N.03
Maggio/Giugno 2009

Una voglia di vita piena… in Cristo

Attenzione alle domande di senso e “compimento”, immer­sione profonda nella realtà e nella vita di ogni giorno, rife­rimento incessante alle ricchezze e agli appuntamenti “or­dinari” – ma potenti – che la comunità ecclesiale offre sempre e a tutti: ecco i cardini per un’autentica “vita nello Spirito”, da gio­vani e… non.

«Che senso ha vivere? Pregare? Aiutare qualcuno? Fare del bene? Studiare? Lavorare? Divertirsi? Spesso mi sono interrogata su queste cose. Finalmente quest’estate ho ricevuto un consiglio che veramente mi ha fatto capire che tutte queste cose hanno senso se fatte per il Signore, ho capito che tutto acquista un senso e si ac­coglie tutto con gioia se per il Signore. Ringrazio la persona che mi ha dato questo consiglio, perché da qui è partita la riflessione che è diventata il mio modo di vivere ogni giorno»[1].

Che senso ha…? Questa domanda – qui espressa con le parole di una giovane che frequenta una parrocchia di Mestre – non abita forse nel cuore di tutti, giovani e meno giovani? E quel bisogno di dare un nome e un contenuto più profondo, stabile e duraturo, alle cose che si stanno facendo, alle situazioni o alle relazioni in cui si è immersi e, soprattutto, alla propria persona… non è ciò che accom­pagna lo scorrere della vita di ciascuno?

C’è, chiaramente, un momento della vita in cui questa domanda e questo bisogno trovano sfogo ed espressione in modo particolare. “Accade” però che, ad un certo punto – quasi improvvisamente e per effetto di qualcosa o… qualcuno -, emerga una risposta o un inizio di risposta. Un’intuizione, un barlume, un segnale, una frec­cia che indica il cammino, una pro-vocazione, una manifestazione di volontà più decisa, un’emozione non solo passeggera, un “even­to” che dà una scossa alla vita e fa compiere un passo in avanti. Tanto da divenire… “il mio modo di vivere ogni giorno”.

Questa esperienza, in genere, connota un pezzo di giovinezza. E ha oltretutto la singolarità – se assecondata e… compiuta – di far “sbocciare” la persona, conducendola più intensamente nella fase adulta della vita. Per poi, talora, ripetersi un po’ più in là, accom­pagnando altri passaggi decisivi dell’esistenza. È un’esperienza che segna profondamente – e “orienta” – le scelte di vita affettiva e pro­fessionale perché, in buona sostanza, ha un carattere essenzialmen­te “vocazionale”. Comporta, cioè, l’intraprendere una strada di ri­sposta, un corrispondere a ciò che riconosci come preparato e fatto apposta per te… e per nessun’altro!

 

Una domanda di “senso” da far emergere e prendere sul serio

Ciò che è necessario – e vitale! – per tutti, prima o poi, è far emer­gere questa domanda “scritta sul cuore” e prenderla finalmente sul serio. Che sia questa la caratteristica vera dell’età “giovane”? E il percorso di risposta non corrisponde forse al graduale passaggio, con tempi e modalità differenti per ciascuno, all’età “adulta”?

Partire da queste considerazioni aiuta a cogliere il significato rea­le della posta in gioco e a sfrondare il discorso da potenziali divaga­zioni. Certo, non sfugge il fatto che oggi tale domanda di senso può essere soffocata e sommersa, soprattutto nei ragazzi e nei giovani, da altre questioni meno rilevanti e meno autentiche (e più “in­dotte”). Né vanno sottovalutate la confusione e l’irrazionalità che, talora, accompagnano questa ricerca. O la tentazione – sottile e ri­corrente, perché più comune ed esplicita di un tempo – della sostan­ziale “nullità” di senso che, a volte, sembra pervadere tutto e tutti. Eppure, sistematicamente, la domanda riemerge (proprio perché incisa nel cuore) e con essa il bisogno di senso. Semplicemente, ce l’abbiamo dentro e non ci dà pace finché non proviamo seriamente a corrispondervi.

Solo la strada della risposta può, allora, generare soddisfazione e gioia. Può aprire uno squarcio di luce e, finalmente, di pienezza. E qui “ri-scopriamo” che c’è bisogno di qualcosa, anzi, di Qualcuno, che dia unità al tutto di noi stessi e del mondo. C’è proprio bisogno di un “centro” che metta ogni segmento della vita al suo giusto posto. Le tante persone e le comunità che vivono nella fede testimoniano ogni giorno che, senza dubbio, questo centro “è il Signore!”[2].

 

Partire da se stessi e dalla realtà e… scoprire che Cristo c’entra con tutto questo!

Giovani e fede, il loro rapporto con Dio e con la Chiesa: che il nesso sia problematico è evidente, ma vale la pena affrontare il tema senza lamentazioni disperanti o fuorvianti.

 Martin Buber, in un testo prezioso e fondamentale per tante generazioni, raccomandava: «Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa che conta. Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé»[3]. Partire da se stessi e conoscersi: è il dato fondamentale, ma guai a fermarsi lì! Il passo ulteriore è quello di assumere, consapevolmente, la realtà nella quale siamo immersi. E arrivare ad incontrare quel Signore Gesù che ha qualcosa – molto! – da dire alla tua realtà e alla tua vita.

«Partite dall’esperienza, partite dalla realtà, solo così diventerete critici! Ma partire dalla realtà significa non trascurare nessun fatto­re, neanche il più fragile impeto del tuo io e niente di ciò che suc­cede al di fuori di te. Liberi davvero significa: tutta la persona nel paragone con tutta la realtà. La fede in Cristo Gesù ha a che fare con il tuo modo di amare il ragazzo o la ragazza, c’entra con il tuo modo di studiare, ti dà un criterio per capire cosa vuol dire riposarsi e di­vertirsi, ti provoca ad uscire da te per fare spazio all’altro. Ti educa a vivere il tu come grande segreto della riuscita dell’io»[4].

Da tempo il Patriarca Scola rivolge con forza questo invito ai giovani di Venezia (e non solo). Sollecita a non sfuggire dalla realtà della propria vita e a partire, anzi, da quella, così com’è. Si tratta, insomma, di essere profondamente immersi e aderenti alla realtà. E, invece, il primo elemento di conflitto e “disagio” diventa spesso proprio questo, specialmente per un giovane: il non sentirsi capaci di accettare e accogliere il dato di partenza.

La sensibilità e la spiritualità di un giovane monaco benedettino ci aiutano a cogliere la delicatezza e la portata di questo passaggio: «Occorre imparare ad ascoltare la Parola, ma rimanendo “dentro la propria vita”, perché Dio parla anche attraverso ciò che uno è. Nessuno può scegliere in anticipo il fondamento della propria vita, lo riceve da altri; ma lo si accoglie scegliendolo, riconoscendovi una parola di Dio che interpella personalmente. La barca sulla quale il Signore sale è la “mia” barca, diversa da ogni altra. Occorre dire sì alla verità di Dio che si rivela nella vita di ciascuno… Certo, poi il Signore conduce anche altrove, comandando: «Adesso va’ al largo”; ma lo fa a partire dal luogo in cui si è. Il Signore non cambia le reti, riempie le reti di sempre»[5].

E rievocando ancora Buber: «Ecco ciò che conta in ultima anali­si: lasciar entrare Dio. Ma lo si può lasciar entrare solo là dove ci si trova, e dove ci si trova realmente, dove si vive, e dove si vive una vita autentica. Prepariamo a Dio una dimora nel nostro luogo»[6].

Il tassello successivo è ancor più strepitoso e potente: scoprire, cioè, che la fede in Gesù Cristo non è estranea a nessun segmen­to di questa realtà. Piuttosto la illumina tutta, ne dà la chiave di lettura, la apre ad una prospettiva più ampia e la sottrae ai suoi, talora, angusti ed inquieti orizzonti. Sì, Gesù Cristo – vero uomo, oltre che vero Dio – è un tesoro di umanità affidato alla mia fede e alla mia vita. C’entra con lo studio e con il lavoro, con gli affetti e le relazioni, con il mio modo di leggere ed interpretare gli eventi della politica, dell’economia, della cultura, della scuola, della società, ecc. Mi offre l’orientamento e… il senso!

La persona, viva e presente, di Gesù Cristo è il “centro” della fede e perciò della vita. Come diceva Massimo il Confessore, rie­cheggiando alcuni insegnamenti di Dionigi l’Aeropagita: «Egli non era semplicemente uomo, ma veramente l’uomo nella totalità della sua sostanza»[7]. E, in effetti, è proprio vero che «si chiama cristiano uno che vive di Cristo e uno che è vissuto da Cristo. Il cristiano è un uomo per cui Cristo è tutto»[8].

Il magistero di Benedetto XVI offre, al riguardo, solidi appoggi che meriterebbero di essere approfonditi. In questa sede ci limitia­mo a richiamare, come suggestione, uno degli interventi dell’ultima Giornata mondiale della Gioventù, a Sydney[9]. In quell’occasione il Papa ha affermato tra l’altro: «Nei nostri cuori sappiamo che solo il Signore ha “parole di vita eterna”. L’allontanamento da lui è solo un futile tentativo di fuggire da noi stessi. Dio è con noi nella realtà della vita e non nella fantasia! Affrontare la realtà, non sfuggirla: è questo ciò che noi cerchiamo! Perciò lo Spirito Santo con delicatez­za, ma anche con risolutezza, ci attira a ciò che è reale, a ciò che è durevole, a ciò che è vero». E poco prima, rivolgendosi ai giovani, aveva detto: «Cari amici, la vita non è governata dalla sorte, non è casuale. La vostra personale esistenza è stata voluta da Dio, be­nedetta da lui e ad essa è stato dato uno scopo! La vita non è un semplice succedersi di fatti e di esperienze. È una ricerca del vero, del bene e del bello. Proprio per tale fine compiamo le nostre scelte, esercitiamo la nostra libertà e in questo, cioè nella verità, nel bene e nel bello, troviamo felicità e gioia. Non lasciatevi ingannare da quanti vedono in voi semplicemente dei consumatori in un merca­to di possibilità indifferenziate, dove la scelta in se stessa diviene il bene, la novità si contrabbanda come bellezza, l’esperienza sogget­tiva soppianta la verità. Cristo offre di più! Anzi, offre tutto! Solo lui, che è la Verità, può essere la Via e pertanto anche la Vita. Così la via che gli Apostoli recarono sino ai confini della terra è la vita in Cristo. È la vita della Chiesa».

Qual è allora il nodo cruciale? È che la fede trasmessa in fami­glia, nella comunità ecclesiale (la parrocchia, innanzitutto, e la vita associativa) deve avere questa incisività e questo grande orizzonte. Deve avere questa forza, quest’ampiezza, questo respiro infinito. Altrimenti rimane un orpello, una formalità, un adempimento, una cosa da bambini o da vecchi, ma non da giovani e da adulti. E non ci dovremmo allora sorprendere (concetto anche questo caro al Card. Scola) se da parecchi – giovani e adulti – viene “lasciata” e messa da parte, come una cosa irrilevante o “poco utile”. Non ne vedono la rilevanza, l’autenticità, la trasparenza negli altri giovani e adulti!

Se è insopprimibile il legame con la realtà, non bisogna conside­rare secondari o poco rilevanti – anche e soprattutto in chiave pa­storale – i “luoghi”, i “tempi” e gli “ambiti” di vita più frequentati dai giovani. Ne ricordiamo quattro: l’affettività, lo studio, il riposo/lo svago, il lavoro. Per ognuna di queste dimensioni c’è evidentemen­te bisogno di un linguaggio particolare, di una forma particolare di testimonianza e presenza per intercettare la persona negli snodi più delicati… Ma che posto hanno questi “fuochi” negli abituali schemi di azione, proposta ed educazione alla fede delle nostre comunità o realtà associative?

Solo due brevi considerazioni in merito. La prima: in passato (pensiamo, in buona sostanza, alla seconda metà del secolo appena trascorso) le comunità cristiane italiane hanno saputo esprimere, sia pure con vicende alterne, una significativa presenza associata nel mondo del lavoro e delle professioni, dell’economia e della cul­tura, della vita sociale e politica, nella scuola e nell’università. Re­alizzando, così, un certo tipo di “pastorale d’ambiente”, per usare un’etichetta che non tutti soddisfa. Ora, probabilmente, si tratta di riformulare e ristudiare decisamente nuove modalità di presenza – più “testimoniale” che istituzionale, è da immaginare… – anche radicalmente differenti, perché i tempi, la cultura, la società e le persone sono radicalmente cambiate.

Chiediamoci, piuttosto, se e come siamo in grado di “abitare” i vari terreni della realtà giovanile e di accompagnare le diverse fasi della vita: lo studio (la presenza “testimoniale” nelle scuole e nelle università), il lavoro (tutti i lavori, da quelli più sofisticati a quelli più umili), la sfera affettiva (le prime pulsioni, i percorsi sentimen­tali, il fidanzamento), il tempo del “riposo” e dello “svago” (lo sport, il tempo libero, ecc.). O non sono piuttosto laterali e marginali ri­spetto al ritmo “normale” della vita ecclesiale? Urge una “botta” di creatività e fantasia, che solo lo Spirito può dare!

La seconda riflessione: come Chiesa italiana non dovremmo mai perdere di vista l’insegnamento forse più “dirompente” che il Con­vegno ecclesiale nazionale di Verona (2006) ci ha consegnato: con­siderare sempre più gli ambiti di vita delle persone e delle comunità provando, spesso e volentieri, ad operare “trasversalmente” e talora dribblando i pur necessari segmenti organizzativi e le “gabbie” delle competenze (e degli orticelli…) pastorali. Diventeremo allora meno ingessati e più creativi, meno rigidi e più dinamici, testimoni più autorevoli e spiritualmente efficaci perché più a contatto con le per­sone, più aderenti alla realtà e alla vita che scorre, grazie a Dio, ben al di là dei nostri pur legittimi schemi!

 

Il Vangelo di Gesù Cristo: una “buona notizia” da tornare a dire, qui e ora

Qualche anno fa, un’approfondita indagine condotta nel Patriar­cato di Venezia (in parallelo al censimento sulla frequenza alla mes­sa domenicale) ha provato a fotografare gli elementi caratterizzanti della fede delle persone di quel territorio diocesano[10]. Un dato inte­ressante emerge dai riscontri effettuati, mettendo in rilievo le rispo­ste scaturite nella fascia più giovane (18-29 anni): «I giovani non percepiscono più Dio con disagio (il Dio giudice che punisce); anzi, tre quarti lo sente indulgente, l’86% lo sente una fonte di conforto, eppure più di metà di loro lo sente impersonale (55%) e lontano (52%). Viene ad assumere dei connotati vaghi da “età dell’acqua­rio” o diviene indistinto e privo di reale forza di illuminazione in­teriore? È piuttosto la Chiesa ad essere percepita dalla maggioranza dei giovani come istituzione (54%), lontana (63%), severa (54%), fonte di disagio (51%). La parrocchia invece è il riferimento eccle­siale accogliente: comunità (72%), indulgente (62%), dà conforto (58%), è vicina (54%). Tra il modo con cui viene percepita la Chie­sa da un lato e la parrocchia dall’altro, vi è un salto notevole, dal 9 al 15%, a svantaggio della Chiesa-istituzione».

Pare di capire, insomma, che c’è – ancora e sempre – un “terre­no” buono su cui poter lavorare. Ma c’è soprattutto una “buona notizia” – il Vangelo di Gesù Cristo! – da ridire e da far risuonare qui e ora, perché sia avvertita e sentita valida in questo momento, in questa fase di vita, in ogni ambiente umano attraversato. Quel Dio al quale si guarda sempre con qualche speranza – ma che rischia di essere “innominato” o… sulla Luna! – deve assumere i contorni reali e concreti di un volto e di una storia che mi appartengono e mi sono donati, di nuovo. Una “buona notizia” che scaldi e ravvivi il cuore, che porti a guardare avanti, con gioia e con fiducia. E a guar­dare con occhio nuovo il dono prezioso della fede. Da apprezzare, amare e coltivare con cura. Come un grande tesoro affidatoci.

«La fede non è qualche cosa che noi ci siamo dati, che ci siamo meritati; è dono, grazia di Dio. Prima che io conoscessi Dio, lui si è fatto conoscere da me. E Dio ha detto a ciascuno di noi, nel nostro cuore, che lui è il Padre e in Gesù ci ha dato un fratello; e quando noi da questa fede ci siamo allontanati, Dio è venuto a cercarci, ci ha chiamato, ha suscitato nel nostro cuore un desiderio struggente di lui, ci ha aspettato come Gesù ha aspettato al pozzo di Sicàr la samaritana, è venuto a cercarci come il pastore che ha lasciato le novantanove pecore ed è andato a cercare la centesima che si era smarrita, ci ha abbracciato come il padre del figliol prodigo ha ab­bracciato il figlio che finalmente era tornato e ci ha fatto festa»[11].

Quel Dio, altrimenti lontano, diventa vicino in una Persona ben precisa e – la fede ce lo insegna e assicura – “viva”. Allora, final­mente, «possiamo cogliere nell’insieme dei fili che legano e con­nettono ogni pagina della nostra storia, qualunque siano stati gli avvenimenti che l’hanno caratterizzata, la sapiente mano di Dio che discretamente ci ha guidato fin qui e ci ha condotto a essere ciò che oggi siamo. Come non credere che egli ci condurrà anche più avanti? Credere significa affidarsi con fiducia ogni giorno al Signore che fa strada con noi e ci accompagna con amore di padre dentro la nostra storia, qualunque siano le situazioni, anche le più oscure, che attraversiamo»[12].

 

La comunità cristiana, luogo documentabile e “ordina­rio” di vita in Cristo

Va ora sottolineato con forza un altro aspetto: rimane fonda­mentale la presenza, accessibile a tutti, di un “luogo” dove si possa vedere e toccare con mano la bellezza di una vita segnata e trasfor­mata dalla fede in Cristo risorto. Un luogo avvicinabile e aperto, cordiale e caloroso, documentabile e ben visibile. Fatto di uomini e donne, semplici e accoglienti. La parrocchia, in primissimo luogo, è e resta il luogo “ordinario” e d’eccellenza (e più vicino, adatto a tutti) per questo tipo di esperienza, ma lo sono anche le molte e decisive esperienze nei gruppi associativi e nei movimenti che assu­mono ed offrono un modello di vita cristiana.

«Per incontrare Cristo oggi è necessario passare attraverso la co­munità cristiana, cioè attraverso uomini che vivono un rapporto integrale e leale con tutta la realtà, a partire dalla fede in lui. Vivono la realtà così com’è, a partire dalla fede in Gesù Cristo»[13]. In questo contesto è possibile e praticabile proporre a tutti, giovani e adulti, una strada “ordinaria”, costellata dalle “ricchezze” e dagli “appunta­menti” che il Signore Gesù offre a tutti, oggi, nella sua comunità.

Va evidenziata la parola “ordinaria”: attualmente, infatti, abbon­dano, anche nelle proposte ed offerte (formative, spirituali, aggre­gative, ecc.) rivolte ai giovani in ambito ecclesiale, le circostanze “straordinarie”. Tutte cose buone, anzi, buonissime (dalle feste dei giovani alle GMG, dalle “uscite” agli incontri “speciali”): sono in­dubbiamente indispensabili per il loro carico di testimonianza co­munitaria e pubblica della fede e per intercettare nuove fasce gio­vanili o per ravvivare e destare interesse ed attenzioni. Ma poi la vita scorre, a volte anche molto banalmente, nei suoi giorni e canali “comuni” e in questi segmenti deve essere ben visibile ed attuabile una proposta di vita cristiana “ordinaria”.

Il primo appuntamento è quello con la preghiera, personale e comunitaria, proposta e vissuta come un dialogo fitto e quotidiano d’amore e di vita e non come una “pratica” (peraltro religiosa!). Un dialogo “a tu per tu” fatto di gratitudine e di supplica, lode ed esultanza, sofferenza e lacrime, benedizione e adorazione, parole e silenzi. «Il tempo della preghiera è quello in cui lasciamo entrare il Signore nella nostra esistenza e ci lasciamo trasformare a sua imma­gine; impariamo come egli è, da quello che noi diventiamo. Certo, il mio cuore è una povera baracca traballante, ma quando vi entra lui, può diventare un tempio meraviglioso: la mia vita si trasforma»[14].

Il dialogo si nutre fortemente di ascolto della Parola di Dio. Ad iniziare da quella Parola che in modo solenne è contenuta nelle Sacre Scritture. Da raccomandare è, soprattutto, la lettura assidua e “pregata” del Vangelo che, come osservava Madeleine Delbrêl, è «il libro della vita del Signore. È fatto per diventare il libro della nostra vita. Leggerlo, è come incamminarsi verso la soglia del mistero. Non è fatto solo per essere letto, ma per essere accolto in noi»[15]. Non bisogna avere timore o remore nel metterlo abbondantemente in mano e nel cuore dei giovani! È un tesoro inesauribile che parla (oggi!) al cuore di ciascuno. Non si può dimenticare che «prendere in mano il Vangelo è sempre incontro, un incontro preparato dal Padre. Il Vangelo è un libro assolutamente unico, singolare, non c’è l’eguale. Tu lo prendi in mano, lo apri, leggi, è Dio che ti parla! E ti parla per salvarti!»[16]. Come non bisogna, del resto, essere timidi nell’indicare ai giovani esperienze spirituali “forti”, ma non sgan­ciate, non avulse, dalla vita normale di ciascuno di loro e di ogni cristiano: si pensi, ad esempio, alla realtà degli esercizi spirituali[17].

Senza dimenticare, poi, quella Parola che in modo forse più nasco­sto, ma non meno solenne, è inscritta nei fatti della vita del mondo e nei “gemiti” della creazione. È sempre lui, il Signore Gesù, Parola eterna del Padre, che parla!

Una grande ricchezza, ordinaria e straordinaria, è l’Eucaristia, dono del Signore risorto, che continua in modo impensato e total­mente a “stare in mezzo ai suoi” e addirittura arriva a farsi pane e vino, elementi semplici ma “nutrienti”. Di domenica in domenica (ma anche di giorno in giorno) l’Eucaristia vissuta nella comunità cristiana riunisce e “informa”, educa e riempie d’amore la storia e la vita. «Non c’è dubbio che sul nostro rapporto con l’Eucaristia si gioca la qualità della nostra vita spirituale. Essa è la sorgente di ogni grazia per la nostra vita. Nell’Eucaristia c’è la nostra speranza per la salvezza del mondo! L’Eucaristia protegge il mondo e ci abilita a sperare sempre!»[18].

Ne consegue la pratica assidua e ardente dell’intera vita liturgica della Chiesa ed in particolare del sacramento della Riconciliazio­ne, in cui davvero il dono della misericordia e del perdono di un Padre cura le ferite del peccato in noi e nel mondo, chiamandole per nome e riconducendole ad un bene migliore. L’accostarsi sereno a questo momento, mediato dalla presenza umana del sacerdote, ha anche un altissimo valore educativo, pedagogico e spirituale: è quello di aiutarci a leggere la nostra storia – anche i passaggi più difficoltosi e spesso di “sconfitta”, più o meno apparente – con la benevolenza e la forza di Dio, che sa ripartire sempre e rilancia ogni volta il suo progetto per la nostra santificazione.

E poi, soprattutto, la carità di cui va intessuta tutta la vita nei suoi mille appuntamenti “ordinari”. L’adempimento del proprio do­vere quotidiano, a casa e in famiglia, con gli amici e in comunità, nei momenti dello studio e del lavoro, nell’attenzione all’impegno sociale e politico, nell’economia e nella cultura – secondo diversi livelli, è chiaro… – e nella spinta a vivere atti di carità e di attenzione solidale nei confronti di chi è più povero o in difficoltà. I possibili esempi sarebbero, qui, infiniti.

 

Essere santi, vivere da “santi”: ecco il compimento!

Queste robuste “colonne” aiutano a formare la vita bella e santa di un giovane. Un gioiello di vita compiuta, come il Signore indica. Vita bella, vita piena. Diventiamo “santi”, anzi, lo siamo già per il Battesimo. Sì, non bisogna essere timidi nell’usare questa parola! La santità in Cristo è una realtà che già ci appartiene e che siamo chia­mati, in ogni età della vita, ad esprimere con sempre maggior vigore e lucentezza. I santi siamo noi e cioè «persone del tutto ordinarie, che si sono lasciate lentamente trasformare dallo Spirito di Dio e hanno cercato di incarnare lo spirito delle beatitudini evangeliche dentro la loro esistenza, contribuendo così a rendere la vita più umana, senza classificare nessuno, ma aiutando ciascuno a realiz­zare quel progetto che Dio ha loro riservato. Servi umili del Vangelo in ogni ambiente di vita. Santi non lontani dalla vita, testimoni del Risorto, che siano capaci di trasformare i diversi luoghi di morte in ambienti di risurrezione. Santi vicini ai linguaggi dei nostri contem­poranei, che sappiano portare nella Chiesa e nella società il buon profumo di Cristo»[19].

E potremo, infine, rendere totalmente nostre le parole composte da Ermes Ronchi in questa “rivisitazione” del cantico di Maria (il Magnificat):

«Cerco nel cuore le più belle parole per il mio Dio

perché ha fatto della mia vita un luogo di prodigi,

ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore.

Ha guardato me che non sono niente:

sperate con me, siate felici con me, tutti che mi udite.

Cose più grandi di me mi stanno succedendo.

È Lui che può tutto. È Lui solo. Il Santo!

Ha liberato la sua forza, ha imprigionato i progetti dei forti.

Coloro che si fidano della forza sono senza troni.

Coloro che non contano nulla hanno il nido nella sua mano»[20].

 

 

 

Note

[1] E’ il frammento di una delle oltre 550 “testimonianze” raccolte nella diocesi di Venezia in occasione dell’Assemblea ecclesiale tenutasi domenica 10 aprile 2005, nella Basilica cat­tedrale di S. Marco, e che ha indetto la Visita pastorale, attualmente in corso. Alcune delle testimonianze raccolte sono poi confluite in una pubblicazione, La bellezza e il senso, Edizioni Cid, Venezia 2005.

[2]Gv 21,7.

[3] M. Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose 1990, pp. 45 e 50.

[4] A. Scola, Contro la noia, Cantagalli Edizioni-Cid, Siena-Venezia 2004, pp. 17 e 21.

[5] L. Fallica, Una cetra a quattro corde, Edizioni Paoline, Milano 2004, p. 57.

[6] M. Buber, op. cit., p. 64.

[7] Massimo il confessore, In tutte le cose la “Parola”, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose 2008, p. 55.

[8] M. Magrassi, Afferrati da Cristo, Edizioni La Scala, Noci (BA) 1994, p. 59.

[9] I due brani qui citati sono tratti dal discorso di Benedetto XVI alla festa di accoglienza dei giovani, svoltasi il 17 luglio 2008 al molo di Barangaroo, a Sydney, nel corso dell’ultima GMG.

[10] A. Castegnaro (a cura di), Fede e libertà. Inda­gine sulla religiosità nel Patriarcato di Venezia, Marcianum Press, Venezia 2006. Il passo di seguito citato è a p. 82.

[11] M. , Il tuo volto, Signore, io cerco, EDB, Bologna 2006, p. 70.

[12] O. Cantoni, Come luce d’aurora…, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, pp. 15 e 28.

[13] A. Scola, Come nasce e come vive una comunità cristiana, Marcianum Press, Venezia 2007, p. 30.

[14] M. Magrassi, op. cit., pp. 191ss.

[15]Ibidem, p. 247.

[16] M. , Camminando con Gesù verso la Pasqua. Esercizi spirituali con Benedetto XVI, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2006, p. 23.

[17] Nel Patriarcato di Venezia, da tempo, viene proposta a tutti (ragazzi e giovani, adulti e famiglie intere) tale esperienza che richiama ogni anno parecchie centinaia di persone nella Casa diocesana di spiritualità “Maria Assunta” a Cavallino (Venezia). Gli esercizi spirituali dio­cesani rappresentano, così, una singolare opportunità di “incontro” con la persona del Signore Gesù, mediante il prolungato ascolto della sua Parola, la celebrazione dell’Eucaristia e della Riconciliazione, la preghiera liturgica e personale, la comunione fraterna. Evidenziano, pertanto, ciò che è essenziale e comune per la vita cristiana, mettendolo a disposizione di tutti.

[18] M. , op. cit., pp. 144-145.

[19] O. Cantoni, op. cit., pp. 67ss.

[20] E. Ronchi, Il canto del pane, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, pp. 127ss.