N.03
Maggio/ Giugno 2011
Studi /

La vocazione. Un mistero? Si, ma non proprio

Non so più quante persone mi hanno chiesto e mi chiedono: “Perché ti sei fatto prete?”. Il più delle volte ho risposto e rispondo: “Non lo so. La vita non sempre può essere spiegata come il due più due fa quattro”. A chi insiste, dimostrando un interesse diverso dalla semplice curiosità, racconto una storia: “Sono nato in un paesino di montagna, una delle parrocchie più scomode della diocesi di Fabriano (AN). Non c’erano mezzi pubblici. Per andare in città, bisognava scendere a piedi per otto km fino alla gola di Frasassi, oggi conosciutissima per le famose grotte, e altri otto per risalire. Parroco era don Lorenzo: sanguigno, focoso, generoso. Di famiglia ricca, stava lassù perché il vescovo di allora, per educare all’umiltà, mandava nella scomoda montagna chi era nato nella comoda città, e viceversa. C’era una sola auto nel paese: quella del proprietario del Sale e Tabacchi. Il prete andava a piedi come tutti gli altri. Noi ragazzi, soprattutto quando il tempo non permetteva di scorazzare per le strade, di  andare sul monte in cerca di nidi o per campi a rubare frutta, per divertirci non avevamo di meglio che la chiesa e la grande casa del prete. Servivamo la messa, anche al mattino prestissimo, ma per fare dispetti al prete, arrivando a mettergli gli spilli sotto i ginocchi quando, girato verso l’altare, genufletteva. Eravamo sempre presenti anche al rosario e alla benedizione eucaristica, ma che lì… Una sera di ottobre, mettemmo la polvere delle mine dentro il turibolo, provocando uno scoppio fragoroso e un fuggi fuggi generale dalla chiesa. Don Lorenzo non ce la faceva passare liscia. Mica c’era il Telefono Azzurro. Perciò: schiaffi, calci, pizzicotti. Però tornavamo sempre, e la sua casa era sempre aperta per noi discolacci e per tutti i parrocchiani. E il prete per me si configurò come una porta sempre aperta. A questa immagine se ne abbinò pian piano un’altra: una stanza zeppa di libri che riempivano alla rinfusa gli scaffali e un grande tavolo ovale. Stava all’ultimo piano della grande casa, accanto alla camera da letto. Frugando, trovai uno piccolo libro, con le pagine per metà illustrazione per metà scritto. Me lo portai a casa e me lo sono tenuto per tanti anni (confessai il furto a don Lorenzo quando ormai ero prete), finché non è andato smarrito in uno dei miei numerosi traslochi. Parlava di Giovanni Bosco, un prete fantastico che stava sempre in mezzo ai ragazzi e li faceva stare allegri. Lo sognavo a occhi aperti e una volta o due l’anno lo  identificavo con un frate domenicano, padre Egidio. Veniva a predicare, riuscendo a fare stare attenti anche noi, cosa che a don Lorenzo non riusciva, e a girare per le strade del paese, suonando l’armonica a bocca.
Perché, allora, sono diventato prete? Non ho sentito conferenze vocazionali, non ho partecipato a incontri specifici. Ho incontrato un prete che, con la sua porta sempre aperta, con la sua stanza piena di libri, con un suo amico frate che sapeva farsi ascoltare e farci stare allegri con la sua armonica, mi ha fatto intravedere una vita bella come quella di un prete fantastico, conosciuto in piccolo libro.

Questa mia risposta non sarà teologicamente, biblicamente, culturalmente approfondita, ma per me è quella giusta. E non solo per me! Sono certo che i preti e i religiosi convinti ed entusiasti della loro scelta, non potranno che rispondere come me: “Ho incontrato una persona che, per qualche motivo, mi ha fatto sognare”. Sì, sognare! Sognare i sogni di Giuseppe. Quelli che invitano a “non temere” un progetto di vita più alto, perché viene dall’alto.
Se questa risposta  è “giusta”, sono sbagliate o inadeguate le proposte vocazionali fatte da persone e da situazioni che non fanno “sognare”. Nei lunghi anni di seminario, non ho avuto, grazie a Dio, grosse crisi se non qualche incertezza, provocata da preti poco entusiasmanti.
Le risposte vocazionali spuntano dove persone e comunità svegliano i “sogni”, perciò l’apostolato vocazionale deve consistere nello stimolare le persone e le comunità a potenziare queste caratteristiche, e a evitare i rischi che possono insidiarle o cancellarle. Di questi rischi ce ne sono  e anche molto insidiosi e pericolosi. Uno è l’ansia del “troppo pochi” che, per la difficoltà a “tappare i buchi”, può indurre a non vagliare attentamente le persone, concedendo l’ordinazione o la professione a uomini e donne con motivazioni spirituali e spessore umano non adeguati. Costoro daranno l’illusione di tappare i buchi, ma in realtà li moltiplicheranno.  Un altro rischio è il ricorso frettoloso o poco meditato a preti e religiosi stranieri. I nostri missionari partivano dopo una lunga preparazione che li metteva in grado di conoscere lingua, cultura, storia dei popoli che andavano a evangelizzare. Non sempre questo accade per i “missionari” che arrivano da noi. Gettati nella mischia senza la dovuta preparazione, non di rado con modelli pastorali che da noi andavano bene (?) sessanta anni fa, rischiano di proporsi come preti che “dicono messa”  in comunità (?) dove si “ascolta” la messa. Decisamente troppo poco per far “sognare”. Anche se su piani diversi, ritengo poco efficaci gli inviti da “nave che sta per affondare” per nulla rari da ascoltare. “Mancano i preti… Se continua così, non potremo assicurare più la messa e i sacramenti… Molte parrocchie rimarranno …. Come si farà con i ragazzi……”. Oltre non testimoniare una grande fiducia nella Provvidenza che sa sempre ciò che fa, in genere non sono molti i disponibili a imbarcarsi su una nave che sta per affondare. L’avventura affascina molto più del naufragio. Soprattutto i giovani.