N.03
Maggio/Giugno 2009

Le mille e una storia

La trama è nota: il re persiano Shahriyàr difettava di miseri­cordia e humor. Tradito da una delle sue mogli, in preda a rancore e misoginia, amava ogni donna una sola notte, ucci­dendola prima dell’alba. La bella e furba Sharazad capì che l’unico modo per tenersi viva era raccontare delle storie, rimandandone la conclusione al giorno dopo; Shahriyàr non poteva rinunciare a sapere come andassero a finire, s’innamorò della ragazza e, dopo Mille e una notte, decise di salvarla.

Passando dalla Persia del X secolo d.C. agli anni ’80, ricordo che da bambino ascoltavo Jovanotti e Gente della notte, canticchiando: «Di notte le parole scorrono più lente, però è molto più facile par­lare con la gente, conoscere le storie, ognuna originale». E così, mentre mia mamma mi metteva a letto al massimo alle 8.30 di sera, dopo i Puffi, fantasticavo di quel mondo al contrario; non nego che incidesse anche l’affermazione di Jovanotti secondo cui “di notte le ragazze sembrano tutte belle”.

Chi scrive sa bene che l’unico modo per tenersi vivi è racconta­re delle storie. E ognuno di noi sa altrettanto bene che la notte è un tempo di racconto particolare; quello in cui si fanno le rapine e l’amore, in cui c’è lo sballo, ma è anche il tempo in cui si alzano più spesso gli occhi al cielo per pregare; ci sono il sonno e la lettura, il pericolo e il ritorno; il tempo del sogno e della profezia, scelto da Dio per presentarsi ad Abramo e a Giuseppe; il tempo dell’addio, in cui si percepisce che è troppo tardi per tante cose. Di notte tutto sembra urgente, impossibile da rimandare. A chiunque è capitato di mandare un messaggio ad una persona per poi pentirsene il giorno dopo; il mattino è più codardo, portando in sé la menzogna che ci sia tempo per fare tutto.

La notte è la stanchezza, la fragilità e dunque, forse, il nucleo vero dell’umanità. Ma, al di là delle banali considerazioni sulla not­te come momento diverso dal giorno, quel che è certo è che la notte è tempo e, in quanto tale, occasione. Cosa fanno i giovani di notte? La loro storia, ovviamente.

 

La Ville Lumière

Nel 1417 Sir Henry Barton, sindaco di Londra, ordina di mettere delle lanterne tra il giorno dei Santi e quello della Presentazione di Gesù al tempio, di modo che d’inverno sia più sicuro circolare per la città. Per secoli si bruceranno olio di oliva, di sesamo, cera d’api, ma nel 1825 Parigi è la prima città al mondo in cui viene introdotta un’illuminazione a gas centralizzata. È per i lampioni e non per Vol­taire che la capitale francese viene chiamata Ville Lumière. Dalla fine dell’Ottocento si diffonde l’energia elettrica, che manderà in pensione i lampionai: di notte si comincia ad uscire, a passeggiare, a vivere.

La notte non è sempre stata la stessa, nella storia. Certo, resta la metafora dell’ignoto e del pericolo, ma è anche e sempre più – di­versamente che in passato – un tempo normale di vita. Un tempo luminoso, non solo per i fanali, ma anche per la morale; ancora, negli anni Settanta le femministe gridavano nei cortei: «La notte ci piace, vogliamo uscire in pace», non solo per la scarsa sicurezza del­le città, ma anche perché la reputazione di chi andava in giro dopo il tramonto non era delle migliori. Oggi, al di là delle emergenze degli ultimi tempi – pur pompate dai media – non è forse più così; ed è questa, secondo me, la particolarità dei giovani in relazione alla notte. Che non è più e solo il tempo della trasgressione, dei brutti incontri, delle persone poco raccomandabili, dei peccati inconfessa­bili e delle relazioni estreme; la notte è anche un tempo da vivere come un altro, organizzato e contemplato nel quotidiano, normale ancor più che rituale.

Certo, ci sono i drammi prettamente notturni, che non si posso­no ignorare: le stragi sulle strade, l’abuso di droghe e alcool, l’acce­lerazione esasperata delle esperienze, la violenza. E lì è certamente necessario intervenire. Ma esiste in realtà anche una generazione serena ed equilibrata, che vive abitualmente la notte come un tem­po per sé, distante dalle giornate delle università frenetiche o dei lavori precari, in cui rilassarsi, divertirsi, coltivarsi. Un tempo del sé e delle relazioni. Si sta da soli, con il proprio libro o con il proprio sogno; o con gli altri, in internet e nelle piazze, nelle discoteche, nelle spiagge, nelle case. Si esce, insomma, per entrare nel proprio mondo.

 

Spingendo la notte più in là

È noto il titolo di un libro di Mario Calabresi, figlio del commis­sario Luigi: Spingendo la notte più in là. Non è solo un invito alla vita, all’evitare l’oblio, il buio delle coscienze; è anche il monito che ri­corda che ogni generazione ha i suoi drammi e le sue differenze.

La mia, per esempio, che pure ha tanti difetti, non ha mai origi­nato gli errori e gli orrori degli anni Settanta; ricordo questo perché c’entra con la notte e con il tentativo diffuso di bollare i giovani come un insieme di individui senza valori, senza morale e senza nemmeno spina dorsale. È una dimensione di paura: si demonizza ciò che non si conosce. Ma questo atteggiamento così diffuso fa sì che si stia perdendo un’occasione. Anche di notte.

Salvo alcune lodevoli eccezioni, le agenzie culturali tutte, le fab­briche di senso e di comunità – e, dunque, anche la Chiesa cattolica – sono spesso chiuse di notte. Hanno rinunciato alla notte. Certo, non discuto che ci siano forse altre e ben più pressanti emergenze nell’affrontare la realtà; d’altra parte, è bene mettere a fuoco anche questo punto. L’assenza di certi luoghi, peraltro, è vistosa: gli indi­rizzi della notte – è una constatazione e non un giudizio – sono spazi di business, locali, discoteche o bar. Non sono quasi mai luoghi col­lettivi e pubblici, salvo più spesso i centri sociali che i patronati. Non sono chiese o biblioteche, cinema o teatri. Sono luoghi di consumo, più che di condivisione.

Partendo da questo assunto, è importante sia non cadere nella menzogna dei giovani che pensano solo allo sballo, sia evitare la fa­cile retorica dei giovani che pongono continuamente domande, che hanno continuamente problemi, che si sentono sempre e comun­que soli in mezzo a un gruppo e stanno male. Dico una cosa che mi auguro sia scontata: non bisogna essere presenti solo nel dolore o vederlo dappertutto per trovarsi un ruolo; bisogna anche essere capaci di condividere la gioia, di moltiplicarla.

La notte, infatti, può essere sì un tempo privilegiato dell’anima, in cui intercettare chi ha voglia e necessità di sfogarsi, ma può e deve essere anche un semplice scorcio di divertimento, evasione, disimpegno. Infatti nella notte non c’è solo il disagio, che pure deve essere fronteggiato; c’è anche la possibilità dell’incontro, del dialo­go. E anche da qui affiora l’anima. Il desiderio.

Non c’è bisogno, infatti, di una presenza invasiva, morbosa, ossessiva, volontaristica e inefficace, ma di una presenza laica, in ascolto, che si sostanzi innanzitutto di curiosità, oltre che di propo­sta. Bene le chiese aperte la notte, per intercettare chi voglia pas­sare. Bene le maratone di preghiera. Ma forse è importante anche semplicemente esserci, senza volere a tutti i costi proporre modelli alternativi; cercare, ma essere anche pronti nel momento in cui si è cercati. La notte come tempo vuoto, in conclusione, non esiste più; è necessario spingerla più in là. E, dunque, spingersi più in là.

 

Con le nostre notti bianche

«Era una notte incantevole, una di quelle notti che ci sono solo se si è giovani». Così cominciano Le notti bianche di Fëdor Dostoevskij, narrate da un giovane di cui non si sa nulla, nemmeno il nome, se non che s’innamora di Nasten’ka, una ragazza che incontra per quattro notti di fila, finché non tornerà l’amante di quest’ultima e il protagonista rientrerà nel suo sogno e nelle sue lunghe passeggiate per San Pietroburgo. Del narratore si sa soltanto che è giovane, e questo basta per identificarsi con lui, con il suo modo incantevole di uscire la sera per cercare se stesso, dialogare con i palazzi e osser­vare l’acqua della Neva che scorre verso il mare.

La vicinanza con il circolo polare artico fa sì che a San Pietro­burgo, tra maggio e giugno, il crepuscolo duri tutta la notte e che sia dunque possibile muoversi di notte con il chiarore; sono le notti bianche, in cui la città si riempie di vita e di fermenti culturali. Chi non ha la luce polare, come già detto, ha l’elettricità.

La prima “Nuit blanche si tenne a Parigi nel 2002, replicata ogni anno la prima notte fra sabato e domenica di ottobre; dai negozi ai musei, dai parchi ai ristoranti. Centinaia di eventi organizzati, con installazioni artistiche, concerti, teatro, animazione per bambini. Negli ultimi anni le “Notti bianche” si sono diffuse un po’ dapper­tutto: da New York a Roma, da Helsinki a Istanbul, da Napoli a Seul. Luoghi abitualmente chiusi vengono restituiti alla città: di notte si vive come di giorno. Meglio che di giorno.

 

Supini o proni?

Da anni, a Venezia, ai Frari, esiste un’iniziativa che mi ha colpito molto: uno storico patronato/teatro è stato rivitalizzato – da un frate insieme ad alcuni collaboratori – attraverso la semplice intuizione di aprirlo, concederlo a chi ne avesse bisogno. Venezia è una città particolarmente costosa, in cui gli spazi sono ambiti e commercia­lizzabili, il che spesso crea un ostacolo insormontabile per le giovani associazioni; riuscire a costituirsi e costruire i propri progetti può risultare più difficile che altrove. Venezia è peraltro una realtà par­ticolare, privilegiata per tanti motivi, in cui la popolazione giovane è prevalentemente universitaria. Non è quindi possibile l’applica­zione meccanica del modello dei Frari in altri contesti, ma quel che conta è capire la realtà in cui bisogna agire, quali sono i giovani a cui ci si vuole rivolgere, che siano calciatori o teatranti, operai o liceali. Occorre cogliere le differenze, per ricostruire la comunità a partire dalle identità.

Ai Frari, si è detto, sono state gratuitamente messe a disposizio­ne le strutture esistenti a chi ne chiedesse l’uso: dai musicisti alle associazioni di pacifisti, dai genitori ai gruppi di acquisto solidale. Non sono state dimenticate le attività “canoniche”, dal catechismo allo scoutismo, ma si è al tempo stesso deciso di accostarle e fonderle con altre iniziative. In questo modo, negli anni è stato organizzato un cartellone di eventi davvero molto vario: dai giovani della break dance ai pugliesi che propongono la pizzica, dai musicisti classici al mondo underground dell’elettronica, dalle compagnie che rappre­sentano le commedie di Carlo Goldoni al teatro di ricerca in colla­borazione con le Università veneziane. Molte persone, così facendo, si sono affezionate ai Frari, visto che hanno sentito come proprio un luogo di tutti. Negli anni sono stati organizzati centinaia di appun­tamenti: rassegne di teatro (“ApalcoAperto”), cineforum, incontri sul consumo etico, giornate per giovani studenti di filosofia e per anziani desiderosi di fare ginnastica. È stato inventato – a gennaio, nel periodo in cui a Venezia è più carente l’offerta aggregativa – un contenitore, “Frarifuori”, una vera e propria jam session di tre setti­mane e più di quaranta eventi, nella quale sta tanto la cena quanto il film muto, tanto la conferenza quanto l’opera.

Ma ciò che ci interessa, visto che si parla di giovani e notte, è che, all’interno di questa nuova idea di vivere lo spazio del patro­nato, ai Frari hanno pensato anche alla notte come parte necessaria della programmazione culturale e aggregativa; per questo motivo sono nate anche le “Proiezioni Supine”.

Si tratta di un tipo molto particolare di cineforum: i film vengo­no proiettati a tarda notte e non sullo schermo, ma sul soffitto del teatro. Gli spettatori, per assistere allo spettacolo, devono sdraiarsi per terra, trovando un materassino e decidendo se portarsi un sacco a pelo da casa. Se arrivano al mattino, hanno diritto persino alla co­lazione, con brioche e cappuccino. Tutto questo mentre sul soffitto passano Bergman, Coppola, Kim-ki-Duk, Fantozzi. L’iniziativa ha riscosso indubbio successo, è stata copiata e continua tuttora. Ha soprattutto creato un precedente: si possono fare cose anche di not­te. Di più: il calendario di un centro che si propone rivolto ai giova­ni non può prescindere dalla notte, dal prevedere alcune iniziative anche oltre la mezzanotte. Molto spesso si ha infatti l’impressione che chi anima e organizza i patronati consideri la notte come un territorio straniero, popolato da altri. Nel caso dei Frari, invece, non si è stati proni a questo concetto, ma supini.

E forse questa è la strada da seguire.

 

Sentinella, a che punto è la notte?

Di notte, si è detto, i giovani fanno la loro storia. E, certamente, sono più disposti a raccontarla. Hanno più tempo a disposizione. Più voglia. Chi li ascolta?

La notte, vorrei dire, è uno spazio in cui è importante esserci, mettersi a disposizione, anche solo per far sì che le persone leghino ai luoghi dei ricordi piacevoli e intensi, che porteranno dentro tutta la vita. Anche solo per vedere un film, fare una chiacchierata, con­dividere una riflessione.

La notte è un luogo fondamentale del crescere, per poi tornare al proprio mondo, per conservare intatti i propri sogni. La Chiesa deve esserci per proporre il proprio senso al ricominciare dell’alba. Per evitare la tentazione più pericolosa dei giovani: quella di vivere solo la notte, di disconoscere la luce e di odiare il proprio giorno. Di lavorare fino a venerdì sera per poi cercare quel che più somiglia all’evasione, ovvero l’allontanarsi da sé.

Scriveva Mario Luzi:

«La notte lava la mente.

Poco dopo si è qui come sai bene,

file d’anime lungo la cornice,

chi pronto al balzo, chi quasi in catene».

Di tutte quelle anime, di quelle in catene e di quelle pronte al balzo, di quelle nel disagio e di quelle nella gioia, deve interessarsi una Chiesa vera, presente.