N.04
Luglio/Agosto 2012
Studi /

Accompagnamento vocazionale tra azione dello spirito e scienze umane

Questo titolo si presta almeno a due tipi di trattazione: uno che mette a fuoco la collaborazione o meno tra azione dello Spirito e azione umana nella dinamica dell’accompagnamento vocazionale (AV), l’altro che parte invece da una proposta di AV, per vedere attraverso essa il tipo di rapporto che si può stabilire tra le due azioni. Io cercherò di muovermi un po’ in mezzo, per non fermarmi ad un’analisi solo teorica, e tentare di mostrare come una metodologia intelligente induca per natura sua le due parti a lavorare insieme.

L’AV ha una natura… doppia, infatti, come azione tutta dello Spirito e azione pure tutta dell’uomo. Lo scopo della nostra riflessione è proprio quello di vedere come questo tipo di operazione esiga per definizione una stretta correlazione tra azione umana e divina, per creare nel soggetto una disponibilità del tutto creaturale a lasciarsi agire dalla mano del Creatore, come un’attenzione a due livelli, con la preparazione e la sensibilità che tale duplice attenzione suppone.

Altra premessa importante: non commettiamo l’errore di pensare che questa integrazione sia questione puramente teorica e avvenga al di fuori di noi, come fra due fazioni opposte: gli spiritualisti tradizionalisti e i più moderni umanisti. Essa avviene dentro ciascuno di noi, è problema molto pratico ed esistenziale d’integrazione personale, e ognuno di noi lo interpreta in maniera assolutamente personale.

Dividiamo in 3 parti l’analisi, cui corrispondono altrettanti livelli di incontro o raccordo più o meno operativo tra le due attenzioni che stiamo prendendo in considerazione: da un lato quella all’azione di Dio, dall’altro quella alla risposta umana. La prima gestita dalle scienze spirituali, la seconda da quelle umane. I livelli sono: collaborazione, complementarità, convergenza.

 

  1. Primo livello: dalla distinzione alla collaborazione

L’AV è quell’aiuto temporaneo e sistematico che un fratello/sorella maggiore (nella fede e nel discepolato) dà a un fratello/sorella minore, al fine di aiutarlo a riconoscere Colui che lo chiama a dargli una risposta libera e responsabile. Possiamo dire, allora, in estrema sintesi, che l’obiettivo dell’AV è assieme scorgere l’azione di Dio e promuovere la risposta dell’uomo: un obiettivo, come si vede, duplice e unitario, e che richiede capacità di muoversi nei due ambiti in modo che risulti alla fine convergente.

Vediamo anzitutto chi entra in scena in questo dialogo e in che modo.

 

1.1 Protagonisti

Anzitutto è un aiuto che viene dall’esterno. Colui che aiuta è una presenza di mediazione, che cerca di facilitare il dialogo misterioso che avviene tra lo Spirito di Dio e il credente.

 

  1. Il principio del terzo

La mediazione umana è “solo” mediazione, ma è mediazione indispensabile. All’interno di uno scambio che dunque coinvolge tre persone. Nel rapporto del singolo col Trascendente colui che accompagna è il cosiddetto terzo umano, quale figura che in qualche modo garantisce, con la sua oggettività e alterità irriducibili, il rapporto con Dio, che è il massimo dell’alterità. In tal senso, se da un lato garantisce, dall’altro si oppone; si oppone a una certa pretesa umana di avere accesso diretto a Dio e di poter interpretare soggettivamente la sua volontà1. Questa è tentazione pericolosa e antivocazionale. Sembra infatti abbastanza logico che l’assenza di una mediazione esterna provochi una lettura vocazionale piuttosto soggettiva e meno disponibile a dare spazio a un Altro che chiama, per poi concludere che… non c’è nessuna chiamata2. Proprio per questo diciamo spesso che la crisi vocazionale è anche crisi di AV, di fratelli/sorelle maggiori disponibili a camminare assieme, a condividere il pane del cammino, a imitare l’atteggiamento di Gesù che accompagna il cammino faticoso dei due di Emmaus (cf Lc 24,1335), facendo proprio da mediatore del loro incerto rapporto con la realtà e con la vita.

Chi accompagna, rigorosamente parlando, è certamente lo Spirito, che può intervenire direttamente sul chiamato, svelandogli in modo luminoso e inequivocabile la sua strada, ma non sembra questa la norma o la prassi abituale. La realtà è che la sua azione è molte volte impercettibile senza una mediazione umana: è una constatazione che viene dalle Scritture sante e dalla storia di tante vocazioni. Forse a qualcuno, amante del fai-da-te, non sta bene questa legge spirituale (e pure psicologica), ma al nostro Dio piace chiamare attraverso un terzo… incomodo, che a volte è un vero e proprio incomodo per certi chiamati debosciati e pigri, o altre volte è lui stesso un po’ troppo pigro e comodo, come il sacerdote Eli con Samuele, sacerdote che dorme e non s’accorge della voce di Dio dando all’inizio un’indicazione sbagliata (cf 1Sam 3,1-10).

È nota la distinzione, proposta da San Girolamo, tra quattro categorie di chiamati: coloro che sono stati scelti da Dio senza alcuna mediazione umana (e sono una eccezione, dice il patriarca), quelli che sono stati scelti da Dio, ma attraverso una mediazione umana (come è più normale, rappresentano infatti la maggioranza), coloro che non sono stati scelti da Dio, ma solo dagli uomini (vedi discernimenti sbagliati o raggiri e raccomandazioni falsificanti), e infine quelli che si sono… scelti da soli, senza alcuna chiamata divina né umana (e sono i casi peggiori).

  1. Aborti vocazionali

A queste quattro categorie potemmo oggi aggiungere un’altra immensa moderna categoria: coloro in cui non è scattato il raccordo tra azione di Dio che sceglie e azione dell’uomo che accoglie la chiamata, ovvero quelli che sono stati scelti da Dio, ma che non hanno trovato, pur essendovi almeno teoricamente aperti, alcuna mediazione umana che li aiutasse a sentire la voce o a decifrare le parole del Dio-che-chiama. Sono gli aborti vocazionali, di cui già parlava Nuove vocazioni per una nuova Europa3, che molto probabilmente sono molti di più delle vocazioni regolarmente nate. È quello che è emerso dalla ricerca di alcuni anni fa di Franco Garelli, secondo cui l’11% dei giovani in genere confessa di aver pensato alla possibilità di una consacrazione a Dio, ma senza che questa venisse da o attraverso un «invito di un sacerdote o padre spirituale»4, né trovasse in questa figura una possibilità di discernimento. 11 giovani italiani su 100 vuol dire qualcosa come circa un milione di ragazzi o adolescenti che sentono a un certo punto della vita un interesse, un desiderio, un’attrazione nei confronti del senso da dare alla vita, verso qualcosa di grande, e dunque anche ricerca riguardo la vita presbiterale o consacrata, e che per un credente significa esattamente attenzione all’azione di Dio e del suo Spirito. Il 20% degli intervistati dice di avervi riflettuto per più di 3 anni, significa circa 200mila giovani che coltivano questa idea in una cultura – notiamo bene – che certamente non va in questa direzione, ma che non può zittire del tutto i gemiti dello Spirito o una certa sensibilità spirituale. È vero che perl’80% di questi giovani l’idea è durata un anno solo (idee grandi dal fiato corto), ma il problema è proprio questo: che tale sentimento, progetto, ipotesi, desiderio, o come altro lo vogliamo chiamare, ma che comunque è dono di Dio, non ha trovato il suo naturale interlocutore in un fratello/sorella maggiore con cui far discernimento sulla volontà di Dio. Più precisamente questo desiderio:

– o non è stato intercettato da colui che avrebbe dovuto identificarlo, segnalarlo, percepirlo col suo radar… e il segnale vocazionale in questo modo non è “pervenuto”;

– o questo desiderio non è stato poi aiutato a crescere, a purificarsi, ad affermarsi, a diventare vocazione vera e propria e dar luogo a una scelta in tal senso5!

Tutto questo cosa ci sta a dire? Non solo che forse non esiste proprio una crisi vocazionale, ma semmai – di nuovo – una crisi di AV o degli accompagnatori vocazionali, ma anche che l’azione dello Spirito può essere vanificata dalla mancata collaborazione umana. Come si vede già dall’inizio, o dalla possibilità della nascita di un percorso vocazionale, diventa indispensabile favorire l’incontro tra azione di Dio e dell’uomo. Dio non s’impone a nessuno! E forse questa è già una risposta a chi sembra sottovalutare il senso e l’importanza del fattore umano. Ma risposta solo teorica, poiché ancora non c’è collaborazione concreta.

1.2 Aiuto sistematico

La mediazione umana ha la funzione di aiutare il giovane credente a discernere il piano e l’azione di Dio nella sua vita. È chiaro che questo aiuto non può essere qualcosa di estemporaneo e improvvisato, semplicemente legato a un vago bisogno di contatto e intesa spirituale o di vicinanza psicologica da parte del giovane o, tanto meno, a un equivoco bisogno di potere o di affermazione di sé da parte della guida, o a suoi interessi di parte (reclutare per la sua istituzione). Per questo vale la pena chiarire alcuni punti fermi di una corretta interpretazione del termine in entrambi i sensi, quello spirituale e quello psicopedagogico.

  1. A livello ecclesiale

Nella Chiesa, intesa come comunità di chiamati, dovrebbe essere chiaro che il servizio di aiuto per il discernimento vocazionale è il modo naturale di crescere in una comunità normale. L’AV non è un premio per i più buoni o un sistema per reclutare gente, ma l’espressione della natura della Chiesa, quale comunità sempre feconda di figli che crescono verso la piena maturità di Cristo, nella responsabilità reciproca, nella chiamata che giunge alla piena maturazione quando il chiamato diventa anche chiamante o presta la sua voce quale mediazione dell’Eternamente chiamante.

Al tempo stesso il termine accompagnamento rimanda all’idea classica della vita come viaggio e della relazione umana come compagnia tra pellegrini che condividono tra loro le fatiche e il “pane del viaggio”6. Questo aspetto lascia dunque intendere la possibilità di un intervento non esclusivamente sul singolo, ma anche sul gruppo e attraverso il gruppo; non legato a un’unica modalità operativa, ma a diverse possibilità di cammini di crescita; cammini rivolti a qualsiasi persona, non solo a chi si trova in una particolare situazione di necessità spirituale, non solo ai nostri o ai buoni. La proposta vocazionale, non dimentichiamolo, è subito parte del kerigma, non è solo ciò che avviene al termine o come espressione matura di un itinerario credente, ma è pure ciò che fa partire lo stesso itinerario, che fa capire il senso essenziale della fede.

  1. A livello psicopedagogico

Il termine accompagnamento è usato nella pedagogia moderna per sottolineare esigenze e caratteristiche della relazione educativa in quanto tale, oltre l’ambito puramente terapeutico o clinico-mentale. Per questo accompagnare significa, nella moderna psicopedagogia, accompagnare verso se stessi, verso il centro del proprio io, recuperare la propria umanità, custodire la qualità della vita a ogni passo di essa, proporre incessantemente un intervento globalmente e integralmente umano. Sul piano del metodo dell’accompagnamento – secondo la pedagogia moderna – non è tanto la “direzione” da imprimere alla vita dell’altro, o l’”analisi” del suo inconscio, quanto la “compagnia”, o quella vicinanza intelligente e significativa che porta a un certo coinvolgimento da parte della guida, alla condivisione di ciò che è vitale ed essenziale (“il pane del cammino”) e, nel caso del credente, alla confessione della fede e della propria esperienza di Dio7. Esemplare, ancora una volta, il modo in cui Gesù “accompagna” i due di Emmaus: non dirige, fa un tratto di strada assieme, usa un metodo induttivo, li fa “venir fuori” con la loro depressione e le loro false aspettative, ha il coraggio di fargli toccare con mano la loro sclerocardia, illumina e spiega, li aiuta a rileggere la loro vita (passando dalla cronaca di accadimenti, alla storia di avvenimenti, alla centralità dell’evento), li provoca e quasi inganna («fece come se…»), soprattutto gli fa nascere in cuore la preghiera, sta con loro volentieri…

1.3 Formazione interdisciplinare

In conclusione: se si tratta di un aiuto sistematico occorre dargli una solida base, sfruttando quel che la tradizione della Chiesa ci offre come ricchezza assolutamente preziosa e imperdibile, ma anche aprendoci a quanto ci può aiutare oggi a entrare nel misterioso mondo giovanile, perché si apra alla grazia, senza schemi chiusi-rigidi, da parte nostra, a proposito dei giovani, né continuando a lamentarci di essi. Questo sarà possibile osservando attentamente le ricerche sul campo (e dunque sfruttando l’apporto della sociologia) che aiutano a conoscere questo universo giovanile un po’ enigmatico e le sue innumerevoli facce, spesso rapidamente cangianti, e anche avvalendoci dell’analisi di tipo prevalentemente psicopedagogico che cerca di coglierne attese e paure, motivazioni e speranze, attrazioni e disperazioni… In altre parole, occorre un intervento formativo a più voci, non più solo di tipo spirituale, né che adotti un metodo unicamente deduttivo. È necessario un AV aperto a più apporti e che da punti di vista diversi ci aiuti a conoscere il giovane reale e ci consenta di rivolgerci a lui, liberi dalle nostre schematizzazioni obsolete e più efficaci e credibili nel provocarne il cammino di maturazione.

Diciamo pure che questo è un primo livello d’incontro tra i due piani, quello soprannaturale e quello naturale, con la collaborazione,o il proposito di collaborazione, che ne deriva.

Normalmente a questo primo livello la distinzione è netta, in molti casi è rivendicata anche con un certo tono che attribuisce una scontata priorità alle discipline spirituali, mentre permane ancora in alcuni ambienti un atteggiamento sospetto nei confronti delle scienze umane (e pure dei giovani, di solito), o che tende a ridurne il raggio d’azione solo ai casi di emergenza o particolarmente difficili. In genere si tende però a riconoscere, almeno a livello teorico, la necessità dell’intervento dell’uno e dell’altro ambito. Anche i documenti del Magistero riconoscono l’esigenza di questo tipo di collaborazione, ma senza spingersi tanto oltre8. Tuttavia spesso questo riconoscimento resta su un piano solo concettuale, e lascia ognuno dei due settori o attenzioni abbastanza estraneo l’uno all’altro, come due percorsi fin troppo distinti, col pericolo che ognuno di essi torni a chiudersi nella sua logica e metodologia, passando dalla distinzione alla separatezza sempre più marcata, e non alla collaborazione.

Ancora una volta il problema non è ideologico, tra schieramenti e correnti opposti, ma si evidenzia soprattutto all’interno della personalità dell’operatore vocazionale, e riguarda essenzialmente la sua docibilitas relationalis, ovvero la sua disponibilità ad apprendere da più apporti, la sua libertà di lavorare con l’altro e di cercare la verità assieme all’altro, perché anche la verità, come l’essere umano, è relazionale e la si scopre meglio in due.

Proprio perché si cammina in questa direzione è necessario un tipo d’intervento formativo a più voci e con distinte sensibilità.

  1. Secondo livello: dalla collaborazione alla complementarità Lavorare nell’educazione giovanile in genere, e tanto più nell’animazione vocazionale, vuol dire trovarsi regolarmente e sempre più come alla confluenza di due fiumi o correnti energetiche: quella che viene dall’alto, dallo Spirito di Dio, e quella che viene dal basso, dalla natura. Due correnti che si mantengono distinte e che non è sempre facile né automatico comporre.

Da un lato c’è la proposta della Grazia, dall’altra la situazione della persona concreta, che avverte forse quella proposta, o crede d’intuirla, ma assieme avverte tutte le sue resistenze e paure, o forse non le avverte, ma le subisce, finendo per non poter più percepire l’appello del Chiamante. E la vocazione va in fumo.

Sembra ovvio che, per dare realmente un aiuto sistematico e impedire i vari aborti vocazionali di ogni genere, sia necessario far dialogare le due prospettive. Perché, ancor prima, è unico il percorso, anche se due sono gl’interlocutori, e unico è l’obiettivo. Ovvero, non basta accontentarsi di una certa collaborazione, occorre andare avanti, sempre a partire dal proprio atteggiamento interiore.

2.1 Storia contorta

Tutto questo sembra ovvio, però poi, nella pratica, emergono dubbi e resistenze. In verità fu così fin dall’inizio, quando le scienze umane fecero il loro ingresso nel settore fino ad allora esclusivo delle discipline della formazione vocazionale. Furono rapporti molto tesi all’inizio, ma poi la cosa sembrò stemperarsi. Cominciò così una fase di dialogo, di reciproca comprensione che senz’altro diede molti frutti e nella quale parve poter pian piano costruire un modo nuovo di affrontare anche il tema della vocazione, del suo discernimento, della sua educazione e formazione, specie dal punto di vista del metodo, in cui le scienze umane sembrano particolarmente attrezzate a dare un contributo specifico e molto utile per la crescita integrale del chiamato. Contributo sul quale abbiamo più volte riflettuto nel corso dei nostri convegni vocazionali. Anzi, diciamo pure che i convegni del CNV sono stati, da questo punto di vista, momenti molto significativi, di stimolo alla riflessione, di confronto tra esperti nei due settori, ma anche tra i partecipanti ricchi della loro esperienza, di tentativi di identificazione di percorsi concreti di formazione unitaria e integrale, di prospettive nuove e promettenti di collaborazione, di approfondimenti interessanti circa le tematiche vocazionali proprio grazie all’apporto congiunto dei due settori disciplinari.

Insomma, una serie di risultati positivi.

Poi cos’è successo? Non sappiamo bene cosa, ma abbiamo la sensazione che oggi il processo di integrazione abbia qualche problema e in certi casi si sia come un po’ inceppato. Tant’è che più di qualche volta ci si ritrova a dover giustificare la presenza o l’intervento delle scienze umane nel contesto del discorso vocazionale. Non è certo il caso di affrontare ora il problema teoricamente, e neppure di rifare l’interessante storia dei pronunciamenti magisteriali al riguardo, che progressivamente, dai tempi del Concilio, hanno riconosciuto l’importanza di questo incontro-incrocio di prospettive. La mia proposta è di vedere come può avvenire questo rapporto di collaborazione osservando quel che avviene, o dovrebbe avvenire, in un cammino di AV con un giovane d’oggi.

Per questo vorrei partire da un’analisi della situazione culturale-sociale della gioventù odierna che mi sembra particolarmente indicativa per il nostro discorso.

2.2 “C’è campo?”: il giovane d’oggi e la religione

L’analisi viene dall’ultima ricerca dell’Osservatorio socio-religioso del Triveneto, che ha intervistato 72 giovani (proprio come i primi discepoli che Gesù manda a evangelizzare, cf Lc 10,1-9)9. Di seguito gli elementi di novità più rilevanti dell’inchiesta.

-Emerge una grandissima rivendicazione di individualità e soggettività. È la scelta personale ad apparire fondativa. Se c’è qualcosa di sacro oggi è la libertà di fare le proprie scelte, di scegliere il proprio modo di vivere. Il valore in gioco qui è quello dell’autenticità, che è il valore dell’individuo impegnato nel trovare-costruire se stesso; la paura semmai è quella di perdere se stessi perché si è subita la vita, si sono subite idee o decisioni o pressioni altrui. È un must: sono io a ricercare e determinare chi infine voglio essere. In tal senso non c’è consapevolezza di aver ricevuto, o gratitudine verso le generazioni precedenti. Chiaro che questo avrà ripercussioni sul piano della fede e sul modo di considerarsi credente, legato non più a qualcosa di ereditato dai genitori e sempre più ridotto a una questione di sensazioni soggettive.

– Valore centrale oggi è il rispetto dell’altro, considerato evidente in sé, che porta alla tolleranza nei confronti dell’altro e alla libertà di prendersi cura degli altri indipendentemente dalle appartenenze dei singoli. Da un lato, allora, l’altro va assolutamente rispettato, qualsiasi sia stata la decisione da lui presa, l’importante è che lui abbia deciso così di sé. D’altro lato l’agire morale è sempre orientato dal fondamentale criterio di non procurare sofferenza agli altri ed è un valore che si pone come assoluto.

– Sul piano più squisitamente morale il giovane odierno mostra una singolare allergia per ciò che è indicato come obbligo. Quello che viene da fuori non ha per lui un valore a priori, semmai deve interagire con qualcosa che è “dentro”, deve nascere o ri-nascere da dentro, essere scelto e fatto proprio; i valori non influiscono se non diventano “i miei valori”. Così nel campo religioso la figura del praticante muta di senso: la fonte dell’obbligo è prima di tutto personale e interiore. E se cade l’indicazione assoluta e il discorso dell’obbligo ciò che è soggettivamente convincente è non solo la conoscenza, ma l’esperienza personale e soggettiva.

Sta di fatto che questa enfatizzazione della personalizzazione fa capire la difficoltà di rapporto con le regole e con quelle istituzioni che, come la Chiesa, tendono a fornire regole, obblighi e divieti. Valori sì, regole no.

– Siamo ormai fuori del cristianesimo sociologico e stiamo andando verso un cristianesimo scelto, di elezione, frutto di una scelta. E la scelta cade su una religione che deve parlare la mia lingua, deve avere senso nei termini del mio sviluppo morale così come io lo interpreto, ma anche di quello spirituale, così come io lo interpreto… Il cristianesimo sociologico finisce più o meno attorno ai 13 anni, poi c’è… la “festa del ciao”, o per una scelta improvvisa e brusca, o con un distanziamento dolce e progressivo, con un sentimento religioso “a bassa intensità”.

-Per questo i giovani d’oggi credenti (o che si presentano come tali) non hanno certezze, restano possibilisti riguardo la fede, come in stallo, senza decidersi né per un senso né per l’altro; il credere oggi non è così sicuramente associato all’idea di certezza. Lo stato più diffuso è quello di giovani che conservano delle tracce di credenza, come uno stato di “probabilismo credente” (“Dio forse c’è”, “io spero che ci sia”), quasi di semicredenza, del “credere nel relativo”10.

– Di conseguenza l’approdo non è una identità religiosa ben definita, ma semmai una spiritualità instabile, fluida e mobile. È comunque una tensione spirituale aperta, esiste una spontanea predisposizione spirituale, anche se poi non va a inquadrarsi in uno schema predefinito né in una grammatica religiosa. Emergono poi gli svogliati, quelli cioè non interessati a chiarire la loro collocazione, e quelli in ricerca, ma con scarsi strumenti di ricerca (il loro bagaglio religioso è ancora quello dell’infanzia).

– Notevole è il livello di ignoranza religiosa, con scarsissima considerazione della Bibbia, il testo sacro di riferimento della religione cristiana. Così come, a partire da una certa età, non c’è più rapporto con la Chiesa, per cui ciò che sanno di essa lo sanno filtrato dai mass-media, a loro volta ignoranti in materia e attenti solo a criticare la Chiesa per la sua ricchezza-sfarzosità.

Perché abbiamo fatto questo riferimento di natura sociologica alla situazione dei giovani d’oggi? Perché ci offre uno spaccato giovanile che non può non interessare chi lavora nell’AV.

2.3 Figlio di nessuno: il giovane d’oggi e la vocazione

È impressionante vedere da un lato l’atteggiamento giovanile come emerge da questa indagine (la più recente e attendibile, al di là del numero non così esteso di persone coinvolte, ma significativo perché compiuta in una zona tradizionalmente considerata di antiche tradizioni cattoliche) e, d’altro lato, quasi un’interfaccia, le esigenze della vocazione. Siamo su due posizioni opposte.

Da una parte abbiamo un giovane assolutamente autoreferenziale e che privilegia in modo totale la sua propria autodeterminazione, al punto che la scelta è buona se è ciò che mi sento di fare. Vocazione, invece, significa affidarsi a un Altro che mi chiama e mi conduce lungo vie non esattamente da me programmate.

Il giovane d’oggi ha una vera e propria idiosincrasia per tutto quanto sa di vincolante e cogente, un’allergia verso ciò che si propone come oggettivo e normativo, privilegia in modo esclusivo il soggettivo. Vocazione, ancora una volta, è una chiamata che presume essere vincolante perché viene da Dio.

Il nostro giovane, infine, vive in un regime di insicurezza, di semicredenza, di un credere incerto e instabile, pieno di “forse”, povero di passione e soprattutto povero di relazione. Essere chiamato, invece, vuol dire scoprirsi dentro una relazione, vuol dire scoprirsi importante per qualcuno, al punto da essere reso capace di rispondergli, di divenire suo interlocutore.

Il giovane d’oggi, in definitiva, appare in questa indagine sociologica un po’ come figlio di nessuno. Per questo per fare una scelta non può far conto su nessuno se non su se stesso; teme l’altro, e lo percepisce subito come un’autorità pericolosa o come un potere che lo annulla. Proprio per questo ha paura di ogni forma di imposizione (o di ciò che egli legge come tale). Il suo credere è incerto (contraddizione in termini) e senza passione, perché c’è come una sottile disperazione nel fondo del suo cuore, certamente molto ben celata dietro un’immagine sicura e persino spavalda a volte, ma che basta poco a lasciar affiorare una disperazione che nasce da questa sensazione di essere orfano, padre di se stesso, che deve provvedere alla sua vita, con prospettive non proprio esaltanti… Altro che i gigli del campo e gli uccelli del cielo…! Coi tempi che corrono poi… Proviamo a pensare quali possono essere le conseguenze a livello psicologico. Con ripercussioni inevitabili per quanto riguarda la possibilità di entrare in contatto con Dio, di sentirne la voce, di sentirsi addirittura chiamati da lui.

2.4 Abbiamo perso i sensi?

Ecco allora il punto: se si porta avanti una normale animazione vocazionale, che in pratica dà per scontato che il soggetto sia in grado di vivere questa relazione col Trascendente, si corre il rischio di fare un’azione a vuoto. Non è per niente scontata tale relazione, perché ancor prima è in crisi la vita relazionale in genere, in particolare della gioventù odierna. Il giovane d’oggi ha perso i sensi, i suoi sensi sono supernutriti e male alimentati, sta passando dalla bulimia all’abulia sensoriale11, una specie di anestesia dei sensi: ha gli occhi, ma non vede, gli orecchi, ma non sente, come quegli idoli di cui parla il salmo (cf Sal 115), non è più capace di vedere, toccare, gustare, sentire, annusare ciò che è bello, vero e buono. Infatti, come abbiamo visto, vive un rapporto ambiguo con Dio, ne sente, è vero, da un lato, la nostalgia, ma non riesce ad andare oltre l’ipotesi di Dio, come fosse un’idea o fosse senza volto, senza sensi anche lui, mentre dall’altro non sa più coglierne la dimensione personale, senza la quale non si dà alcuna proposta vocazionale, alcun cammino alla ricerca dell’io12.

Se poi a questo s’aggiunge l’allergia del giovane verso le posizioni categoriche o ciò che risuona ai suoi orecchi come un obbligo (foss’anche legato alla divinità), è facile capire che fine farà un certo modo spirituale o solo teologico di presentare la vocazione. È necessario intervenire a un altro livello, occorre liberare la percezione, i sensi13, i pregiudizi… occorre lavorare sulla sensibilità, sulle emozioni, sulle sensazioni… occorre cercare di togliere le paure dell’altro e di sé, i sospetti sulla vita e sul futuro, la sensazione negativa su di sé o addirittura i complessi d’inferiorità travestiti in atteggiamenti opposti (spavalderia e sicumere varie). Occorre in particolare riuscire a intercettare quella disperazione sottile, impalpabile, inconscia, che il giovane stesso non ha il coraggio di ammettere.

2.5 Formazione umana come contenuto e metodo

Per questo diventa importante la formazione umana, correttamente intesa. Essa non è semplicemente quel certo corredo di virtù cosiddette “umane” (dicitura già infelice, come vi fossero anche virtù subumane), che sarebbero poi gli atteggiamenti virtuosi particolarmente apprezzati dal contesto culturale, né – come dicono alcuni documenti – formazione umana dovrebbe essere intesa – all’interno di una logica di diversi livelli, o strati, o dimensioni formativi-come ciò che viene prima della formazione vera e propria, e che non è ancora formazione, ma solo una premessa o una condizione per quanto imprescindibile, un fondamento per quanto indispensabile della formazione che verrà dopo, cioè quella teologica, pastorale, liturgica…14 No, formazione umana vuol dire fino a che punto della realtà dell’individuo deve avvenire il lavoro educativo, e dunque fino a quale profondità della personalità (e umanità) di ognuno deve avvenire l’adesione alla fede, ai valori di Cristo, l’evangelizzazione.

  1. Contenuto

Forse questa è la nuova evangelizzazione, quella cui abbiamo poco pensato finora, accontentandoci di formare il versante esteriore della persona, dando attenzione solo ai comportamenti, illudendoci coi numeri e le statistiche del cristianesimo sociologico. Questo oggi non può più bastare, se mai è bastato, e ben venga la crisi attuale giovanile che stiamo vivendo a buttare all’aria quest’illusione e presunzione. Occorre decisamente cambiare registro, ovvero mettere in atto un approccio diverso che ci consenta di pensare un cristianesimo e un messaggio evangelico (nelle sue varie articolazioni: catechetico, omiletico, sacramentale, pastorale…) capace di giungere a toccare e “trafiggere il cuore” (cf At 2,37), i sensi, la sensibilità, l’emotività del credente fino a che sia formato in lui Cristo (cf Gal 4,19) e si abbiano i suoi sentimenti (cf Fil 2,5). In questo modo la formazione umana è già al tempo stesso formazione spirituale, o comunque è perfettamente complementare a essa al punto di aiutarla ad essere vera spiritualità, quella che attecchisce profondamente nell’umano, si radica in esso, lo converte ed evangelizza, ma si esprime anche e diventa visibile e godibile attraverso di esso.

  1. Metodo

È chiaro che una formazione così intesa significa anche avere strumentazione adeguata, metodo corrispondente, pedagogia d’intervento specifica. Qualcosa che non si trasmette di generazione in generazione, né si riduce alla formazione di gruppo, neanche in occasione delle favolose GMG, ma chiede la fatica umile e paziente, rigorosa e intelligente, competente e preparata di una formazione umana, attenta all’umano, non semplicemente deduttiva, che passa attraverso il percorso laborioso dell’uomo perché non si chiuda, non si lasci ingannare dalla tentazione dell’autoreferenzialità, non si illuda di fare i suoi interessi pensando a se stesso, accetti il rischio di nascere a vita nuova.

Allora, se formazione umana vuol dire questo, non può certo essere ridotta a un pacchetto di virtù oggi più apprezzate, né può consistere in un preambolo formativo ed essere risolta e acquisita una volta per tutte nella vita, ma accompagna la vita intera e conduce progressivamente alla libertà di lasciarsi accompagnare da un fratello maggiore, per giungere alla scoperta di sé e alla libertà di scoprire accanto a sé una presenza amica, una relazione accogliente, uno sguardo d’amore, quello del Padre Dio, perché nessuno si senta figlio di nessuno. Di qui una formazione della docibilitas affectiva, a lasciarsi benvolere dall’altro e dall’Altro.

2.6 Complementarità

Ed è già complementarità. Poiché è proprio la formazione così intesa a mettere sempre più insieme i due tipi di attenzione: quella spirituale e quella umana. L’una non può stare senza l’altra, l’una non si capisce senza l’altra, l’una è irraggiungibile senza l’altra, l’una non cresce senza l’apporto dell’altra, l’una è falsa e finta senza l’altra, non solo la formazione umana senza quella spirituale, ma anche quest’ultima senza la prima, poiché l’una è parte dell’altra. Ancora una volta si riafferma il principio che ciò che divide è diabolico ante litteram, e se questo avviene nella pastorale vocazionale lo è ancora di più ed è diabolico perché è antiumano, è contro la natura umana.

Né si tratta di una semplice collaborazione, ma di complementarità, ovvero di una collaborazione che prevede un continuo dialogo tra le due prospettive, un partire dal punto ove l’altra è giunta, per giungere a un punto da cui l’altra possa ripartire. Senza precedenze fisse o livelli o dimensioni formative che semplicemente si succedono l’una all’altra, come in un certo schema tradizionale. In fondo, se pensiamo che l’obiettivo è formare nel cuore del credente i sentimenti del Figlio e la libertà di provare i suoi sentimenti (come condizione per scegliere il proprio progetto di vita), appare del tutto chiaro come la formazione sia unica, pur avvalendosi di vari percorsi, perché di fatto è il cuore, sono i sentimenti, è la sensibilità del soggetto, è la sua umanità che si deve formare. È fuorviante qualsiasi tentativo o di divisione. Anzitutto all’interno della persona. Per questa ragione allo spiritualista che è in me dico: non delegare tutto a Dio, non illuderti che basti un certo rapporto col Trascendente, così come non può essere sufficiente l’attenzione ai comportamenti, ma guarda al cuore, alle sue ferite, sii vero, non solo sincero, interrogati sulle motivazioni che ispirano il tuo agire, non guardare solo alla correttezza esteriore…

E così pure allo psicologo che è in me ricordo: non pensare che scrutarsi e conoscersi sia sufficiente, né che tu sia capace da solo…, accetta di essere impotente, ma davanti a Dio. Solo lui ti dà il motivo e la forza di cambiare.

Si potrebbe forse dire che la formazione complementare prevede interventi che rispondono correttamente alle diverse competenze messe in atto, per cui alla formazione spirituale, ad esempio, si chiede di offrire i contenuti, mentre la formazione umana indicherebbe il metodo, ma la distinzione non va forzata, poiché i contenuti (i sentimenti del Figlio) contengono già un’indicazione di metodo, mentre il metodo (un certo tipo di accompagnamento e di indagine nel mondo interiore del soggetto) è definito anche dal contenuto.

In definitiva, la formazione complementare è soprattutto questione di competenza del singolo accompagnatore, che dovrebbero essere preparato a fare questo lavoro che va in profondità nel mondo interiore dell’altro e dunque si presta a entrare in contatto e a dialogare con la prospettiva spirituale; ma non è solo questione di competenza psicopedagogica, bensì anche e soprattutto di sensibilità del formatore, che accompagna lungo un cammino che conosce molto bene per averlo egli stesso portato avanti nella sua propria vita interiore, e continua a portarlo costantemente avanti. È proprio l’esperienza personale e continua dei sorprendenti punti di contatto tra formazione spirituale e formazione umana che mette un credente in grado di aiutare un altro a camminare nella stessa linea unitaria. Ovvero, solo chi prende sul serio la propria formazione permanente può permettersi di fare AV.

2.7 A livello pedagogico-pastorale

La prima indicazione pratica è molto precisa: se si tratta di creare un clima che porti dalla collaborazione alla complementarità, ovvero a una collaborazione intelligente e voluta, occorre creare ancor prima una vera e propria cultura vocazionale, o far sì che la tematica vocazionale recuperi il posto centrale che le spetta nella teologia e nella pastorale, nella teoria e nella prassi, secondo le tre classiche componenti di una cultura: come mentalità o concezione di essa, come sensibilità da parte dei singoli e della comunità credente, come prassi pedagogica. Solo allora si potrà parlare di autentica complementarità tra gli agenti sul campo e giungerà a ognuno e alla comunità un messaggio forte e univoco15. Seconda indicazione pastorale: la complementarità non è solo tra l’azione di due singoli agenti, o tra l’agire di Dio e quello che compie la guida umana, ma tra l’accompagnamento di quest’ultima e l’accompagnamento della comunità credente. Ovvero, la guida non deve mai pensarsi sola in questo servizio, ma deve fare in modo che il giovane possa sempre più ritrovare nella comunità credente in cui è inserito (parrocchia o gruppi vari) la continuazione del lavoro che porta avanti con la guida, grazie proprio alla maggiore disponibilità di lasciarsi pro-vocare dai tanti stimoli vocazionali disseminati lungo la vita di ogni giorno, nella liturgia, nella catechesi, nella vita sacramentale, nei servizi di carità, nelle relazioni… È come se l’accompagnamento riattivasse nel soggetto una certa docibilitas vocationalis, come ora vedremo.

  1. Terzo livello: dalla complementarità alla convergenza

Siamo al punto più alto del nostro cammino di approfondimento della relazione tra azione dello Spirito e scienze umane. Che forse non rappresenta una vera e propria fase nuova rispetto al secondo livello, poiché è in esso in qualche modo già presente. Questo terzo livello può servire metodologicamente per organizzare e monito-rare il proprio stile di presenza nei confronti del giovane in ricerca vocazionale. Per cui si rende possibile una certa interscambiabilità di obiettivi.

3.1 Unità d’intenti e di percorsi

Ecco il principio che sta un po’ sullo sfondo di questo terzo livello: si passa dalla complementarità alla convergenza quando ciascuna dimensione formativa raggiunge il proprio obiettivo raggiungendo anche quello dell’altra. O quando, in altre parole, si stabilisce una sempre più perfetta unità d’intenti e di percorsi, al punto che l’azione dello Spirito forma l’uomo e un’umanità sensibile, mentre l’azione psicopedagogica plasma anche l’uomo spirituale. Così, nel nostro caso, diremmo che l’azione dello Spirito mira a formare realmente l’uomo: l’uomo che ama, desidera, si appassiona, fa scelte, sperimenta la propria debolezza… Ma anche l’azione delle scienze umane mira a formare in quest’uomo colui che è aperto alla voce di Dio, la ascolta e la riconosce, non la riduce a una misura semplicemente umana, se ne lascia provocare e mettere in crisi; le dà la precedenza sui suoi progetti, la sceglie come la sua vita e il suo modo di avere in sé i sentimenti del Figlio. Non c’è dunque più una semplice collaborazione o complementarità tra Dio e l’uomo, o tra due attenzioni diverse portate avanti da operatori diversi, per cui una inizia ove finisce l’altra dimensione o attenzione formativa, ma progressivamente ognuna di esse persegue nel suo proprio obiettivo anche quello dell’altra. Idealmente potrebbe essere la stessa persona a portare avanti il percorso, unificando armonicamente in sé entrambe le competenze e sensibilità, quella spirituale e quella psicopedagogica. Questa è la prospettiva ideale verso la quale credo importante che c’incamminiamo. E che renderà più evidente la convergenza degli obiettivi tra azione di Dio e azione tipicamente umana. Vorrei esplicitare meglio questo concetto ricorrendo ancora alla ricerca dell’Osservatorio religioso del Triveneto.

3.2 Dalla paura della scelta al coraggio della vocazione (o dal modello della Creazione al modello della Redenzione)

Il giovane che emerge dall’inchiesta è un giovane timoroso nei confronti della scelta e che, in ogni caso, pretende che la scelta sia assolutamente ed esclusivamente sua per non correre il rischio di essere condizionato da altri, chiunque questo altro sia, per non sentirsi vincolato e obbligato da chicchessia, magari anche solo da una legge costrittiva. Noi abbiamo interpretato nel punto precedente tutto ciò come espressione di una certa sensazione, più o meno inconscia, di solitudine, di assenza di una presenza importante, di strisciante disperazione addirittura del giovane odierno un po’ figlio di nessuno (e non solo per le situazioni sempre più balorde dei nuclei familiari odierni). È ovvio che tutto ciò costituisce un impedimento naturale all’azione soprannaturale dello Spirito che chiama, impedimento che funziona come uno sbarramento che in molti casi nessuno ha provveduto a tentare, almeno, di eliminare. Coi risultati che sappiamo, di aborti vocazionali o addirittura di aborti… credenti (o di abbandono della fede). Ora, un’autentica formazione umana, con la sua propria metodologia e logica, mira per natura sua a far crescere la persona nella capacità e nella libertà di scegliere. Questo non è anche obiettivo di un cammino di maturità spirituale e ancor più se finalizzato a una scelta vocazionale? Basterebbe questa constatazione, apparentemente semplice e scontata, per rispondere a chi ancora si ostina a mettere in dubbio la possibilità e convenienza di una azione concertata al riguardo. In realtà tale constatazione è rilevante poiché consente di mettere a fuoco il compito preciso, se mai ve ne fosse bisogno, dell’intervento di tipo psicologico. Esso mira a far sì che nella persona si allarghi la capacità decisionale, ma, ancor prima – com’è tipico di un intervento autenticamente psicologico –, di andare a vedere cosa arresta nella persona tale capacità, facendo dunque, ancora una volta, un lavoro in profondità nel suo vissuto per andare a scovare in esso memorie ferite, traumi sofferti, emozioni negative… e quant’altro possa in qualche modo ora creare nel soggetto la paura del futuro, la paura dell’altro, la paura di decidere e consegnarsi, la paura di Dio, di ammetterne interamente, per così dire, l’esistenza. Lo stesso problema lo possiamo vedere anche dall’altro versante, quello dell’azione di Dio, sottolineata dall’intervento di tipo più spirituale. Se quest’intervento propone il progetto vocazionale ispirato non solo al modello della Creazione, secondo il quale ogni essere umano è chiamato a realizzarsi a immagine e somiglianza del Creatore, ma anche al modello della Redenzione, secondo il quale Dio chiama ogni essere umano salvato dalla croce del Figlio e, proprio perché redento, a farsi carico della salvezza del fratello, in tal modo rivolge un appello che è infinitamente più convincente e vincente su tutte le paure e disarmonie interiori del giovane. Egli, ci suggerisce la ricerca già citata, nel deserto dei valori e di ciò che è vincolante della realtà in cui vive, è però ancora sensibile al valore del rispetto dell’altro, del suo vero bene, e dunque non potrebbe non essere sensibile a un appello che lo spinge in tale direzione. Senza dire, poi, che tale provocazione massimale sarebbe davvero pro-vocante, ovvero chiederebbe il massimo al giovane risultando dunque paradossalmente più appetibile e graffiante di tante proposte innocue, che portano alla pericolosa confusione tra vocazione e autorealizzazione, o realizzazione delle proprie doti, dunque banali e superficiali, se non pagane ed egoistiche, che al massimo fanno il solletico al giovane senza minimamente scuoterlo né metterlo salutarmente in crisi. In altre parole, anche la provocazione spirituale, quand’è condotta in modo corretto, esprime l’azione di Dio che plasma in maniera misteriosa ma reale l’uomo nuovo, l’essere anche psicologicamente maturo, aperto agli altri, responsabile dell’altro, capace di farsene carico, desideroso di dare alla propria vita un ideale alto, capace di spremere al massimo le sue capacità e di fargli dare il massimo di sé. Per l’altro. Non è forse convergenza questa?

3.3 A livello pedagogico-pastorale

A livello pastorale cosa implica questa logica della convergenza?

Dovrebbe determinare quanto raccomandava già tempo fa il documento del congresso europeo vocazionale, ovvero il principio della vocazionalizzazione di tutta la pastorale. Al punto che ogni espressione di essa sia permeata e animata da una forte e precisa ispirazione vocazionale e ponga chi partecipa all’Eucaristia, chi ascolta un’omelia, chi riceve il perdono sacramentale, chi partecipa a un atto di devozione, chi condivide la propria fede con i fratelli credenti, chi insomma in qualche modo s’accosta al mistero di udire una chiamata, di cogliere un appello rivolto proprio a lui, di sentirsi trafiggere il cuore da una parola che lo pro-voca e lo costringe a chiedersi: «Ma io cosa devo fare?», proprio come coloro che ascoltarono Pietro il giorno di Pentecoste (cf At 2,37). Altrimenti quella non è operazione di pastorale cristiana, è qualcos’altro, non ben identificato. Credo che siamo ancora ben lontani da questo processo di vocazionalizzazione della pastorale.

Inoltre credo che si dovrà essere molto più espliciti e diretti nel portare avanti una catechesi vocazionale vera e propria, ovviamente sempre all’interno di una cultura vocazionale vera e propria, e dunque con un’accezione ampia del concetto di vocazione, e non avere paura di trattare la cosa né lasciarla esclusivamente – e ambiguamente – alla giornata vocazionale o a quella per il seminario.C’è una omissione o inadempienza piuttosto grave da parte di chi dovrebbe mostrare un forte interesse e senso di responsabilità al riguardo.

3.4 Formazione integrale e modello dell’integrazione-ricapitolazione

Per giungere a questo obiettivo e all’incontro tra azione di Dio e azione umana occorre un metodo o un certo modo d’intendere la formazione stessa, quello che chiamerei formazione integrale.

Integrale in due sensi: il primo vorrebbe dire una formazione che cerca di essere il più possibile completa, per favorire un cammino reale e conversione di “tutto” l’uomo, di cuore-mente-volontà, dei suoi sensi e della sua sensibilità, della sua umanità e della sua spiritualità, della sua capacità di trascendenza e della sua genitalità e sessualità, delle sue aspirazioni e delle sue piccinerie.

Il secondo senso dell’integralità della formazione vorrebbe indicare, invece, quel punto centrale attorno al quale realizzare tale integrazione. Che non può che essere la Pasqua di Gesù, il punto più alto dell’integrazione tra cielo e terra, tra uomo e Dio, tra santità e peccato… Perché così è «piaciuto al Padre: fare di Cristo il cuore del mondo». “Cuore” come ciò che consente di recuperare tutta la realtà, positiva e negativa della vita, come ciò che dà senso a tutto, anche a ciò che ne sembra privo o che sembra fatalmente negativo. Perché questo ha fatto Gesù in croce: la condanna a morte dell’Agnello innocente è l’atto più insensato di tutta la storia umana, eppure Gesù ci salva attraverso di esso. In che modo? Caricando di senso ciò che era assolutamente senza senso, ovvero vivendo con amore quanto gli uomini gi stavano infliggendo per odio e dunque mettendo senso positivo in un abisso di negatività.

Formazione integrale significa questo lento, a volte lentissimo, cammino di integrazione della vita intera, in tutti i suoi eventi, belli e brutti, luminosi ed oscuri, di bene e di male…, attorno a questo nucleo centrale, centro vitale e significativo, che è la croce di Gesù, che attira a sé tutte le cose (cf Gv 12,32), ovvero che può dar senso a tutto, infatti nulla si sottrae al suo calore (cf Sal 18,7). Integrazione è il dinamismo psicologico, attraverso il quale si raccoglie tutto il passato, lo si accoglie, lo si riconosce nella sua positività con gratitudine, lo si accetta nella sua negatività, ma per caricarlo di un senso nuovo, che il soggetto sarà libero di dargli a livello umano (es. se ho ricevuto una violenza, la vivo come esperienza, pur sofferta, che oggi mi consente di capire meglio chi ha vissuto la stessa terribile vicenda). Il passato, ci dice la psicologia, non è mai passato del tutto, l’uomo lo può riprendere in mano e risignificarlo. In tal modo il passato è integrato e la persona è pienamente riconciliata con esso. Attenzione, sempre la psicologia ci avverte: ciò che non è integrato diventa disintegrante.

Ricapitolazione è il dinamismo spirituale, quello che avviene in forza della fede e grazie alla croce di Gesù, se Gesù ci ha salvati nel modo prima sottolineato, ciò vuol dire che siamo resi capaci dall’azione redentrice divina di fare la medesima cosa che lui ha fatto per noi: mettere senso ove non ce n’è, mettere amore (che è la più alta possibilità di senso) ove c’è odio. È così che il credente entra pian piano nel dinamismo redentivo, ove scopre di poter giocare un ruolo attivo. Evidente la convergenza tra i due dinamismi. Ed è convergenza preziosa e condizione fondamentale per entrare anche nella disponibilità vocazionale. Allora si può dire che il giovane è stato davvero  accompagnato alla sua decisione di vita.