N.01
Gennaio/Febbraio 2013

Giovani e lavoro, tra vocazione e disillusione

L’allarme suscitato dall’andamento dell’occupazione e della disoccupazione giovanile in Italia in questi anni di crisi rende il tema del rapporto tra giovani e lavoro di particolare rilevanza sociale. Non per caso la (molto) discussa «riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita» divenuta legge lo scorso giugno (L. 92/2012) ha posto tra i suoi obiettivi la promozione dell’occupazione giovanile. La via indicata è quella di mettere ordine e ridurre la selva di forme contrattuali che hanno agevolato nell’ultimo quindicennio l’accesso al primo impiego, ma che hanno nel contempo introdotto elevati livelli di precarietà.

Se è vero che la lunga ondata recessiva in cui siamo ancora immersi ha esacerbato le difficoltà, la fase di ingresso nel mercato del lavoro è sempre stata un tasto dolente per il nostro Paese, costantemente tra gli ultimi in graduatoria nel raffronto internazionale. Più nello specifico è la transizione scuola-lavoro ad essere difficoltosa, segnata da ritardi e da traiettorie incerte e discontinue: una transizione che si dilata e va costruendosi attraverso opportunità di stage, contratti di inserimento, collaborazioni, impieghi a tempo determinato, ma che fatica a tramutarsi in una posizione stabile e protetta. Una transizione che, dilazionandosi nel tempo, invero, ricalca quanto più in generale accade nel passaggio alla vita adulta, laddove la presa in carico delle decisioni cruciali per la propria vita (uscire dal sistema formativo, entrare nel mondo del lavoro, andare a vivere per conto proprio, crearsi una nuova famiglia, avere dei figli) sconta una crescente «sindrome del ritardo»1 e riflette l’incertezza e la reversibilità che caratterizza la costruzione della biografia personale. In questione non c’è solo la tempistica con cui si affrontano tali momenti di passaggio, ma l’ordine in cui lo si fa e la stabilità delle posizioni acquisite, nel quadro di una crescente individualizzazione delle carriere di vita2.

Naturalmente non per tutti vale lo stesso discorso. Restando con lo sguardo sul lavoro, il diversificarsi delle opportunità di avvicinamento al primo impiego innesca processi di selezione e stratificazione dei giovani, favorisce quanti sarebbero comunque entrati con rapidità nel mercato (ma che ora vi accedono con un pacchetto ridotto di certezze) e penalizza quanti, difficilmente collocabili, tendono a rimanere intrappolati in una situazione di “precariatostabile”. Sono soprattutto i meno provvisti di capitale umano (e sociale) coloro che soffrono i tempi lunghi della transizione e si trovano più esposti al rischio di una cronicizzazione dell’instabilità occupazionale.

La messe di ricerche prodotte al riguardo ha puntato il dito in primo luogo su alcuni fattori strutturali: la flessibilità in entrata del mercato del lavoro, non sorretta da adeguate politiche di welfare; le strategie di reclutamento delle risorse umane attuate dalle imprese, poco premianti nel lungo periodo; lo scarso dinamismo dei sistemi produttivi, incapaci di creare nuova occupazione; le riforme previdenziali che, già prima della “riforma Fornero”, entrata in vigore a gennaio 2012, hanno gradualmente posticipato l’età della quiescenza; non ultimo il sistema degli ammortizzatori sociali, tipicamente orientati a proteggere la componente più stabile e matura dei lavoratori.

Per altro verso, tali ricerche hanno sollevato l’attenzione direttamente sui giovani, interrogandosi sulle loro scelte, sulla loro propensione al lavoro, sul senso ad esso attribuito dentro al proprio progetto di vita.

Del resto, se vogliamo ragionare di giovani e lavoro, non si può che procedere in questo modo, tenendo insieme dimensione strutturale e soggettiva, cercando di coglierne le connessioni per comprendere quale significato, quale valore può rivestire oggi il lavoro, in uno scenario per più versi problematico.

  1. Qualche dato di contesto

L’accentuarsi degli indicatori relativi al disagio occupazionale dei giovani provocato dalla crisi costringe a puntare l’attenzione sulle dinamiche che vi sono sottese, portando alla luce la complessità

della situazione.

Il dato più eclatante concerne la disoccupazione che, secondo i dati Istat, per i 15-24enni è passata dal 20,3% del 2007 al 29,1% in media nel 2011, al 35,9% del primo trimestre 2012.

La gravità del momento peraltro non riguarda solo la mancanza di lavoro, come a volte troppo riduttivamente i media tendono ad accreditare. Anzitutto è bene stimare la portata reale della disoccupazione giovanile, mettendola in relazione con il tasso di attività, che riguarda le persone – occupate e disoccupate – effettivamente attive sul mercato del lavoro. Il tasso di attività per giovani tra i 15 e i 24 anni è pari al 29,1%. È su questa fetta della popolazione giovanile che viene misurato il fenomeno della disoccupazione (35,9%). Quasi 1 giovane su 3 fa parte delle forze di lavoro e, tra questi, poco più di un terzo è alla ricerca di un’occupazione.

In altri termini, a livello nazionale su 100 giovani, 29 partecipano al mercato del lavoro; di questi più di 10 sono disoccupati e circa 19 lavorano. Inoltre, quando sentiamo dire che 3 giovani su 10 sono disoccupati, è bene ricordare che il dato non è citato correttamente: si tratta di 3 giovani su 10 tra quanti sono effettivamente alla ricerca attiva di una occupazione. Il che non cancella l’importanza del fenomeno, ma aiuta a leggerlo nella giusta prospettiva. Il paradosso italiano riguarda piuttosto il fatto che il tasso di disoccupazione giovanile è tre volte quello della forza lavoro complessiva (8,4% nel 2011), che, invece, è persino inferiore alla media europea.

A far risaltare la specificità italiana è però anche un altro indicatore. Secondo il Rapporto Annuale 2012. La situazione del Paese curato dall’Istat3, la popolazione giovanile italiana si caratterizza per una quota di Neet, Not in Education, Employment or Training, pari al 22,1% nel 2010, decisamente superiore alla media europea (15,3%). Tale incidenza è più alta soprattutto rispetto a quella di altri grandi paesi europei quali la Germania (10,7%), il Regno Unito (14,6%), la Francia (14,6%), mentre si avvicina a quello della Spagna (20,4%). Si tratta di giovani tra i 15 e i 29 anni che sono al fuori sia del mercato del lavoro sia del sistema formativo. Nel nostro Paese il fenomeno è connotato in termini di: genere (riguarda maggiormente le donne, che sono il 56,5% del totale); area territoriale (è diffuso soprattutto nelle regioni del Sud); livello di istruzione (coinvolge in prevalenza ragazzi con al più la licenza media). Con la recessione, tuttavia, il fenomeno ha avuto impulso anche nelle aree economicamente più sviluppate (come nelle regioni del Nord-Est, dove si è registrato un incremento del 20,8% tra il 2009 e il 2010), nonché tra gli uomini e i diplomati, infine tra gli stranieri, i quali raggiungono il 14,7% del totale.

Nel complesso i Neet sono circa 2,1 milioni (e il trend nel tempo registra un incremento) con un costo annuo per il paese stimato intorno ai 26 miliardi di euro. Esso costituisce un segnale preoccupante di scoraggiamento non solo nei confronti del lavoro (si rinuncia a cercarlo, immaginando di non trovarlo), ma anche nell’investimento nel proprio capitale umano. Basti citare un dato: secondo il XIV Rapporto AlmaLaurea (2012)4, i 19enni che si iscrivono all’università sono solo il 29%, meno di 1 su 3, e le iscrizioni sono diminuite del 15% negli ultimi otto anni.

Peraltro, la questione del disagio occupazionale dei giovani riguarda anche, come già accennato, la frammentazione, la precarizzazione, l’instabilità dei percorsi lavorativi, che possono pregiudicare la costruzione di carriere professionali dotate di senso e di prospettive di miglioramento e possono ingenerare sentimenti di sfiducia, disinvestimento e disillusione nei confronti del lavoro.

Le statistiche del Rapporto Employment Outlook 2012 curato dall’Ocse5 mostrano l’Italia al 31° posto su 34, dunque tra i paesi con il tasso di disoccupazione giovanile più alto, segnalando inoltre che 1 giovane su 2 tra i 15 e i 24 anni ha un contratto precario. Secondo l’Istat nel 2011 si è verificata un’ulteriore diminuzione dell’occupazione a tempo pieno e durata indeterminata (-0,6%) a fronte di un aumento degli occupati a tempo parziale e indeterminato (si fa riferimento ai lavoratori che hanno accettato un lavoro a orario ridotto non riuscendo a trovarne uno a tempo pieno). Vi è stato, inoltre, un incremento dei contratti a tempo determinato e di collaborazione (+5,3%). Nel 2010, infine, è aumentato prevalentemente il numero di contratti di breve durata: quelli fino a sei mesi sono cresciuti dell’8,8%, mentre è diminuito il numero dei contratti con durata superiore all’anno.

Si tratta di dati da considerare con molta attenzione, per certi aspetti, più ancora di quelli relativi alla disoccupazione. L’avvio della carriera lavorativa costituisce una fase della condizione giovanile determinante e, al tempo stesso, delicata per la costruzione dell’identità personale e sociale, una fase in cui si fa esperienza di una prima socializzazione lavorativa e si gettano le basi per l’acquisizione di una professionalità specifica6.

In questo scenario parlare oggi di lavoro significa soprattutto interrogarsi rispetto al senso che il lavoro può rivestire nella vita di un giovane di fronte alle difficoltà di progettarsi e di intravedere un traguardo ben definito di fronte a sé.

 

  1. Alla ricerca di senso

Tra disoccupazione, precarietà, difficoltà di costruire percorsi lineari, il lavoro riesce nonostante tutto a mantenere una sua importanza. È un’esperienza centrale per i giovani, uno degli elementi di valore più forte nell’universo giovanile. Le incertezze che gravano sulla prima fase della carriera lavorativa non sembrano deprimere le aspettative di poter costruire un futuro che garantisca maggiori soddisfazioni in termini di realizzazione professionale, riconoscimento economico e continuità7. Il lavoro, cioè, sembra, nonostante tutto rappresentare un’apertura di credito verso il futuro.

In questa direzione, spunti di riflessione interessanti emergono dalla recente ricerca Un talento nascosto: il lavoro secondo i giovani, promossa dal settore Giovani dell’Azione Cattolica Ambrosiana8.

L’indagine ha posto l’accento sulle esperienze e le percezioni nei confronti del lavoro analizzando un campione di giovani tra i 18 e i 30 anni, che vivono nelle sette zone pastorali della diocesi di Milano9. Per quanto non rappresentativa dell’universo giovanile, tale indagine consente di gettare una luce sulle aspettative lavorative dei giovani, non soffermandosi solo sulla rilevazione della condizione occupazionale e del percorso di studio e lavoro compiuto, bensì confrontandosi con il loro vissuto, la loro esperienza, la loro progettualità.

È emerso un quadro in linea con gli studi condotti a livello nazionale, che mostra come i giovani entrino nel mercato del lavoro gradualmente, spesso affiancando il lavoro allo studio, attraverso una pluralità di percorsi, influenzati da fattori diversi: le molteplici opportunità contrattuali, l’innalzamento dei livelli di istruzione, lo sviluppo di nuovi mestieri ampiamente legati alla spiccata terziarizzazione dell’economia metropolitana. Naturalmente c’è il lavoro “sognato”, carico di aspettative, significato e valore, e c’è il lavoro “reale”, spesso distante da quello immaginato. Ma è difficile tracciare un identikit unico. Esistono tante figure di giovani che vivono l’attesa, la ricerca e l’esperienza del lavoro in modi diversi.

Tra i giovani intervistati, il “posto fisso”, il cosiddetto lavoro con la “L” maiuscola esiste ancora; il 36,7% ha un contratto a tempo indeterminato e il 14,2% invece a tempo determinato. In prevalenza si tratta di maschi (52,7% vs il 21,8%), mentre le femmine prevalgono tra le attività atipiche e informali. Anche l’età conta. I maschi che lavorano con contratto a tempo indeterminato nella fascia sotto i 25 anni sono il 29,1% rispetto al 5,4% delle femmine: mentre dai 25 anni in su la percentuale di maschi con un lavoro standard è pari al 66,0% e cresce al 34,0% quella delle femmine. Queste ultime, tuttavia guadagnano meno: sopra i 25 anni nessuna delle ragazze intervistate dichiara di guadagnare più di 1.500 Euro a differenza dei ragazzi, dove tale quota è pari al 50%.

Complessivamente il 40% dei giovani che ha un contratto a tempo indeterminato ha avuto esperienze lavorative in passato. Con l’aumentare dell’età vi sono maggiori possibilità di inserimento in forme di lavoro standard, mentre emerge che fare esperienza, compreso lo svolgere piccoli lavori durante gli studi, “premia”. Soprattutto è premiante l’investimento in capitale umano. Questo risulta essere vero più per gli uomini e meno per le donne, le quali, a parità di titolo di studio, registrano tassi di occupazione più bassi.

Tra i 25 e i 29 anni il tasso di disoccupazione diminuisce significativamente (17,2%) rispetto al tasso di disoccupazione dei 15-24enni (35,9%): ciò è dovuto anche al fatto che in Italia i giovani entrano nel mercato del lavoro più tardi rispetto ai coetanei europei: l’età media del primo impiego è di 16,7 anni in Germania, 17 nel Regno Unito e ben 22 in Italia10.

I fattori più importanti nell’esperienza lavorativa – secondo i giovani intervistati – sono l’ambiente di lavoro, la possibilità di esprimere le proprie capacità, ma anche l’etica del lavoro e i rapporti tra colleghi. Non ci sono differenze di rilievo associate al crescere dell’età, se non un maggiore apprezzamento per la continuità dei contratti. I dati mostrano inoltre come i legami forti e deboli siano ancora una volta i protagonisti per i giovani nella ricerca del lavoro: il 23,2% degli intervistati ha trovato lavoro tramite genitori, parenti, amici, mentre il 19,5% si è proposto autonomamente al datore di lavoro, il 15,6% ha ricevuto un’offerta mentre l’11,3% si è collocato attraverso un concorso.

L’80% degli intervistati 18-30 anni vive ancora in famiglia, con una bassa partecipazione alle attività domestiche, ma allo stesso tempo con un alto grado di libertà nella gestione del tempo e dello spazio domestico. Un fenomeno questo rilevato anche a livello nazionale dalle indagini Istat, che confermano il posticiparsi dell’età in cui si lascia la casa dei genitori (in media il 41,9% dei giovani tra 25 e 34 non ha ancora compiuto il “salto”).

Il convegno in cui sono stati presentati i risultati della ricerca ha scelto come titolo “Li chiamavano bamboccioni: giovani e lavoro nell’era della flessibilità”. L’intento, evidentemente provocatorio, era quello di contribuire a costruire una rappresentazione dei giovani più complessa e meno stereotipata di quella oggi prevalente. E significativamente, tra i giovani intervistati, nella varietà delle posizioni espresse, emerge nitida l’aspettativa di un lavoro che consenta di realizzarsi, che risponda alle competenze acquisite, che assicuri un reddito adeguato; un lavoro però non “a tutti i costi”, ma che si inserisca, armonizzandosi in esso, nel proprio progetto di vita… anche quando questo prevede semplicemente l’auspicio di non doversi allontanare troppo da casa. Scenari di senso esistenziale convivono con orizzonti a breve raggio in un gioco di scambi che intrecciano condizioni di vita, presenza  o meno di vincoli di coppia e di famiglia, portando di volta in volta a mettere in discussione il valore del lavoro.

  1. Il lavoro come vocazione

Nello scenario che abbiamo descritto, in cui il senso del lavoro si fa plurale, diventa più difficile, ma necessario, recuperare la nozione di vocazione. «Si tratta di un concetto forte, ma in grado di restituire unità e, al tempo stesso, rischioso in un momento in cui la disoccupazione o la sotto occupazione sono esperienze diffuse»11. In tal senso la dottrina sociale della Chiesa ricorda che la dimensione della vocazione coniuga all’esperienza del lavoro l’idea del compito, della chiamata e insieme della testimonianza. Nella Laborem Exercens Giovanni Paolo II afferma che il lavoro è insieme una vocazione universale, poiché «l’uomo sin dall’inizio è chiamato al lavoro»; un dovere, un obbligo morale, poiché lavorare significa prendere parte all’edificazione del bene comune, e in questo senso è anche «opera di solidarietà», un diritto inalienabile. Per questo, ribadisce la Centesimus Annus al numero 42 «una società in cui questo diritto sia sistematicamente negato, in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione, non può conseguire né la sua legittimazione etica, né la pace sociale». Il lavoro è, quindi, «testimonianza di una chiamata, è la “professione” pubblica della funzione di crescita collettiva che ha come sfondo una visione di umanità e di futuro capace di sprigionare energie morali imprevedibili»12.

In questa prospettiva, si può dire che il lavoro possiede quattro declinazioni fondamentali: è una necessità per vivere, per sé e per la propria famiglia; è un ambito di espressione piena delle proprie competenze, capacità, potenzialità professionali e umane; è un luogo in cui si manifesta l’utilità sociale dell’impegno di ciascuno, in quanto momento primario di servizio alla società civile; è uno spazio di solidarietà dove l’attività lavorativa permette di poter crescere non solo singolarmente, ma di sperimentare la solidarietà tra gli uomini13.

Se il lavoro è ciò mediante cui «l’uomo diventa più uomo», continua la Laborem Exercens al n. 9, è un bene rispondente alla sua dignità, la sua mancanza, la disoccupazione impedisce alla persona di realizzarsi pienamente, di assumersi il compito di concorrere allo sviluppo della comunità, di esprimere la sua socialità. E ciò vale in particolare per i giovani, i quali vedono così «penosamente frustrate la loro sincera volontà di lavorare e la loro disponibilità ad assumersi la propria responsabilità per lo sviluppo economico e sociale della comunità» (n. 18). E non è solo la disoccupazione in senso stretto a diventare vulnerante per la dignità della persona, lo è anche il cattivo lavoro, precario, mal retribuito, insicuro, non protetto, non adeguato alle competenze e alle conoscenze acquisite, non sostenibile per sé e la propria famiglia, quel lavoro, in altri termini, che non rispetta i criteri di un travail décent, come lo definisce ormai da anni l’Organisation International du Travail14.

Il Concilio Vaticano II, di cui quest’anno si ricordano i 50 anni dalla sua apertura, nella Gaudium et Spes afferma che gli uomini e le donne nell’esercizio della loro attività lavorativa prestano un servizio alla società rendendosi utili alla collettività. E la domanda posta proprio nella costituzione pastorale – Qual è il significato ultimo della attività umana nell’universo? – continua a interrogarci, invitandoci a riconsiderare le nostre attività e la nostra quotidianità come vocazione, cercando una continuità tra la sfera valoriale e quella lavorativa che si concretizza nel rapporto fede-lavoro e fede-vita.

 

  1. Uno spazio per l’azione pastorale

Da qui nasce l’esigenza e la necessità di pensare e dar vita, all’interno delle comunità cristiane, a spazi di confronto sulla propria esperienza lavorativa e su come essa si coniughi con la quotidianità e l’esperienza di fede. Si apre, dunque, la possibilità di promuovere iniziative pastorali che abbiano a cuore la sensibilizzazione verso i temi del lavoro e delle sue trasformazioni. In questo modo, la Pastorale del lavoro diviene una dimensione trasversale dell’attività di cura e formazione dei giovani, in quanto il lavoro stesso è un ambito che si intreccia con diversi aspetti della vita quali l’educazione, la crescita personale, la famiglia, l’incontro con il prossimo.

La parrocchia si configura come luogo privilegiato nel quale esprimere questa sensibilità. La dimensione missionaria delle parrocchie, infatti, può essere uno stimolo per le comunità cristiane a non ripiegarsi su se stesse e allo stesso tempo a sollecitare il dialogo con le realtà sociali del territorio.

I percorsi educativi proposti ai giovani non possono prescindere dall’approfondire tematiche relative al mondo del lavoro: i cammini di catechesi spesso tralasciano tali riflessioni, non tenendo conto che

una parte di giovani entra nel lavoro precocemente o non intraprende gli studi universitari. Programmare itinerari educativi per giovani lavoratori significa dare attenzione a chi, sin dalla giovane età, si rapporta con il mondo del lavoro: ciò richiede un coinvolgimento della stessa comunità cristiana attraverso occasioni di confronto sul senso del lavoro come luogo di crescita e di espressione dei propri valori.

Si può immaginare, in altri termini, che le parrocchie, ma anche i movimenti e le associazioni, siano luoghi nei quali i giovani possono incontrarsi, confrontarsi, fare rete, ricevere informazioni, attivare iniziative specifiche di accompagnamento e orientamento in vista di una scelta consapevole dei percorsi formativi e professionali, dando vita così a punti di aggregazione che riescano ad intercettarne meglio i bisogni, le aspirazioni, le domande di senso15.

La promozione del lavoro in ambito parrocchiale si può esprimere anche attraverso il supporto alla nascita e allo sviluppo all’interno delle comunità di cooperative sociali come opportunità di lavoro e servizio verso la realtà locale in collaborazione con associazioni ed enti presenti sul territorio. Non dimentichiamo poi le tante iniziative promosse dalle diocesi italiane a favore dei lavoratori e delle loro famiglie in questo tempo di crisi.

Ritornare a parlare di lavoro nelle comunità cristiane attraverso l’aiuto di figure competenti può rappresentare un primo passo concreto per interpretare la vita cristiana nel quotidiano anche attraverso

catechesi e lectio per la formazione dei laici che affrontino le questioni legate al mondo del lavoro.

Queste ultime osservazioni chiamano in causa le comunità cristiane locali quali sentinelle attente nei confronti dei giovani e del loro rapporto con il lavoro, capaci di creare spazi di crescita e di accompagnamento, luoghi di formazione integrale dove i giovani possano conoscere meglio se stessi e sperimentare le proprie potenzialità. Una simile sensibilità si traduce in cammini di discernimento che aiutano i giovani ad approfondire il senso e il valore del lavoro ai fini della costruzione di una vita (e di una società) buona.