N.04
Luglio/Agosto 2012
Studi /

La natura umana è sostanzialmente amore: formazione e maturazione affettiva.

Le parole formazione e maturazione richiamano un divenire, un processo, un cammino di cambiamento e un tempo di maturazione appunto perché chi lo percorre ne faccia esperienza. «Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo ho eliminato ciò che è da bambino» (1Cor 13,11), dice San Paolo al termine dell’inno alla carità descrivendo in qualche modo chi è l’uomo adulto, maturo appunto: una persona veramente umana, empatica, caritatevole, rispettosa, capace di desiderare e volere il bene. «Siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (Ef 4,32).

La persona affettivamente matura è infatti libera e vuole bene, dove volere bene significa volere il bene personale e volere il bene dell’altro. Tanto naturale quanto complesso insieme.

 

  1. Perché è naturale?

Perché è scritto nel cuore di ogni persona umana il desiderio di essere veramente tale, umana, e perché la sua natura – come dice il titolo di questo intervento – è sostanzialmente amore.

L’uomo è fatto per la trascendenza: c’è una spinta, una bella tensione che orienta l’essere umano oltre se stesso; egli possiede naturalmente questa tendenza che lo porta a superarsi, a migliorarsi, a cercare un “di più” rispetto a quello che è oggi, che sia capace di dare significato e direzione alla propria vita. La capacità di trascendenza agisce nello svolgersi della crescita umana, come un dinamismo che permette all’interiorità sia di innalzarsi per aprirsi al suo Creatore, lasciarsi amare ed amarlo, sia di espandersi per restituire l’amore e costruire comunione. Questo appartiene intimamente alla dinamica evolutiva della persona: per vivere la vita come un’esistenza di gioia, «piena» ed «abbondante» (Gv 10,10) è infatti necessaria la percezione di una distanza tra ciò che la persona è in questo momento (Io attuale) e le aspirazioni alle quali tende, che la trascendono appunto (Io ideale).

La maturità umana si configura come un cammino quotidiano di restituzione del dono ricevuto che fa sperimentare il dono di sé come un vissuto di libera autotrascendenza che, necessariamente, si affida all’altro. È l’alterità il luogo obbligato della “edificazione di sé” dove si coniugano libertà e ricerca del bene. Il vivere infatti «secondo la misura del dono di Cristo», concesso ad ogni cristiano, conduce alla maturità che non fa essere più «come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore» (Ef 4,7.14). Sarà allora possibile quella fedeltà gioiosa e creativa all’amore riversato nel cuore dell’uomo (Rm 5,5) che si concretizza in un vivere «secondo la verità nella carità», cercando insieme «di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo» (Ef 4,15)1.

  1. Perché è complesso?

Perché «l’uomo si trova diviso in se stesso» (Gaudium et Spes, 13). Ogni cristiano onesto fa esperienza delle sue contraddizioni, dei suoi «avrei voluto… ma…», «mi ero riproposto di… però…»; lo sperimentiamo talvolta in modo toccante anche nel servizio di ascolto e di guida: quanto impegno e dedizione riscontriamo nella persona accompagnata, vediamo in lei un sincero e grande «desiderio di scommettere la propria vita su di un ideale non solo valido ma molto alto» e, al tempo stesso, siamo in «presenza anche di una grande fragilità»2. Nel cuore dell’uomo è radicato uno squilibrio dove molti elementi si combattono a vicenda (amore/egoismo; virtù/peccato; libertà per fare il bene/voglia di rivalsa; slanci/paure; donazione/ tradimento; perdono/rancore): «debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe» (Gaudium et Spes, 10; Rm 7,14). Pur avendo degli ideali chiari, la ragionevolezza del buon senso e la buona volontà di compiere il bene, ci dobbiamo confrontare con l’evidenza che le nostre scelte e i nostri atti in genere sono meno limpidi e molto più complessi di quanto crediamo. Volere il bene e agire per la concreta realizzazione di esso sono atti che dipendono infatti dalla libertà personale, che è sempre condizionata. Da cosa?

Possiamo dire che noi, come esseri umani, pur godendo di una buona salute psicologica, possediamo una libertà condizionata dal bagaglio delle nostre esperienze emotive accumulate nel nostro divenire adulti. Bisogna riconoscere che non tutte le relazioni umane avvengono in un “regime di Grazia”, ma possono rivelarsi vulnerabili, bloccanti, deludenti, lasciando delle ferite soggettive che possono, talvolta inconsapevolmente, condizionare una lettura vera e realistica (oggettiva) delle relazioni successive. È il “lavoro” della memoria affettiva che registra le emozioni associate a specifici eventi e le riattiva automaticamente (in modo soggettivo, arbitrario rispetto all’evento) nel momento in cui la vita offre situazioni simili a quelle che hanno originato l’emozione. Se la persona ha un’abitudine all’introspezione e all’ascolto di sé ed è divenuta almeno sufficientemente consapevole delle sue reazioni, allora probabilmente gestirà adeguatamente il suo vissuto. Ma se questo processo non è avvenuto è verosimile che scatterà qualche reazione inconsapevole e non appropriata. Bisogna riconoscere cioè che la motivazione ad agire possiede una componente che non è sempre immediatamente presente alla coscienza. Una persona può chiedere, ad esempio, una direzione spirituale spinta dal desiderio di conoscere il Signore Gesù e crescere nella relazione con Lui (motivazione esplicita e consapevole). Sta cercando genuinamente il bene, ma al contempo – facciamo degli esempi generici – potrebbe cercare di colmare una solitudine (motivazione nascosta che nasce da un bisogno di avere qualcuno con cui parlare ed essere ascoltato) o sperare di poter affrontare un suo problema (spinto dall’ansia che gli crea un conflitto) o perché si aspetta che il “don” gli dirà cosa deve fare (spinto paradossalmente da una dinamica di passività, di fuga dalla responsabilità) o perché spera che il don, vedendo il suo impegno, gli affiderà un incarico importante (spinto da un’emozione di invidia). Cioè, in ogni persona ci sono delle motivazioni nascoste (ma vive e vivaci!) che portano ad agire senza che la persona se ne renda conto, perché è caratteristica tipica di tali motivazioni il sapersi ben camuffare all’interno di nobili ideali e rimanere inaccessibili all’introspezione. In sintesi possiamo dire che nella persona umana, fondamentalmente buona e sana (normale!), ci sono delle forze sia consapevoli che non consapevoli che influenzano la libertà di volere ed agire per il bene.

Da qui, almeno tre conclusioni concrete.

  1. Riconoscere che le forze non consapevoli agiscono rallentando, ostacolando, a volte bloccando il processo della maturazione affettiva vuol dire anche tracciare una linea di cammino verso la maturità: ampliare la consapevolezza di sé, ri-assumersi nella libertà ed entrare in una dinamica di ascesi per cambiare e divenire sempre più responsabili al bene, all’ ideale scelto.
  2. La possibilità di definire l’amore maturo per se stessi come una profonda conoscenza ed accettazione della propria storia e biografia, delle proprie disposizioni motivazionali unita ad una appassionata disponibilità a lasciar lavorare Dio su di sé per crescere nella libertà di cambiare e di agire per il bene che il Vangelo propone. In altre parole: la persona affettivamente matura è in grado di orientare (e modificare) consapevolmente e liberamente la propria soggettività ai valori evangelici oggettivi che ha scelto di incarnare nella sua azione quotidiana.
  3. Sapere di possedere una libertà condizionata, oltre a renderci meno presuntuosi nei confronti di noi stessi, ci rende anche meno rigidi, critici e moralisti nei confronti degli altri. Conoscendo quanto siamo esposti al rischio di cadere (1Cor 10,12), consapevoli delle nostre incoerenze, forse saremo più disposti a tacere di fronte ai comportamenti degli altri e forse più benevoli e capaci di comprenderli3. La conoscenza di se stessi, dei personali limiti, diviene possibilità di maggiore misericordia anche verso gli altri. Ci porta ad un modo più complesso (o completo) di guardare gli eventi umani, maggiormente orientato alla comprensione di una “umanità dolente”, cioè un’umanità che deve fare i conti con forze, limitazioni, esperienze che spesso ne condizionano le scelte, ma che se riuscisse ad essere migliore lo farebbe immediatamente e ben volentieri (almeno nella maggior parte dei casi).
  4. Un passo preliminare: la maturità antropologica

Nel tentativo di rispondere al perché volere il bene sia tanto naturale quanto complesso assieme abbiamo abbozzato un’antropologia. A volte lo diamo per scontato, forse non ci abbiamo mai evidentemente fatto caso, ma tutti noi abbiamo un modo più o meno articolato di intendere l’essere umano. Tale modo fa parte dei nostri pensieri e ci fa da guida ed interprete nel leggere i fatti e i rapporti tra le persone, ci orienta ad uno stile del tutto particolare nel vivere la vita, la morte, il dolore, la gioia, il lavoro, le relazioni. Noi qui abbiamo presentato la persona umana con il tratto peculiare della capacità di trascendenza e, al tempo stesso, del limite ontologico di essere divisa in se stessa. Essa infatti è desiderosa e capace di vivere secondo la proposta del Vangelo, disponibile a lasciar-si dissodare dalla vita e dal Signore che in essa si fa presente perché il “suo” terreno sia autenticamente umano e fertile per l’opera della Grazia. Tuttavia fa esperienza della sua inconsistenza rispetto agli ideali vocazionali e subisce la forza delle motivazioni non consapevoli che la spingono ad agire come non vorrebbe. Ecco il motivo di questo passo preliminare: un cammino di maturazione affettiva necessita di affondare i suoi passi su una già presente maturità di natura antropologica. Come guide spirituali non possiamo collaborare ad un cammino di maturazione affettiva se la persona che guidiamo possiede un’idea di maturità affettiva – derivata dalla propria antropologia – diversa dalle esigenze della vocazione alla quale vuole rispondere4. È una riflessione che appare importante, soprattutto in questo tempo storico – gli esperti lo chiamano “ipermoderno”, “debole”, della “cultura liquida”, “delle passioni tristi”… – che ci offre criteri antropologici e teleologici non immediatamente compatibili con la visione antropologica religiosa e cristiana. Anche coloro che domandano un cammino spirituale hanno un modo di intendere la persona – cioè se stessi – nella sua attualità e nel suo divenire ideale. La persona che accompagniamo nel cammino spirituale può trovarsi in un’immaturità di natura morale (c’è un certo egoismo in lei) o un’immaturità di natura psicologica (possiede una fragile struttura, povere potenzialità) oppure in un’immaturità di natura formativa: ha fatto sua un’antropologia che la cultura in modo subdolo e silenzioso le ha trasmesso e che non si concilia con le esigenze della vocazione che ha scelto. Non è il caso qui di addentrarci in questo delicato tema. Solo a mo’ di esempio: se un giovane ha assorbito la cultura secondo la quale la personale realizzazione è vincolata all’appagamento della propria emotività o all’affermazione della propria autenticità (intesa come naturale inclinazione) e il conseguente progetto di vita risiede unicamente nella propria soggettività, capiamo bene che vivere la vocazione personale assomiglierà più ad un darsi la vocazione piuttosto che rispondere ad una chiamata. Se poi ha anche appreso che ciò che dà valore alla sua vita è la possibilità di opportunità il più possibile diversificate, la molteplicità di contatti e la libertà di interromperli quando non sperimentati più soggettivamente soddisfacenti, come potrà avvenire il radicarsi in una scelta definitiva, per tutta la vita? Il primo passo di un cammino di maturazione affettiva è dunque necessariamente di natura antropologica: uno dei compiti della guida spirituale è quello di verificare quale antropologia di riferimento la persona accompagnata crede (cognitivamente) ed abbraccia (vi si appoggia affettivamente). Vale a dire conoscere ed esplorare la definizione che la persona accompagnata dà di sé, quale sia l’orizzonte che ispira i criteri con i quali affronta la realtà e afferma la propria identità, quali parametri utilizza per dire che la sua vita è buona, ma anche vera e bella5. In sintesi: cosa è il bene per lui?

  1. Dal punto di vista dell’immaturità

Abbiamo fatto un passo indietro per porre la base di partenza di un cammino di maturazione affettiva. Proviamo ora a modificare il punto di partenza: l’immaturità. Chi è la persona immatura? Coerentemente con quanto abbiamo già detto la persona immatura è una persona che fatica ad amare liberamente, verosimilmente poco consapevole di sé. Se escludiamo i casi di una seria fragilità psicologica, l’esperienza di ascolto ed accompagnamento ci mostra che una persona immatura affettivamente è di solito una persona ferita. Ogni persona dedica la sua vita cercando di instaurare relazioni significative, nel corso delle quali, inevitabilmente, avvengono azioni che feriscono, deludono. Le relazioni interpersonali sono luogo di possibile realizzazione del desiderio, ma dono e minaccia al tempo stesso: «L’altro, che è mistero di fronte ad un sé, all’io che è egli stesso mistero, si presenta (…) costantemente come una domanda, una questione, un mondo da scoprire e da conoscere, così che anche l’altro può diventare una risposta; l’altro è anche un ostacolo, che come soggetto di desiderio infinito si oppone all’altrui, limitando e resistendo, ma può essere anche una possibilità di realizzazione nel riconoscimento e nella comunicazione; inoltre l’altro è minaccia, sfida, pericolo, sorgente di ansia, ma anche promessa di perfezionamento, di promozione del valore che si realizza nel dono di sé»6. Le relazioni interpersonali sono davvero fonte di soddisfazione dei bisogni più profondi della persona umana, ma sono anche la fonte di alcune profonde ferite che si radicano nella memoria affettiva. Quando le ferite prendono forma concreta, le emozioni negative come la rabbia ed il risentimento sono piuttosto comuni, creano una parziale rottura della relazione stessa. L’immaturità affettiva è spesso segnale di un disagio, di una ferita avvenuta nella storia evolutiva alla quale la persona non ha saputo, non è riuscita a far fronte. O meglio, lo ha fatto e lo fa come può, risultando immatura in qualche area. Qualche semplice esempio: è fondamentalmente una brava persona, ma crea legami di dipendenza o, viceversa, è eccessivamente autonoma; è una persona capace ed intelligente, ma se non si sente prediletta o accudita in modo speciale vive sentimenti di abbandono e mette in atto ricatti affettivi; è una persona stimata e ben voluta, ma avverte critiche laddove non sussistono e non si fida; è una persona cordiale e generosa, ma si arrabbia facilmente e dà la colpa agli altri anziché riconoscere i propri errori… e così via. Sentirsi feriti è un’esperienza che coinvolge tutta la persona e comporta un disorientamento a livello di pensieri, sentimenti e comportamenti7.

-C’è un disorientamento cognitivo: generalmente una ferita sorprende e trova impreparati. Spesso si rimane increduli e smarriti, con un sentimento di impotenza; talvolta questa esperienza è accompagnata da un’autovalutazione di sé negativa per non aver saputo o potuto evitarla e/o reagire. Al tempo stesso sorgono giudizi negativi e pregiudizi nei confronti del “feritore”.

-Il disorientamento affettivo è segnato dall’emergere di sofferenza, amarezza, rabbia. Vissuti accentuati se il “feritore” non sembra considerare o non rendersi conto del male fatto. Comporta paura che la ferita possa essere inflitta di nuovo.

-Può nascere un disorientamento comportamentale caratterizzato da un forte bisogno di fuggire, che emerge in varie forme: illudersi che evitando si starà più tranquilli (fuga più consapevole); avere voglia di nascondersi e fare finta che nulla sia accaduto (fuga più globale che attiva difese più profonde) o addirittura di fare qualcosa per vendicarsi (fuga che percorre la via illusoria che avere il controllo sulla situazione e ferire a propria volta consenta di recuperare la stima di sé); o paradossalmente sottomettersi (fuga che non affronta: la persona si sente così intimidita da colui che l’ha ferita da non osare reagire, neppure allontanarsi).

  1. Maturità affettiva e (è) capacità di perdono

L’esperienza ci mostra che anche una persona matura ha le proprie ferite. Allora qual è la differenza? Cosa succede? La maturità affettiva «è inserita dinamicamente in un progetto di vita in cui tutte le esperienze, le gioie come le ferite, possono venir integrate e far parte della propria storia personale, nei luoghi in cui questa storia si costruisce»8. Vale a dire: c’è una risposta diversa da quella della fuga immatura, aggressiva o evitante che sia. È la via del perdono che ri-orienta la persona a tutti i livelli (pensiero, affetto e comportamento) e produce in ognuno di essi un cambiamento9. Il perdono è la forma alta dell’amore, la forma alta dell’auto-trascendenza. Già San Tommaso sosteneva che in ogni uomo è inscritta una naturale inclinazione al perdono che restaura la comunione ed i legami perduti: l’uomo ha infatti per natura una propensione all’altro, alle buone amicizie e all’armonia con i suoi simili. Quando tale inclinazione naturale al bene si incontra con la complessità umana dà vita a questo cammino di maturazione affettiva per eccellenza: il perdono. Lo sottolineiamo: è un cammino, un viaggio, perché il perdono non è un atto puntuale ma un processo. «Il perdono è uno sforzo, una scelta che implica necessariamente un atto di volontà e contemporaneamente un atto creativo, un percorso a spirale attraverso il quale riattraversare i propri ricordi, le proprie matrici psicologiche e relazionali»10. Il perdono è quindi un percorso di maturazione affettiva che coinvolge il tempo nelle sue modalità dinamiche: a partire dall’oggi – presente –, lavora su qualcosa che è accaduto – passato – e si apre all’avvenire futuro11. Come definire il perdono? È, innanzitutto, il cammino di umanizzazione dell’uomo adulto e lo si può intendere come «un processo che comporta la sostituzione di pensieri, emozioni e comportamenti negativi verso l’offensore, con pensieri emozioni, comportamenti positivi, non perché la vittima nega a se stessa il diritto di formulare tali giudizi o di provare tali sentimenti, quanto perché si sforza di considerare l’offensore con benevolenza e amore»12. È dunque un cammino di maturazione che comprende la conversione e l’ascesi. «Il perdono è un principio di mobilità e fluidità, a differenza del rancore che è in principio di staticità e rigidità (caratteristiche che accompagnano spesso la sofferenza psichica), ed un processo di umanizzazione, poiché spinge a fare i conti con i propri limiti e la propria vulnerabilità, è un principio di libertà»13.

  1. Cinque passi verso l’altezza della maturità

Come percorrere il cammino del perdono? Da dove partire? Una proposta interessante ed efficace è quella offerta da E. Worthington14: suggerisce un modello nel quale si presuppone che il perdono coinvolga in sinergia il sistema cognitivo (modo di pensare), il sistema emotivo (modo di sentire) e il sistema comportamentale (modo di agire). Si tratta di cinque passi che ora vediamo uno ad uno, avendo cura di ampliarli integrandoli con la dimensione spirituale e la prassi pedagogica che la guida spirituale è chiamata ad attuare con delle attenzioni concrete.

6.1 Condividere la ferita e manifestare il dolore e la rabbia

All’inizio del viaggio è importante prima di tutto esprimere i personali vissuti emotivi legati all’evento che ha causato la ferita – il dolore, la rabbia, la delusione… – aprendosi sinceramente ad una persona riconosciuta come guida attenta nella propria vita. Da questo dipende molto il “successo” di un cammino maturo di perdono. Quando invece i vissuti dolorosi rimangono “dentro”, rischiano di essere messi a tacere o – all’opposto – di dargli troppo spazio. Nel primo caso i vissuti emotivi dolorosi vengono come nascosti, sepolti: non li vuole ascoltare ma, proprio come un bambino che quando non si sente ascoltato si agita e fa rumore perché questo avvenga, così le emozioni che rimangono in noi divengono invasive e manifestano la loro presenza con disordine e irritazione nei vari ambiti della vita. Quando invece concediamo troppo spazio privato alla rabbia, questa assume la forma della rimuginazione e del rancore: la persona si blocca, troppo coinvolta da un pensiero fisso che ripetitivamente occupa la mente, la memoria, le fantasie e i propri affetti. La persona si ripiega su di sé, non c’è spazio per altro: viene come impedita a dedicarsi ad altri interessi. In entrambi i casi tante energie personali vengono perdute e rese inefficaci per il bene, ma molto efficaci per impedire la maturazione affettiva.

È importante quindi darne espressione verbale con l’aiuto di una guida. Alcune indicazioni al proposito: -Ci vuole tempo, a volte molto tempo, anche in una relazione dove la fiducia reciproca è già “al sicuro”. Soprattutto se la ferita è profonda e antica, la persona sentirà la necessità di ridire le stesse cose più volte, non potrà fare a meno di ripetere lo stesso lamento. È necessaria una presenza discreta, che ascolti e rispetti i ritmi della persona, con i suoi silenzi, progressioni e ripetizioni. Il processo del perdono è un processo lento, un processo che avviene dall’interno e ogni accelerazione in qualche modo forzata dall’esterno rischia di bloccarlo. – Quando la persona si apre e confida i propri vissuti di rabbia, compie un gesto umile, vincendo sovente i correlati sentimenti di vergogna (cosa penserà di me? La deludo?) e paura (della sua stessa rabbia, o di non essere poi aiutata). È bene non giudicare l’emozione negativa: si tratta piuttosto di accoglierla con calma e validarla con delicatezza, non prendendo certamente le parti contro la persona che ha ferito, ma piuttosto portando insieme il peso della ferita e delle sue conseguenze. Davvero il servizio più prezioso che la guida può offrire a questo punto è quello di “stare con” e offrire accoglienza. È solo l’inizio di un cammino che, tra l’altro, implica l’aiutare ad accettare, a ricordare diversamente e a non trascurare che aver subito un torto non elimina la responsabilità, anzi. Vediamo brevemente questi tre punti.

1. Raccontare e ricordare un fatto doloroso consente e conduce ad una descrizione il più possibile obiettiva di quanto è avvenuto. C’è un elemento di “processo” comune dentro ogni singolo “contenuto” di quanto può essere avvenuto: è il perdere, dentro ogni ferita c’è l’esperienza di una perdita, di una disillusione. Soggettivamente è come un’esperienza di morte ed è per questo che nella dinamica che conduce al perdono troviamo qualcosa di molto simile a quando dobbiamo elaborare un lutto. Perdonare  implica l’accettazione di una perdita, senza questa non si può imparare ed avviare il cammino di maturazione del perdono.

  1. Non dobbiamo confondere l’atto di perdonare con quello di dimenticare 15. Se si dimentica non si può perdonare: il ricordo della sofferenza è il motivo principale per cui abbiamo bisogno di consolazione e perdono. Una persona infatti ha bisogno di perdonare proprio perché non ha dimenticato il male subito. Ci sono due tipi di sofferenze che si tendono a dimenticare: quelle troppo banali e quelle troppo dolorose. Le prime non si ricordano perché non ne vale la pena; le seconde perché si spera che non parlandone e lasciandole nel dimenticatoio consenta di non soffrire e sfuggire alla purificazione che domanda il processo del perdono. Ma prima o poi si ripresentano con maggiore violenza. Perdonare non vuol dire dimenticare, ma ricordare in modo differente con un mutato atteggiamento interiore. Il perdono infatti riguarda il come il fatto doloroso viene ricordato, con o senza sentimenti di odio e rancore (lo vedremo meglio nel prossimo passo).

Solo dopo che abbiamo perdonato possiamo godere della libertà di dimenticare non come evitamento della realtà e dell’ascesi del perdono, ma perché guariti.

  1. Abbiamo dunque il potere di perdonare quello che ricordiamo. Ricordare la ferita rende consapevole la persona che il male subito le ha attribuito al tempo stesso anche un potere del tutto speciale, che domanda una raffinata auto-trascendenza, come oro nel crogiuolo (cf Sap 3,6; Ger 9,6). Con il suo potere più o meno consapevole il feritore aveva offeso. Ma, avvenuta l’offesa, la persona ferita è paradossalmente la principale responsabile del futuro della relazione: sta a lei decidere – ed eventualmente lavorare – per il perdono oppure rimanere nel rancore. Questo potere è ora nelle sue sole mani. C’è dunque una latente e cauta apertura ai valori evangelici già in questo primo passo. Ma è delicatezza importante della guida non chiamare in causa subito le “regole spirituali”, concedere invece il tempo necessario (sempre diverso per ognuno) e accogliere senza sollecitare dall’esterno il passo successivo o la riflessione sul cosa abbia imparato da questa esperienza. Chiedere di scoprire il significato della ferita nella propria vita è un passo troppo precoce a questo punto. La persona sarà più lieta e più disposta a farlo se è lei a riconoscere che quella del perdono e della rilettura nella fede costituiscono la via da percorrere anche perché, prima ancora di essere istanza morale, è istanza di pace e forza personale (cf Is 30,15.21).

6.2 Favorire l’empatia

Nel passo precedente la persona rievoca l’evento che l’ha ferita e il suo dolore: è totalizzante e difficilmente c’è spazio per altro, legittimamente se è ferita. Da parte di chi racconta è una visione unilaterale e probabilmente irrigidita dal dolore provato.

Questo secondo passo invita a cogliere le sfumature dell’evento e ad entrare nella complessità dell’essere umano. Il perdono è un cammino che invita a confrontarsi con la complessità del reale. Si tratta di cominciare a capire chi ci ha fatto del male ben sapendo che questo non significa giustificarlo né discolparlo (giustifichiamo infatti una persona quando capiamo che non ha colpa). È un passaggio dalla rimuginazione dentro di sé al cercare di vedere le cose dal punto di vista dell’altro, ad immaginare il lato fragile del “nemico“ e percepirlo come essere umano vulnerabile verso il quale, in una logica di autotrascendenza, è possibile provare empatia e compassione. «Rivedere il racconto dall’altra parte è indispensabile per conoscerlo e riprenderlo nelle proprie mani, per poi eventualmente lasciarlo andare, come passato»16. La propensione a perdonare è infatti favorita quando si conoscono la prospettiva dell’offensore e le sue emozioni, soprattutto se questi ha agito perché si è sentito in qualche modo minacciato o attaccato (una persona è più disposta ad accogliere un’aggressività nei suoi confronti se capisce che chi l’ha agita “doveva“ difendersi – verso l’esterno o verso un suo stesso limite interno ) o perché le situazioni contingenti che sta vivendo lo rendono particolarmente teso (sta lavorando molto, è particolarmente stanco per qualche motivo). Il lavoro dell’empatia è quello di un decentramento: si tratta di focalizzarsi sull’esperienza dell’altro tentando di comprenderne i “perché“ nell’oggi o nei suoi precedenti familiari che possono aver giocato un ruolo decisivo. È un decentramento empatico che in fondo accetta anche di non capire, di non potersene “fare una ragione“, ma considera che – essendo persona umana – c’è qualche motivo che sfugge alla consapevolezza, forse di entrambi.

L’empatia può essere sperimentata a tre livelli.

  1. Il livello più superficiale è rappresentato dal comprendere il punto di vista dell’altro. È una sorta di empatia cognitiva dove la riflessione permette di cogliere e comprendere cognitivamente il volto più vero dell’altro, intuendo il lato fragile dell’offensore al di là della forza ostentata.
  2. Al secondo livello c’è una sintonizzazione emotiva con la persona, si sente e si pensa con l’altro (una volta compreso razionalmente il punto di vista dell’altro mi domando cosa può provare, “come sta” l’altro nella sua vita – non rimanendo nel solo orizzonte dell’offesa).
  3. Il livello più profondo è l’empatia di compassione: «È il passo più difficile, che caratterizza il processo proprio del perdono, inteso come trasformazione affettiva, in cui il ricordo dell’avvenimento non è più associato a sentimenti di rancore e risentimento, ma di benevolenza»17. Se riusciamo a suscitare in noi una scintilla di questo sentimento positivo verso l’altro potrà accendersi tenacemente il fuoco del perdono. È qui un livello alto di maturità affettiva. È un passo decisivo nell’amore, è volere il bene, che è sempre un uscire da sé. È una conversione. La guida, accompagnando questo passo a favore dell’empatia, deve essere lei stessa molto empatica sia con chi sta compiendo l’ascesi del perdono, sia con l’offensore. Può aiutare tenere presente che:

-dietro a emozioni di aggressività o comportamenti deludenti spesso si celano sentimenti di impotenza e di fragilità. Quando qualcuno aggredisce comunica non tanto la sua potenza intimidatoria, ma piuttosto il suo bisogno di proteggersi e la sua debolezza che, verosimilmente, teme ed è motivo di ansia. Inoltre il rancore tende a dipingere l’altro come una persona solo cattiva, con una deliberata volontà di compiere il male. Scorgere il lato fragile al di sotto della forza e dell’arroganza aiuta a comprenderlo in modo del tutto particolare: è lui che ha bisogno di vicinanza e di comprensione, che io posso offrirgli. È una vera conversione al mondo dell’altro, senza negare o sminuire la gravità morale dell’atto compiuto.

-Qualità regina dell’empatia è la gratuità. L’empatia di compassione conduce ad accogliere nuovamente nel cuore la persona che è stata responsabile della sofferenza. Ma questo non implica necessariamente il cambiamento dell’altro. Perdonare vuol dire anche rischiare e mettere in gioco la propria fiducia ed i propri sentimenti senza avere la garanzia che saranno rispettati o contraccambiati in futuro18.

6.3 Sperimentare il perdono come dono, ricevuto e restituito

Possiamo condonare un debito se a nostra volta ci sentiamo debitori. Chi di noi è senza peccato? (Gv 8,7). È fondamentale, nel cammino verso la maturità affettiva, sapere di essere degni di perdono: la convinzione che anche noi siamo stati oggetto di perdono ci aiuterà a restituire il dono del perdono. Il perdono infatti è compito umano e dono di grazia insieme. Si tratta di sostenere la consapevolezza che anche noi abbiamo avuto bisogno di essere perdonati favorendo il ricordo di episodi concreti in cui questo è avvenuto. Può aiutare applicare a se stessi quanto abbiamo detto a proposito della complessità: alla base dei miei errori e dolori che provoco agli altri c’è una cattiveria allo stato puro, o piuttosto debolezza, superficialità, scarsa conoscenza di sé? Esplorare ed esprimere questi sentimenti favorisce ancora l’empatia.

La guida qui si fa mediatrice di grazia e benevolenza per: -rinforzare l’umiltà: accettare la personale fallibilità appartiene alla maturità affettiva, apre all’umiltà e favorisce il sentimento maturo della tenerezza. Ricordare di aver agito in maniera anche solo in minima parte simile alla persona da perdonare riduce il senso di superiorità morale che può insorgere trovandosi nella situazione di “vittima“. L’umiltà ci consente di dire: «Anche io sono in grado di ferire» e, di solito, con meno facilità condanniamo qualcuno che ci somiglia. -Stimolare pentimento e la personale coscienza di peccato. -Sollecitare la gratitudine per il perdono a propria volta precedentemente ricevuto. L’umiltà e la gratitudine sono intimamente connesse. La persona umile è consapevole di aver bisogno, di non bastare a se stessa. Per questo è orientata agli altri, grata della loro presenza e dei loro doni, grata del perdono ricevuto. Vivere la gratitudine significa esplicitare ciò che si vive interiormente di fronte ad un beneficio ricevuto. Esprimere la gratitudine fa sì che ci si appropri con pienezza del bene ricevuto e una simile esperienza costituisce una potente spinta di amore altruistico che più facilmente apre la via del perdono. -Spronare alla speranza che agendo per il bene è la stessa persona che agisce a vivere nella pace, a trovare il bene per sé perché attua ciò che desidera: dare la vita e darla con gioia (2Cor 9,7), nella consapevolezza che c’è più gioia nel dare che nel ricevere (Mt 10,8). Perdonare è un dono altruistico che è possibile offrire a chi ne ha bisogno, per l’edificazione del Regno di Dio; è anche un dono per se stessi perché è vivendo nella misericordia che l’uomo costruisce se stesso.

6.4 Impegnarsi a perdonare

Si deve assumere l’impegno di accordare il perdono, dicendolo ad un altro da sé, alla guida ad esempio. Impegnarsi pubblicamente conferisce all’impegno stesso stabilità e forza in quanto rafforza la motivazione, lo sottrae all’ambito della sola esperienza privata e lo trasforma in un impegno concreto. «Esplicitare un progetto e farne partecipi altri rende molto più probabile la sua realizzazione»19, in quanto affermare apertamente la decisione di perdonare dice e conferma i cambiamenti emotivi già avvenuti. È bene poi che la decisione di perdonare sia “celebrata“ con un gesto concreto (mettere per iscritto il proprio cammino personale di conversione delle emozioni negative in empatia compassionevole, oppure immaginare di scrivere una lettera di perdono all’ offensore, senza poi spedirla…).

6.5 Mantenere saldo il proposito

Il perdono sincero può conoscere momenti di dubbio. Questo è normale ed è di solito sollecitato dal fatto che la persona sperimenta di nuovo qualche emozione negativa come rabbia o paura, in occasione della ricorrenza dell’offesa o di un fatto analogo per esempio. La guida qui è chiamata a rassicurare che queste emozioni immediate non significano che il perdono non sia stato autentico, ma che è una normale reazione adattiva (provare rabbia di fronte ad una ingiustizia è segno di buon adattamento alla realtà).

«Quante volte dovrò perdonargli?» chiede Pietro a Gesù. «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette» (Mt 18,21-22). La risposta di Gesù prende spunto da un canto contenuto in Gen 4,23-24 attribuito a Lamech, uno dei discendenti di Caino («sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette»), ma ne rovescia la logica: ad una vendetta senza limiti Gesù contrappone il perdono illimitato, cioè ripetuto nel tempo verso la medesima ferita ricevuta.

Per concludere

Il perdono è il cuore della vita cristiana, è l’essenza stessa di Dio (Santa Caterina da Siena) e sommità della maturità affettiva alla quale il credente aspira. Ma perdonare rimane sempre un cammino tanto arduo che può sembrare anche impraticabile, soprattutto quando la ferita è profonda. In questi casi perdonare può rimanere soltanto un desiderio, una tensione di trascendenza che ci invita a invocare il Maestro Gesù: «Signore, insegnaci a perdonare!».