davvero tutti, si sentiranno chiamati e provocati a vivere la loro chiamata come personale modalità, davvero unica-singola-irripetibile, di essere credenti. Allora, potremmo continuare, sorgeranno davvero tante vocazioni o, per meglio dire, ogni credente sarà e si sentirà prima di tutto un chiamato: chiamato alla vita matrimoniale, a testimoniare il primato di Dio nel lavoro professionale, qualsiasi esso sia, o a indicare la centralità di Dio e del suo progetto di salvezza di tutto l’uomo nella vita sociale o nell’assunzione di responsabilità pubblica e politica, ma anche a svelare la sua bellezza nella multiforme espressione artistica… e senz’altro ci saranno anche più vocazioni allo stato sacerdotale-religioso. Quali sono i passaggi dalla lettura-scrittura della vita alla scelta della propria vocazione come annuncio di resurrezione e speranza? Quali atteggiamenti provocare perché dalla lettura-scrittura il giovane credente passi alle vie di fatto, alla decisione coerente e consequenziale? 

 

 

Homo responsabilis 

Un autentico “lettore-scrittore” della propria storia è uno che si sente sempre più responsabile di essa, di fronte a Dio, agli altri e a se stesso. Che vuol dire, infatti, respons-abilità? 

* Responsabile è l’individuo capace-di-ascolto (=ob-audiens), o l’essere relazionale proteso a cogliere la domanda a lui rivolta da ogni evento di vita; non il semplice spettatore-consumatore d’essa, ma colui che si sente chiamato dalla vita e dalla propria coscienza, e particolarmente da quell’appello, esplicito o implicito, che viene dall’altro, dal tu, dal volto umano, misteriosa mediazione di quello divino, del volto drammatico del Crocifisso e Risorto.

 Cresce nel senso di responsabilità colui che è capace-di-risposta, l’adulto che non delega la risposta che solo lui può dare, e si compromette nel prender liberamente posizione ed assumere un atteggiamento di fronte a qualsiasi situazione, anche quella che sembra non lasciare alcuna via di scampo né libertà di movimento (come lutti, malattie, incidenti vari…),o che gli chiede un certo prezzo da pagare. 

* Vive in pienezza la propria responsabilità colui che con la sua risposta “obbedisce” a quel vincolo che lo lega alla vita, agli altri e a Dio; a quel legame che rende la sua storia e la sua persona un dono comunque ricevuto, decidendo di trasformarlo in bene donato, o di farsi carico della vita e dell’altro.

 

In sintesi: responsabilità è

– capacità di leggere (di ascolto obaudiens) nei confronti della vita e degli altri (e dell’Altro),

– capacità di scrivere, ovvero di coinvolgersi in una risposta assolutamente personale alle richieste della vita stessa

– coraggio di scegliere di “farsi carico” dei problemi attorno a sé, della vita e degli altri (dinanzi all’Altro).

Se questa è la responsabilità credo che la crisi vocazionale sia soprattutto crisi di responsabilità. La vocazione è un evento di responsabilità: è accettazione di responsabilità. E la crisi vocazionale è, in altre parole, segno di quel cristianesimo sostanzialmente chiuso in se stesso, che si preoccupa di sé e delle sue economie spirituali; del consumatore – potremmo dire – di salvezza, o del tipo, detto in termini ancor più crudi, che “si fa gli affari suoi”, compresi quelli spirituali; del cristiano non salvato, insomma. O ancora, ragionando in termini della capacità di lettura e scrittura, del tipo che ha fatto una lettura molto povera della propria storia, incapace di commuoversi per l’amore ricevuto, e dunque anche meno provocato a farsi carico della vita e degli altri. È il dono, in buona sostanza, e la coscienza del dono che creano responsabilità. E in particolare nulla come la consapevolezza d’essere stati amati genera responsabilità; ecco perché, tra l’altro, molti negano d’aver ricevuto affetto, o lo danno per scontato senza la libertà di meravigliarsene, o enfatizzano i limiti delle persone che hanno avuto accanto nel loro vissuto…, perché “intuiscono inconsciamente” (è possibile, non è contraddizione in termini) questo legame tra amore ricevuto e responsabilità. Ma se la prospettiva della responsabilità può scoraggiare qualcuno (l’immaturo, in fondo), di fatto può attrarre molti altri, che sono ad un certo livello di maturità generale interiore. In altre parole, un’educazione alla responsabilità, e una proposta vocazionale che va in questa direzione finirà per attrarre sempre più persone valide, e non le “mezze tacche” (dagli pseudomistici agli sfaticati, dagli egocentrici agl’imbranati …), come accade a volte anche oggi, quando la pastorale vocazionale o la pastorale in genere è debole… e innocua da questo punto di vista. 

 

 

Coscienza vocazionale 

Un autentico accompagnamento spirituale vocazionale dovrebbe allora provocare il più possibile il giovane credente, non solo perché si coinvolga in modo generico dinanzi al mondo e ai suoi mali, magari con l’aggiunta d’una qualche sensazione d’eroismo, ma perché avverta tale responsabilità come un atto dovuto. 

E questo può percepirlo, ancora una volta, solo chi è stato educato a leggere e scrivere la propria storia come storia di salvezza: solo costui può comprendere il senso della profonda e acuta intuizione di Berdiaev. Lo scrittore russo, infatti, pensa alla storia umana come ad un evento o ad una serie di eventi e storie esistenziali racchiusi tra due domande che Dio pone all’uomo. Più precisamente, immagina che l’inizio ed il termine della storia dell’umanità siano segnati da due interventi inquisitori di Dio apparentemente simili, ma indirizzati a due interlocutori diversi. All’inizio la domanda è rivolta a Caino, il fratricida, colui che è la personificazione del male, per chiedergli conto di Abele, la vittima innocente, come racconta la Scrittura e come ci par logico, per altro. Alla fine la stessa domanda è rivolta inaspettatamente ad Abele, e questo ci sorprende parecchio, benché abbia una sua precisa logica nel pensiero di Berdiaev. Egli, infatti, ritiene che la coscienza morale, in una persona, inizi con la domanda-rimprovero rivolta a Caino, l’espressione del male, ma si realizzi poi pienamente o divenga matura quando la stessa coscienza si lascia indagare dalla provocazione rivolta ad Abele, la …parte buona di noi stessi: “Abele, cos’hai fatto di tuo fratello Caino?”[15]

A me sembra che non solo la coscienza morale, ma anche quella vocazionale inizi sostanzialmente a questo punto, quando il credente si lascia mettere in discussione da questo tipo di provocazione, e capisce che non può più pensare la propria vita come …propria, o quando si lascia interpellare da Dio a farsi carico del male del mondo. 

E penso che entrambe, coscienza morale e coscienza vocazionale, siano componenti d’una coscienza pasquale; la coscienza di chi è stato liberato per grazia, attraverso la croce di Cristo, dal proprio egoismo (anche quello spirituale). Coscienza di chi non si sente scontatamente dalla parte del bene, in un mondo in cui gli schieramenti sembrano rigidamente contrapposti, ma si fa carico, proprio grazie alla salvezza ricevuta (e non per un eroismo presunto e presuntuoso), del male che c’è in giro e decide di rispondergli non con altrettanto male, ma facendo partire il dinamismo opposto del bene: un dinamismo assolutamente nuovo, diverso, sensato, giusto, pacifico, mite…, che fa di quel gesto aggressivo l’occasione o lo spunto per affermare ciò che gli si oppone e può così trasformarlo[16] . 

In quella trasformazione è racchiuso il cammino e il mistero della vocazione cristiana, di ogni vocazione. La vocazione cristiana è strettissimamente collegata a questo tipo di coscienza, frutto della familiarità del credente col mistero della croce. A che serve oggi consacrarsi a Dio o, più radicalmente, che significa oggi esser cristiani? …a cosa dovrebbe condurre, se non a farsi carico del male e del dolore del mondo? È la coscienza, ad esempio, di La Pira, di Charles de Foucauld, dei monaci trappisti trucidati dal fondamentalismo islamico algerino, di quei tanti credenti conosciuti e sconosciuti del nostro tempo che hanno saputo interpretare il rapporto con questo nostro tempo, considerato da molti ormai perduto e come annullato in una cultura di morte , con la speranza di chi ha imparato a conoscere i percorsi di Dio lungo le vicende umane; costoro, infatti, guardano a questo mondo con benevolenza e senza alcuna presunzione di superiorità, ma anche col coraggio e la libertà di dire parole di verità[17]

Perché è di verità che il mondo ha bisogno, come ne ha bisogno, nonostante le apparenze, questa stessa falsa cultura di morte; ma si lascerà dire parole di verità solo da chi vive dentro questo mondo ed è solidale con esso, da chi se ne sente responsabile ed abbraccia la sua causa, da chi fa dei problemi del mondo, dell’ambiente, del territorio in cui vive, il luogo in cui ancor oggi s’incarna il Figlio di Dio per dare salvezza. 

Solo costui è un credente che trasmette speranza, ovvero “tira o attira l’avvenire di Dio nel presente del mondo”, come afferma J. Moltmann, o usa come criterio delle proprie decisioni “la impossibile possibilità di Dio” (B. Forte), scommettendo dunque sull’uomo, che “è la speranza di Dio” (M. Zundel). 

 

 

Criterio decisionale vocazionale 

E se proprio vogliamo indicare con ancor più precisione il criterio decisionale di questo credente, quello che anche su un piano educativo potrebbe condurlo lentamente ad una vera e propria scelta vocazionale, esso ci è molto chiaramente indicato dalla vicenda del Figlio-Servo-Agnello, che s’è caricato sulle spalle il peso dell’umanità peccatrice, e proprio per questo le ha tolto il peccato, con il castigo della morte ad esso connesso. 

Un maestro di vita spirituale come p. Cantalamessa, dice al riguardo che “dopo il peccato (dei nostri primogenitori) la vera grandezza di una creatura umana si misura dal fatto di portare su di sé il minimo possibile di colpa e il massimo possibile di pena del peccato stesso, cioè nel non commettere il male e tuttavia accettare di portare le conseguenze di esso. Questo è il tipo di sofferenza che avvicina a Dio. Solo Dio, infatti, se soffre, soffre da innocente” [18]

Quando questo atteggiamento diventa criterio decisionale, abbiamo un credente totalmente inserito nel mondo, che sta davvero imparando a riconoscere l’azione di Dio nella storia e a dare una risposta vocazionale piena, matura, totale. E come agisce ancora Dio nella storia, come può ancora agire l’Eterno negli spazi del tempo, se non suscitando nel cuore dei credenti la stessa obbedienza del Figlio, la medesima libertà del Servo di offrire il proprio corpo per la salvezza dell’umanità, l’identica forza e coraggio interiore dell’Agnello innocente che non reagisce al male con il male?

 

 

Esercizio pratico: il discernimento quotidiano obbediente e speranzoso 

Poste queste premesse, l’esercizio cui invitare il credente nel cammino di accompagnamento spirituale sarà quello di non applicare tale criterio decisionale solo alle grandi scelte, ma, idealmente, ad ogni istante della vita. Anzi, solo quando tutta la vita conduce coerentemente nella medesima direzione, diventa possibile fare una scelta di vita cristiana. Quando, infatti, tutto l’organismo credente “pende” da quella parte, corpo-mente-forze-sensibilità…, si crea come una situazione di familiarità profonda che consente alla mente di penetrare sempre più nel mistero della salvezza che agisce nella storia umana, di cogliere il proprio posto in questa storia che si compie nell’oggi, e dà forza alla volontà per scegliere concretamente di assumere questo ruolo fino in fondo. 

Tale esercizio, ancora più concretamente, è tipico del credente ob-audiens, che in ogni evento cerca Dio e i segni oscuri della sua presenza; in ogni persona e relazione coglie e incontra l’Eterno; in qualsiasi cultura ed espressione umana avverte un mistero degno d’attenzione e rispetto che non sopporta schematismi interpretativi riduttivi; in ogni istante della propria esistenza si sente davanti a Dio, braccato da lui, ma al tempo stesso sempre alla sua ricerca, senza sosta. 

Forse questo atteggiamento ob-audiens è il culmine della speranza. “La speranza, infatti, non sta nell’attendere che le cose fuori di noi volgano al meglio. Sta nel costruire dentro di noi un rapporto migliore con quello che accade nel nostro animo. Sta nell’aprirci al Dio della novità. Sta nell’accettare di mollare la presa sull’oggi per credere in un futuro che non possiamo vedere ma che possiamo affidare a Dio” (J. Chittister). 

 

 

La scelta cristiana 

In questo paragrafo non seguiamo lo schema degli altri due punti, nei quali abbiamo confrontato i segni di maturità con quelli d’immaturità circa la capacità di leggere e scrivere la propria storia, ma confrontiamo tra loro due tipi fondamentali di decisione: quella cristiana e quella “solo” umana, ovvero priva di prospettive trascendenti. Iniziamo da quella cristiana. 

– La capacità di decidere, da un punto di vista credente, denota soprattutto una fondamentale fiducia della persona in se stessa e nell’altro, che sono due aspetti o conseguenze della virtù teologale della speranza, virtù della fiducia in Dio. Diciamo allora che questo è un segno e, al tempo stesso, un punto su cui lavorare nell’accompagnamento spirituale.

– La speranza teologale è ed innesca una fiducia più forte d’ogni calcolo, eppure umile e fiduciosa, nella promessa dell’Altro, che è venuto e viene costantemente a visitarci. Da questa fiducia derivano due conseguenze molto importanti: un ottimismo di fondo, che è poi il tipico ottimismo del credente, legato alla certezza dell’intervento di Dio, e la capacità-libertà di muoversi e di decidersi senza aspettare che tutto sia limpido, evidente, credibile, prevedibile, garantito, in prospettiva vincente…, ma accettando anche una certa ambiguità ed oscurità. Mi pare che la risposta di Maria nel momento dell’Annunciazione rappresenti esattamente questo tipo di scelta, con la libertà che significa.

– Anzi, la decisione cristiana è certo precisa, ma mai chiara in tutti i dettagli, tale da porre al riparo da ogni sorpresa. Tanto più quella vocazionale, che non solo viene compresa progressivamente, ma che ad ogni passo svela esigenze nuove e chiede dunque anche la disponibilità a rinnovare la propria scelta e le proprie motivazioni. Per questo si parla di formazione permanente, anche riguardo alla scelta degl’inizi, che non può rimanere tale e quale, ma va continuamente riproposta e …scelta di nuovo.

– Addirittura potremmo dire che la decisione cristiana è una decisione a rischio, perché in essa, per natura sua, rimane sempre un residuo di insicurezza intellettuale e morale, che può essere superata solo osando e rischiando. Ciò significa che il punto d’appoggio della decisione cristiana non sono le capacità del soggetto o comunque la sua persona, ma un altro, anzi un Altro. Esempio dell’autentica scelta del credente, in tal senso, è Pietro che, dopo la pesca fallimentare notturna, e nella previsione di fare una cosa poco sensata da un punto di vista professionale (e che potrebbe esporre ad una brutta figura), decide di gettare le reti solo “sulla parola di Gesù” (cfr. Lc 5,5).

– La decisione tipicamente cristiana è quella a massimo costo, ovvero quella in cui il credente preferisce l’azione che fra tutte esprime la maggiore intensità d’amore e di donazione di sé, chiedendo dunque un prezzo anche alto[19].

– Ancora, la decisione cristiana fa posto all’altro, lascia che un altro possa entrare nella vita del soggetto, non è ossessivamente preoccupata della propria autogestione. Per questo può aprirsi alla prospettiva vocazionale, poiché “riconoscersi in una vocazione significa esser pronti a rispondere all’enigma (della vita), pur in assenza di certezze, lasciandosi orientare da una fiducia in colui che chiama. Sentirsi chiamati significa accettare che non sei tu a pronunciare la prima parola. La tua parola è già risposta. Sei già dentro un piano, che tiene conto di ciò che sei, della tua individualità essenziale. Non sei da solo, questo  significa vocazione”[20]

– Ma soprattutto, in riferimento al nostro tema, la capacità di decidere da credente di fronte alla storia è ciò che permette di cogliere con precisione l’azione misteriosa di Dio nella storia stessa, azione-presenza che non è mai percepibile a tavolino, ma solo da chi vive fino in fondo la propria vocazione.

 

 

La scelta (solo) umana 

Potremmo riprendere gli elementi appena visti e rovesciarli in negativo. Al contrario, infatti, della scelta che s’ispira ad una prospettiva credente, la decisione semplicemente umana deve obbedire alle seguenti qualità o pretese: 

– dev’essere una scelta sicura, in cui gli elementi a rischio devono esser ridotti al minimo, e sicuro dev’esser soprattutto un certo vantaggio psicologico per la persona; insomma la scelta dev’essere redditizia dal punto di vista della stima di sé, della propria immagine, della considerazione presso gli altri, e dunque dev’essere una scelta che la persona sente alla sua portata o per la quale si sente del tutto capace (per cui sceglierà solo ciò che è sicurissimo di saper fare, finché la vita diventerà una mesta ripetizione di sé, come una fotocopia).

– Dovrà poi essere una scelta a minimo costo, ossia il soggetto preferirà quella decisione che gli consente di raggiungere l’obiettivo col massimo d’efficienza e il minimo di perdita; insomma, una scelta per nulla costosa, in cui non ha niente da rimetterci dal punto di vista dei propri interessi soggettivi.

– Infine dovrà essere una scelta precisa e chiara, prima ancora della sua attuazione, in cui nulla è lasciato al caso o all’improvvisazione, per eliminare ogni eventualità d’un fallimento personale. 

– Di fatto, questo tipo di scelta o di predisposizione decisionale nasconde un atteggiamento piuttosto debole e povero, bisognoso di cautelarsi e di difendersi; un atteggiamento in sostanza pauroso di fronte alle scelte, non disposto a correrne il rischio, che anzi tenderà a ridurre al minimo. Avremo in questo caso un individuo che rinuncia a vivere e a lasciarsi chiamare. O che sarà sempre più incapace di mostrare l’azione di Dio nella storia; di quel Dio che chiama ogni uomo ad assumersi le proprie responsabilità.

 

 

Note 

[1] F. TATA, Criteri vocazionali, in “Testimoni” 7/2006, p. 12. 

[2]  Secondo San Giovanni della Croce: “La fede è nella comprensione, la speranza nella memoria e la carità nella volontà”. La speranza, che è rivolta al futuro, ha le sue radici nella memoria; perché l’esperienza passata è il terreno sul quale basiamo la nostra fiducia nel futuro. Per avere una solida speranza, bisogna avere una buona memoria. 

[3] R. GUARDINI, Accettare se stessi, Brescia 1970, p. 13. 

[4] H.U. VON BALTHASAR, Pregare, Casale Monferrato 1989, pp. 8-13. Del tutto opposta a questa prospettiva è quella certa cultura di morte evidente in questa frase di J.P. Sartre, secondo il quale ogni esistenza “nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per caso” (cit. in “Avvenire”, 5/II/1999, p.18). 

[5] Circa questo metodo cfr. A. CENCINI, L’albero della vita. Verso un modello di formazione iniziale e permanente, Cinisello B. 2005, pp. 166-168. 

[6] Cf Ibidem, pp. 174-176. 

[7] Ibidem, p. 177. 

[8] Mi permetto di rinviare ai casi descritti nel già citato volume L’albero della vita, di don Luigi (pp. 181-183), del card. Bernardin (pp. 291-293), di don Giorgio (pp. 300-303), di S. Bakhita (pp. 333-336), di suor Generosa (pp. 336-338), ecc. 

[9] In realtà per portare a termine correttamente questo lavoro di scrittura della propria storia sarebbe importante curare la formazione della memoria, della memoria affettiva, razionale e credente, con le rispettive categorie interpretative (psicologiche, intellettuali e bibliche). Sintesi di queste memorie sarebbe la memoria spirituale o dell’uomo spirituale dalla coscienza pasquale (cf CENCINI, L’albero della vita, pp. 193-235). 

[10] Sulla stessa lunghezza d’onda il pensiero e l’esperienza personale di Etty Hillesum: “Il dolore ha sempre preteso il suo posto e i suoi diritti, in una forma o nell’altra. Quel che conta è il modo con cui lo si sopporta, e se si è in grado di integrarlo nella propria vita e, insieme, di accettare egualmente la vita. A volte devo chinare il capo sotto il gran peso che ho sulla nuca, e allora sento il bisogno di congiungere le mani, quasi in un gesto automatico, e così potrei rimaner seduta per ore, per dirmi: so tutto, sono in grado di sopportare tutto, sempre meglio, e insieme sono certa che la vita è bellissima, degna di esser vissuta e ricca di significato” (E. HILLESUM, Diario 1941-1943, Milano 2000, p.137). 

[11] Cfr. CENCINI, L’albero della vita, pp. 149-150; pp. 171-174. 

[12] È l’esperienza che ho condotto e sto conducendo da un paio di decenni a questa parte: quella di dedicare l’ultimo anno di preparazione ai voti perpetui (e all’ordinazione sacerdotale) alla lettura-scrittura della propria storia, alla luce di precise categorie bibliche e psicologiche, proprio per accompagnare il giovane a vivere l’offerta di sé come un gesto di gratitudine verso Dio, in umiltà e verità. Esperienza molto positiva per quel che svela al giovane di sé e soprattutto della presenza di Dio nella sua storia. 

[13] Sui virus della memoria cfr. CENCINI, L’albero della vita, pp. 180-192. 

[14] Forse la crisi di vocazioni all’impegno politico vissuto da credente è la crisi attuale più grave nel mondo cristiano, e dalle conseguenze pesanti, che sono sotto gli occhi di tutti. 

[15] N. BERDIAEV, De la destination de l’homme. Essai d’Ethique paradoxale, Lausanne 1979, p. 356. Così in altro passo della stessa opera: «Il nostro dovere morale è quello di alleviare lasofferenza, sia quella del criminale che quella del più grande peccatore, poiché, in definitiva, non siamo forse tutti noi dei criminali e dei peccatori?» (p. 251, corsivo nostro). 

[16] Commenta Ronchi, immaginando una soluzione della vicenda: «Abele risorgerà non per la vendetta, ma per custodire Caino. La terra sarà nuova quando le vittime si prenderanno cura dei carnefici. Fino a cambiarne il cuore. Tutto attorno e dentro di noi dice: “Fuggi da Caino! Allontanalo!” Poi viene Gesù: “Amate i vostri nemici. Avvicinatevi”. E capovolge la paura in custodia amorosa. Quando Abele oserà farsi prossimo al suo uccisore, allora il Regno di Dio sarà davvero prossimo ad ogni cuore d’uomo… Vangelo da Dio, e non da “uomo”, vangelo “impossibile”» (E. RONCHI, L’amore? Gioca gratis e d’anticipo, in “Avvenire”, 24/V/2002). 

[17] Dopo l’11 settembre Bauman immagina il nostro mondo come un aereo senza pilota. I passeggeri scoprono con orrore che la cabina del pilota è vuota e che non c’è alcun modo di azionare il pilota automatico; non si sa quindi dove l’aereo è diretto, dove atterrerà, chi deve scegliere l’aeroporto, e se ci sono regole per permettere ai passeggeri di contribuire alla sicurezza dell’arrivo. 

[18] R. CANTALAMESSA, Il mistero del Natale, Milano 1999. 

[19] Sulle caratteristiche della decisione cristiana in prospettiva vocazionale cfr. A. CENCINI, Vangelo giovane 2. Compendio di animazione giovanile e vocazionale, Roma 2005, pp. 13-44. 

[20] G. SCARAFILE, La vita che si cerca, Cantalupa 2005, p. 26.