N.06
Novembre/Dicembre 2012

In fabbrica con la tonaca

Siamo nel 1900.

In un paese alle porte di Brescia svolge il suo ministero di parroco don Arcangelo Tadini, un sacerdote dotato di qualità umane e spirituali non comuni.

A 54 anni don Tadini è un uomo che sa quello che vuole e, nonostante la salute cagionevole e non poche difficoltà e contrarietà, ha la forza e il coraggio di portare avanti con tenacia le sue brillanti idee fino a farle diventare realtà.

È così che lo vediamo indaffarato dal mattino alla sera per far crescere umanamente e spiritualmente i suoi parrocchiani: catechesi, sacramenti, liturgie, cori, gruppi di spiritualità e omelie sono il suo pane quotidiano. E fin qui nulla di strano. Questo deve fare il prete ed è questo che la gente vuole da lui. E invece no. Don Tadini non è d’accordo. La sua gente non può – e non deve – condurre una vita schizofrenica: da una parte la vita di fede e dall’altra il lavoro, la famiglia e il divertimento.

Siamo in un tempo che manifesta bisogni, difficoltà e povertà forse oggettivamente diversi da quelli di oggi, ma da che mondo è mondo la vita dell’uomo ruota attorno a due poli che sono sempre gli stessi: vita affettiva e lavoro ed è su questi punti che don Tadini imposta il suo ministero di parroco.

In paese due filande creano occupazione per un centinaio di operaie, ma i più sono costretti ad andare lontano in cerca di lavoro.

Il dramma della disoccupazione, allora come oggi, grida la sua disperazione e tocca con più forza i ceti più deboli: le donne e i giovani. Mentre gli uomini lavorano nelle vicine cave di marmo, le donne cercano lavoro in un paese che dista 15 km, una grande distanza per quei tempi. Quando hanno la “fortuna” di essere assunte, partono presto il lunedì mattina e, a piedi o su un carretto, per risparmiare la suola degli zoccoli, raggiungono la filanda, per tornare in paese solo il sabato sera, stanche, stordite, “diverse” da come sono partite.

L’ambiente della filanda è malsano: nelle bacinelle dove si mettono i bozzoli dei bachi da seta l’acqua raggiunge gli 80°C e il vapore riempie l’ambiente sempre chiuso, rendendo l’aria umidissima e irrespirabile. Qui le ragazze, anche giovanissime, trascorrono dalle 12 alle 14 ore e il loro stipendio, a parità di tempo, è la metà di quello di un uomo. Dopo una giornata di lavoro si ritrovano in mano in

media una lira, sufficiente per comprare poco più di 2 kg di pane.

Come può un parroco, che ha a cuore le ansie, i desideri, le gioie e le sofferenze della gente, limitare la sua pastorale alla catechesi e alla liturgia?

La bella chiesa parrocchiale sarebbe certamente vuota se don Tadini non si desse da fare per far capire a tutti che il Vangelo ha a che fare con la vita, consapevole com’è che, detto ai nostri giorni e con

termini più appropriati, la pastorale sociale è dimensione ordinaria della pastorale parrocchiale.

“L’arciprete” vede ritornare le sue giovani, alla fine di un’estenuante settimana lavorativa, distrutte, come limoni spremuti. Egli vive con apprensione la loro lontananza dal paese, ben sapendo quali rischi di violenza le ragazze corrano sia in fabbrica sia lungo la strada. Che cosa fare? Si chiede. Alle mamme che incontra dice: «Mi è di gran dolore veder partire le mie figlie. Mamme, se appena potete, tenetele a casa, portate pazienza e vi prometto che penserò a qualche cosa» e istintivamente aggiunge: «Penso già alla costruzione di una filanda, più grande di quelle esistenti, aperta tutto l’anno».

Detto fatto. Progetta e costruisce, da solo, perché nessun esperto del settore è disposto a seguirlo nell’iniziativa, una modernissima filanda e trasforma una villa in pensionato per le operaie. Dà fondo a tutto il suo patrimonio, ottiene qualche prestito e un mutuo dalla banca. Ingaggia capomastri e muratori e, senza l’aiuto di architetti o ingegneri, dà inizio ai lavori. La nuova filanda, dotata di strutture e impianti all’avanguardia, entra in funzione tra derisioni e guai finanziari. In questo modo il parroco assicura un dignitoso posto di lavoro alle giovani del paese e ad altre che arrivano dai luoghi vicini. Alle operaie che vengono da lontano don Tadini offre la possibilità di alloggiare per tutta la settimana lavorativa in un convitto da lui acquistato, in condizioni di vita serene e agiate.

È vero che le ragazze, proprio perché giovani e perché donne, sono tra i lavoratori quelle che maggiormente vivono nell’incertezza e nello sfruttamento, ma siamo agli inizi dell’industrializzazione e ovunque gli operai subiscono fatiche e ingiustizie. Il parroco ne è a conoscenza e non può rimanere con le mani in mano. Mentre dal pulpito tuona contro i mali della società industriale, inizia il suo impegno di “prete sociale” con l’istituzione di una società di mutuo soccorso. Con questa associazione i lavoratori costruiscono una cassa comune, dalla quale prelevare i sussidi in caso di malattia, infortuni sul lavoro, invalidità o vecchiaia. La sua giornata è piena.

Uomo austero, dorme in media cinque ore per notte e si nutre solo di verdura cruda, decotto di avena e frutta, a pranzo e a cena, con l’aggiunta di una minestra senza sale di sera. Sceglie il regime vegetariano non certo per una dieta dimagrante, ma per la salute e per uno stile penitenziale di vita.

Con una salute così cagionevole ed un’alimentazione così povera dove trova tutta la forza per portare avanti il suo impegno? «La stola è la mia forza» ama ripetere a chi gli domanda ragione di una vita spesa tutta per Dio e per gli altri. L’essere sacerdote, l’appartenere totalmente a Cristo è per lui sorgente inesauribile di forza fisica e morale. I suoi parrocchiani lo vedono stare per ore davanti all’Eucaristia, immobile, in piedi – un incidente da ragazzo lo aveva reso claudicante – assorto completamente nella contemplazione di Dio. Don Tadini è un uomo tutto di Dio e, come ogni uomo che si lascia abitare e sconvolgere dalla Trinità, è allo stesso tempo tutto degli uomini. La sua testa è un vulcano di idee. Fa nascere in parrocchia la banda musicale, il coro, rimette a nuovo la chiesa e arriva persino a progettare una metropolitana leggera che colleghi il paese con la vicina città di Brescia. E siamo a fine ‘800.

Ma non è ancora soddisfatto. Ha la geniale idea di far entrare nella filanda alcune suore che lavorino gomito a gomito con le operaie, che si occupino delle ragazze non dal piedistallo di una cattedra, ma rimanendo con loro sullo stesso banco di lavoro. Si rivolge a più Istituti religiosi, ma ovunque riceve chiari rifiuti. Già era ritenuto poco dignitoso per una donna lavorare in fabbrica, figuriamoci per le donne consacrate. Come sempre, don Tadini non indietreggia davanti alle difficoltà. Abile interprete dei segni dei tempi, tra cui l’enciclica sociale Rerum Novarum di papa Leone XIII del 1891, nel 1900 fonda lui stesso una nuova famiglia religiosa: le Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth, donne che consacrano la loro vita a Dio per l’evangelizzazione del mondo del lavoro, per testimoniare con la vita che il lavoro non è una maledizione, ma è luogo di realizzazione e santificazione. Le Suore Operaie gli costeranno difficoltà e sofferenze, a causa di seri problemi economici, maldicenze e incomprensioni anche da parte della gerarchia ecclesiastica, prudente nel dare l’approvazione alla nuova famiglia religiosa, che, malgrado tutto, cresce, pugno di lievito nella pasta.

Le Suore Operaie, ancora oggi, si occupano della pastorale sociale e parrocchiale, con una particolare attenzione ai giovani lavoratori e disoccupati, e condividono il lavoro. C’è chi lavora come telefonista, chi alle Acli al servizio dei lavoratori, chi in azienda come operaia, chi in un pensionato per lavoratori, chi nei CFP per preparare i ragazzi al lavoro, chi in cooperative, chi negli Uffici di Pastorale sociale… I lavori sono diversi, ma la presenza della Suora Operaia a fianco di chi lavora vuole essere segno credibile del Vangelo, annunciato più con la vita che con le parole.

Come Gesù ha lavorato per 30 anni a Nazareth, così la Suora Operaia è presente là dove la fronte dell’uomo si imperla di sudore e le mani si riempiono di calli. Le ore di lavoro sono per lei tempo di unione con Dio, tempo favorevole per riascoltare e vivere le parole di don Tadini: «Mentre lavorate con le mani, il vostro cuore e la vostra mente si elevino a Dio, così il vostro lavoro sarà una continua preghiera».

Condividendo la frustrazione della disoccupazione e la precarietà del lavoro, la Suora Operaia vive le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini, facendosi loro compagna di viaggio. Sul posto di lavoro partecipa a tutta la vita dell’azienda, comprese le discussioni, le assemblee e le piccole o grandi tensioni, per difendere sempre e ovunque la dignità del lavoro e dell’uomo che lavora. Condividere per la Suora Operaia si declina anche nel vivere una vita semplice, senza privilegi, in mezzo alle famiglie dei quartieri popolari, nell’abitare in un appartamento aperto a tutti: credenti e atei, cristiani e musulmani, giovani, adulti, anziani.

Don Tadini rimane una luce: la Chiesa, proclamandolo santo nel 2009, ha riconosciuto in questo parroco un esempio di santità per tutti, una figura che ha ancora molto da dire all’uomo d’oggi.

Pastore di profonda preghiera, don Tadini ha saputo andare oltre il bisogno umano; non si è limitato a dare lavoro, ma ha dato un cuore al lavoro, indicando il modello a cui guardare: Gesù, che per trent’anni a Nazareth è vissuto come un semplice lavoratore. Fede e vita in lui trovano una stupenda sintesi esistenziale, da vivere e da proporre, e rendono più che mai coerente ed efficace il suo impegno pastorale. Le Suore Operaie continuano questa storia con creatività con le persone che incontrano.