N.01
Gennaio/Febbraio 2012
Studi /

Senso di comunità, vita di preghiera e cura di sè come antitodi allo stress dei sacerdoti

Una componente centrale e qualificante del ministero sacerdotale è il servizio e l’aiuto alle persone; tale componente, se da un lato rappresenta una delle motivazioni cardine sottostanti alla stessa scelta vocazionale, dall’altra espone spesso il sacerdote ad un forte rischio di stress e burn-out e gli studi che danno conferme in tal senso sono sempre più numerosi (Swart; McMinn et al, cit. in Arumugam 2003).

La dedizione agli altri, soprattutto se non accompagnata da un altrettanto riguardo per se stessi, per le proprie fatiche, per le proprie vulnerabilità, può portare a fare i conti con importanti fenomeni di aggravio che possono degenerare nell’esaurimento fisico, mentale e spirituale e aprire la strada allo sviluppo di disturbi cronici significativi. Sappiamo dalle ricerche condotte in ambito di psicologia della salute quanto lo stress persistente sia un fattore di rischio riconosciuto per numerose malattie croniche, come le malattie cardioischemiche, cerebro-vascolari e le malattie psichiatriche e sappiamo anche che attualmente oltre il 75% di tutte le visite mediche vengono effettuate a causa di disturbi o sintomi stress-correlati.

Coloro che lavorano consistentemente nel servizio alle persone, particolarmente quando tale servizio si configura come una relazione di aiuto, che implica inevitabilmente il contatto costante con la sofferenza o il disagio fisico e mentale, sono tra quelli che più facilmente possono incorrere in fenomeni di aggravio. E i sacerdoti, che, come dicevamo, fanno del servizio agli altri la loro scelta di vita, non sono esenti da tale possibilità sebbene la dimensione spirituale, che è parte integrante della loro vocazione, costituisca una grande risorsa ammortizzante.

In una ricerca, condotta nel 2006 presso la diocesi di Padova (Barzon et al., 2006) emerge che circa due terzi degli intervistati, per ragioni diverse e con gradualità diverse, sperimentano problemi e difficoltà: alcuni sono stanchi per il carico di lavoro e per il poco tempo riservato a se stessi; altri presentano alti livelli di esaurimento emotivo e vivono un distacco e una depersonalizzazione rispetto al ruolo; altri ancora sono scontenti dei frutti del loro ministero; i più giovani avvertono il celibato come uno stato di vita artificiosa esposta all’implosione di sentimenti. Nonostante i dati emersi siano relativi soltanto ad una sola diocesi e come tali non generalizza-bili, devono però senz’altro far riflettere e le criticità evidenziate dovrebbero essere oggetto di seria considerazione e non liquidate con facilità attribuendole alla fragilità umana o alla negligenza nella preghiera.

In questo nostro contributo vorremmo soffermarci brevemente a definire i termini di stress e burn-out, evidenziarne le cause e le manifestazioni prevalenti, per poi riportare i dati emersi in un sondaggio sulle condizioni di aggravio connesse al servizio pastorale condotto nel 2010 con alcuni sacerdoti della diocesi di Roma in occasione di un percorso formativo.

 

  1. Stress e burn-out: cause e sintomi prevalenti

Con il termine stress si intende una varietà di fenomeni di natura vegetativo-emotiva, cognitiva e comportamentale che possono presentarsi congiuntamente sebbene con prevalenze di dominio diverse quando un organismo è sottoposto ad un qualunque compito di natura adattiva. Pertanto lo stress è una risposta funzionale al mantenimento dello stato di equilibrio organismo-ambiente, risposta che si mobilita quando l’organismo si trova a fronteggiare particolari condizioni o eventi esterni che implicano richieste di tipo, qualità, intensità o durata diverse dal solito. Tuttavia, quando tale reazione è sollecitata troppo a lungo o troppo intensamente, le capacità di adattamento finiscono con l’essere sopraffatte, nel senso che le energie sembrano esaurite, le strategie di comportamento risultano inadeguate e il soggetto avverte una condizione di sgradevole tensione che difficilmente viene alleviata dal riposo. Il termine, su un piano più strettamente psicologico, esprime un fenomeno pervasivo della condizione umana che insorge quando l’equilibrio adattivo tra l’ambiente fisico e psicosociale e l’uomo va in crisi a sfavore di quest’ultimo, dando origine a fenomeni psicofisiologici e comportamentali di stretta rilevanza per la salute, il benessere psicoemotivo e il livello prestazionale individuale e collettivo (Colasanti, 2008).

Il burn-out rappresenta una forma particolare di stress alla quale vanno facilmente incontro coloro che sono coinvolti in professioni di aiuto agli altri e che è dovuta per lo più ad un “eccesso di impegno” a seguito del quale si vedono esaurite le proprie energie fisiche e psichiche. Poiché è questa la situazione di aggravio alla quale più facilmente possono andare incontro i sacerdoti, è su questa che vorremmo soffermare la nostra riflessione.

All’origine del burn-out vi è spesso l’intreccio di fattori personali, organizzativo-contestuali, socio-culturali.

Tra i fattori personali ricorrono: estrema dedizione al lavoro, perfezionismo, idealismo, desiderio di “cambiare il mondo”, eccessivo entusiasmo, scrupolosità, zelo, aspettative irrealistiche, vita personale poco soddisfacente, sistema motivazionale inadeguato, personalità di tipo A, locus of control esterno, ansia e nevroticismo (Pellegrino, 2009). Sebbene tali fattori siano importanti in quanto possibili variabili predisponenti, Maslach (1982) e Cherniss (1983) mettono in guardia rispetto all’enfasi sulle caratteristiche personali, in quanto potrebbero rimandare sullo sfondo importanti disfunzioni di contesto con l’ulteriore rischio di “biasimare la vittima”. Evidenziano pertanto l’importanza dei fattori ambientali, quali: sovraccarico di lavoro, ambiguità di ruolo, incompatibilità o discrepanza tra risorse e richieste, rigidità e burocraticismo nell’organizzazione, esclusione dai processi decisionali, limitazione dell’autonomia personale, qualità relazionale povera tra colleghi e con i superiori, remunerazione insoddisfacente. A tale riguardo, la Maslach (1992) ci ricorda che «alcuni ambienti di lavoro possono frantumare le migliori intenzioni di un operatore che porta nella propria professione ideali elevati e il desiderio di aiutare gli altri».

Un’altra classe di fattori chiamata in causa nell’insorgenza del burn-out concerne aspetti di natura socio-culturale. A tale proposito, Cherniss (1983) sottolinea come la frammentazione del tessuto sociale, il venir meno di un senso di comunità, l’allentarsi di alcuni legami capaci di dar vita ad una ecologia dell’aiuto informale, abbiano contribuito ad aumentare il malessere psicologico e con esso la domanda di supporto con il conseguente aggravio per chi si occupa del servizio alle persone.

Ma quali sono i sintomi del burn-out?

Il burn-out è una sindrome multidimensionale che si manifesta con sintomi fisici, psicologici, comportamentali ed è il risultato di un processo progressivo che porta la persona a sperimentare esaurimento emotivo per cui si sente sopraffatta dalle richieste degli altri, prosciugata, svuotata e incapace di fornire l’aiuto richiesto; un senso di depersonalizzazione, conseguente al distacco attivato in risposta all’eccessivo senso di stanchezza che confligge però con l’attitudine personale a voler fornire aiuto; una sensazione di ridotta realizzazione professionale, connessa al progressivo negativismo verso gli altri e ad una consistente percezione di inadeguatezza.

Dal punto di vista fisico i sintomi più frequenti sono: stanchezza e affaticamento, mal di testa ricorrenti, disturbi gastrointestinali, cambiamenti ponderali significativi, sonno disturbato, frequenti raffreddori e influenze, mal di schiena; in generale, una maggiore vulnerabilità alle malattie. Dal punto di vista psicologico, compaiono senso di colpa, negativismo, labilità nell’umore, ottundimento delle emozioni, minor tolleranza alla frustrazione, perdita di interessi, sospettosità, rigidità, incapacità di rilassarsi, sentimenti depressivi, insofferenza e costante irritabilità. Dal punto di vista comportamentale, infine, si evidenziano isolamento, ritiro sociale, forte riduzione delle occasioni ricreative e sociali, un certo immobilismo, abuso di alcol, farmaci, fumo.

Tali sintomi, nel caso specifico dei sacerdoti, possono tradursi in una minore partecipazione agli incontri comunitari, una mancanza di entusiasmo, un irrigidimento di posizioni, un modo impersonale di comunicare, un atteggiamento di sospettosità e mancanza di fiducia negli altri, un senso di impotenza e di scoraggiamento (Bangs, cit. in Arumugam 2003).

Rediger (cit. in Arumugam 2003) identifica anche importanti ripercussioni sul piano spirituale, quali: cambiamenti significativi nelle affermazioni teologiche, difficoltà nella preghiera e nella meditazione, una partecipazione svogliata e superficiale alle funzioni religiose, una diminuita gioia nelle celebrazioni, una ripetitività nelle prediche e negli insegnamenti, una perdita di fede in Dio, nella Chiesa e in se stessi, una ridotta efficienza nel servizio pastorale.

 

  1. Un sondaggio tra alcuni sacerdoti della diocesi di Roma

Nella parte che segue vogliamo riportare i dati emersi da un breve sondaggio effettuato con alcuni sacerdoti della diocesi di Roma, durante un loro percorso formativo.

Tale sondaggio, che ha coinvolto complessivamente 94 soggetti, aveva il duplice scopo di rilevare i fattori che, nel proprio servizio, sono percepiti come maggiormente stressanti e di individuare possibili risorse di prevenzione e di fronteggiamento.

Esso è stata realizzato mediante un breve questionario self report in cui si chiedeva di riportare la frequenza con la quale vengono sperimentate situazioni di aggravio psicofisico, le fonti più rilevanti di stress, le strategie personalmente adottate per farvi fronte, le risorse ritenute più significative per la prevenzione e la gestione dello stress connesso al servizio pastorale.

Alla prima domanda: «Le capita, raramente, qualche volta, spesso, generalmente, quasi sempre, di sperimentare situazioni di aggravio psicofisico connesse all’espletamento del suo ruolo?», la maggior parte degli intervistati risponde spesso e riporta quali principali fonti di aggravio, in primo luogo, la quantità e la qualità delle richieste alle quali far fronte (56,11%); secondariamente, le relazioni ad intra con confratelli, superiori e collaboratori (19,44%); in misura decisamente minore, con percentuali che variano dal 6% all’1%, il contatto continuo con la sofferenza, i trasferimenti, la tendenza al perfezionismo, alcune vulnerabilità personali, la mancanza di tempo, alcuni desideri non compresi o frustrati, la scarsità di mezzi.

Più specificatamente, relativamente alle richieste che rappresentano la più importante fonte di aggravio, sono soprattutto determinate loro caratteristiche a pesare in termini stressogeni: la molte-plicità e la simultaneità nel tempo, l’aggressività e la pretenziosità insite in esse, l’implicita attesa di una reperibilità costante, la non opportunità in materia di competenza, l’impossibilità – spesso – di un loro soddisfacimento. Per alcuni, poi, a gravare sulle richieste intervengono fattori di ordine personale che contribuiscono ad aumentarne il potenziale stressogeno e a renderne più problematica la gestione; tra questi, figurano l’ansia, l’anassertività, il non saper lavorare per priorità, la difficoltà a delegare.

In riferimento alla seconda fonte di stress, individuata nelle relazioni ad intra, sono menzionati i rapporti con i confratelli, con i superiori, con i collaboratori e in generale alcune esperienze relazionali. Specificatamente, sono indicati come fattori che concorrono a generare tensione con i confratelli: lo scarso sostegno reciproco, la poca comunione, la presenza di uno stile relazionale tendente all’aggressività, nonché differenze di età, mentalità e formazione; tra i fattori che possono contribuire, invece, a generare difficoltà con i superiori, sono segnalati: l’incoerenza nelle decisioni, l’obbedienza non dialogata, il veder disconfermato il proprio ruolo, la percepita sfiducia nelle proprie competenze, lo scarso supporto emotivo; infine, quali fattori che pesano nel rapporto con i collaboratori sono nominati: il poco entusiasmo, la mancanza di sintonia, una certa fatica nel tener viva la comunità.

Quanto alle esperienze relazionali citate come fonte di stress, fanno figura il sentirsi criticati, la presenza di persone che “remano contro”, il senso di isolamento, la mancanza di amicizie.

Alla domanda volta ad indagare la quantità di tempo per se stessi in cui recuperare energie e rigenerarsi fisicamente, mentalmente e spiritualmente, il 6% risponde di averne molta, il 67% di averne a sufficienza, il 27% di averne poca. Coloro facenti parte di quest’ultimo gruppo attribuiscono la scarsità di tempo per se stessi sia a fattori di ordine situazionale, quali il troppo lavoro, le continue esigenze pastorali, la presenza di periodi dell’anno particolarmente faticosi, la tendenza degli altri a colpevolizzare se non si corrisponde; sia a fattori di ordine personale: l’ansia che tutto funzioni, l’incapacità personale di prendersi degli spazi, il desiderio di avere tutto sotto controllo, la mancanza di programmazione, il perfezionismo, il desiderio di aiutare tutti, il considerare le esigenze degli altri più importanti delle proprie, il senso del dovere e il senso di colpa, l’incapacità di dire di no e di porre confini. Coloro che invece reputano il dedicare abbastanza tempo a se stessi, indicano quali modalità che consentono un recupero delle energie: l’isolarsi nella propria stanza per pianificare e organizzarsi, la preghiera, la meditazione e la cura della dimensione spirituale, l’attività fisica (passeggiare, fare sport, ginnastica, qualche uscita in montagna), il navigare su internet, il vedere la TV, l’ascolto della musica, la cura dei pasti e del sonno.

Circa i fattori di resilienza rispetto ad eventi o situazioni stressanti, il questionario andava ad indagare sia i fattori che nella propria esperienza avevano consentito un migliore fronteggiamento di circostanze avverse, sia quelli che erano considerati rilevanti nella prevenzione e nella gestione dell’aggravio connesso al servizio pastorale. In riferimento ai primi, le risposte evidenziano l’importanza sia di alcune risorse personali riguardanti alcuni atteggiamenti e comportamenti messi in atto di fronte all’avversità, sia risorse situazionali. Tra gli atteggiamenti utili sembrano emergere: il vedere nell’evento una Provvidenza, la fiducia nel Signore, la convinzione che passerà, il cercare di distaccarsi dalla situazione, il relativizzare, il decentrarsi, il ricorso al pensiero positivo e ottimistico, la pazienza e il buon umore; tra i comportamenti utili sono indicati: lo stabilire priorità affrontando una cosa alla volta, la ricerca attiva di soluzioni, la preghiera e il discernimento spirituale, il perdono, la richiesta di aiuto. Quanto alle risorse situazionali rivelatesi preziose nel superamento dello stress, sono evidenziate la stima e l’affetto delle persone intorno, la comunicazione con i confratelli, la vicinanza dei familiari e degli amici, l’aiuto della guida spirituale, la psicoterapia, l’accompagnamento, il supporto del superiore, la possibilità di cambiare contesto, l’avere spazi di riposo, silenzio e calma.

Relativamente ai fattori considerati importanti tanto nella prevenzione quanto nella gestione dell’aggravio connesso al servizio pastorale, le risposte degli intervistati sembrano raggrupparsi intorno a sei dimensioni: spirituale (preghiera come momento per ricaricarsi, entrare in contatto con se stessi e con Dio; recupero valori spirituali per dare significato alle esperienze); comunitaria (utilizzare la vita comunitaria come occasione di condivisione con i confratelli delle reciproche difficoltà, instaurare con i confratelli rapporti basati sulla collaborazione, rispetto reciproco e fraternità, avere una chiara suddivisione di incarichi e mansioni, assunzione responsabile dei ruoli); relazionale con i superiori (vescovi più presenti sia fisicamente che emotivamente nella vita dei sacerdoti, una comunicazione basata sull’ascolto e sul dialogo, sulla conoscenza e sulla fiducia reciproca piuttosto che su obblighi e obbedienza); organizzativa (regolarità nei ritmi della giornata; miglioramento della struttura gestionale delle opere parrocchiali), formativa (possibilità di percorsi di crescita umana, per maturare una maggiore consapevolezza e padronanza di sé, e professionale, per acquisire competenze specifiche di tipo organizzativo e gestionale), salutogenica (sonno, alimentazione, attività fisica regolare, giornata di riposo, gite e pellegrinaggi come momenti di condivisione e di socializzazione).

 

Conclusione

In sintesi, dal nostro breve sondaggio emerge che:

-circa il 60% dei soggetti intervistati dichiara di sperimentare spesso situazioni di stress;

-poco più di un quarto le avverte come particolarmente gravose;

– sono soprattutto le richieste alle quali si è sottoposti, in quantità e qualità, a concorrere all’aggravio, seguite dalle difficoltà relazionali con confratelli, superiori e collaboratori;

-sono il sostegno sociale nella comunità e, a livello personale, la presenza di risorse umane spirituali a rappresentare i migliori ammortizzatori dello stress.

Ne deriva che il fenomeno è tutt’altro che trascurabile e se si vuole tutelare l’integrità fisica, psichica e spirituale dei sacerdoti e far sì che essi possano continuare ad esercitare la loro preziosa opera fungendo da riferimento, spesso irrinunciabile, per tante comunità, occorre farsi carico del problema, rinforzare le reti sociali ad intra e ad extra, dare loro gli strumenti umani e professionali per fronteggiare con più risorse la complessità del loro servizio.

In particolare, ci deve essere da parte dell’istituzione una seria considerazione dei disagi espressi e un’attenzione a che i sacerdoti non si sentano lasciati soli nelle loro difficoltà; occorre, inoltre, promuovere una cultura della persona che dia il giusto peso alla cura di sé, ad un sano ascolto di alcuni bisogni personali, al saper equilibrare l’amore per gli altri e l’amore per se stessi; infine, ma non da ultimo in termini di importanza, sviluppare una cultura della solidarietà tra i sacerdoti stessi e con i laici, affinché la cura e la carità pastorale diventino una sfida e un patrimonio comune.