N.01
Gennaio/Febbraio 2013

Jean Francois Millet, L’angelus

L’Angelus di Jean-François Millet raffigura il raccoglimento in preghiera di due contadini – presumibilmente due coniugi – in sosta dal lavoro nei campi al suono della campana dell’Angelus, cui allude, in lontananza sullo sfondo, il campanile della chiesa di Saint- Paul di Chailly-en-Bière, presso Barbizon.

L’opera, commissionata dal collezionista americano Thomas Gold Appleton, non entrò mai in suo possesso, ma passò dal 1860 per le collezioni Papeleu, Alfred Stevens e Van Praët a Bruxelles, per poi venire acquisito da Paul Tesse, che lo scambierà con La Grande Bergère nel 1864, e appena l’anno dopo, da Émile Gavet. Entrato successivamente a far parte della collezione Secrétan, nel 1889 è acquistato dall’American Art Association che l’anno successivo lo rivende ad Alfred Chauchard. Questi lo cede, per lascito testamentario, allo Stato alla propria morte, nel 1909: assegnato dal Governo al Museo del Louvre, di qui sarà poi trasferito al Musée d’Orsay alla sua costituzione, nel 1986.

Millet attinge, nel realizzare quest’opera, alle personali reminiscenze del lavoro dei campi quale era praticato dai nonni, e lo ambienta nella campagna di Barbizon, nei pressi di Fontainebleau, dove si era recato dal 1849 con l’amico Charles Jacque.

L’essenziale semplicità, la dignità delle figure, la surreale atmosfera dell’insieme in una composizione in bilico tra naturalismo e realismo1, conferirono a questo dipinto un particolare fascino che catalizzò interesse e suscitò fenomeni di emulazione, riproduzione, reinterpretazione o ricorrente citazione figurativa, sino alla follia indotta dalla vertigine del sublime cui sono soggetti alcuni massimi capolavori, giacché l’opera subì nel 1932 una lacerazione, al Louvre, da parte di un visitatore psicopatico.

Salvador Dalí, cui il dipinto ispirò L’Angelus architettonico di Millet e Reminiscenza archeologica dell’Angelus di Millet, vi si dedicò con passione, fino a sollecitare insistentemente una radiografia, effettuata dal Louvre nel 1963, che rivelò, al di sotto della dipintura del paniere, una piccola cassa. In quell’anno Dalì pubblicò la monografia Il mito tragico dell’Angelus di Millet, nella quale sostenne un’interpretazione tragica da lui definita “paranoico-critica”, che finiva per attribuire all’opera una simbolizzazione di erotismo represso in un contesto tragico. In particolare, secondo l’artista spagnolo, i due contadini, piuttosto che in preghiera per l’Angelus, si sarebbero raccolti davanti alla bara di un bambino2. Una tale lettura deformava radicalmente la comune e spontanea interpretazione del dipinto quale raffigurazione di un momento di sereno raccoglimento in preghiera in una contorta esegesi dai tratti forzatamente psicopatologici. Per quanto riguarda poi la presunta bara, nella primitiva intenzione dell’artista avrebbe potuto rappresentare una semplice cassetta d’uso agricolo e gli interventi che determinarono le varianti potrebbero essere facilmente attribuibili al ripensamento per cui Millet, a seguito del mancato acquisto del committente, ne mutò il titolo da Preghiera per la coltivazione delle patate (Prière pour la culture de pommes de terre) a L’Angelus, fatto che ne protrasse l’esecuzione fino al 1859.

Il momento di raccoglimento in preghiera rappresentato corrisponde ad un’interruzione del lavoro agricolo e ferma l’esperienza dell’operosità della vita contadina in un istante di intensa fissità, quasi a ritagliare una dimensione sottratta all’ordinario scorrere del tempo che anima la giornata. Del resto, il dipinto segue altri lavori evocativi di tale esperienza, quali La récolte des pommes de terre e Des glaneuses, e sembra rappresentarne un momento di approfondimento ulteriore: nel lavoro, precedentemente esplorato nella sua dimensione operativa, si apre il varco un’esperienza particolare, che lo trascende e lo santifica ad un tempo, trasfigurando l’umile lavoro dei campi nella luce di una particolare dignità.

Le due persone raccolte in preghiera sostano in piedi presso i loro strumenti di lavoro. Il delicato realismo nel quale l’artista restituisce la scena fa quasi assaporare all’osservatore – che si trova coinvolto, quasi “catturato” in essa grazie all’angolo della posizione dei due al suolo – l’odore e la pastosa ruvidità della terra lavorata, dalla quale i contadini stanno traendo i frutti del loro lavoro.

Pochi, essenziali, gli attrezzi rappresentati: un forcone piantato nella terra, una cesta, una carriola recante due sacchi già pieni. Quanto basta per far cenno del lavoro interrotto, lì, sul posto, prontamente, senza esitazione, al suono della campana del vicino villaggio, senza che i due si siano minimamente preoccupati di spostarsi, di cercare un altro luogo, neppure di volgersi in una qualche direzione.

I due sostano, in preghiera, a capo reclinato. Nella loro postura è compendiato l’intero mondo dei complementari caratteri delle sfere maschile e femminile dell’umano, della loro configurazione, della loro peculiare connaturata sensibilità: l’uomo accenna appena al gesto, essenziale quanto nobile e solenne, di chinare il capo, il cappello tra le mani appena raccolte sotto il petto. Vi è una fiduciosa consegna, una severa attestazione della signoria di Dio sul creato, su di sé e sul proprio lavoro, in questa postura, asciuttamente maschile, come si addice ad un contadino di un tempo, una sobria dignità eloquente. La donna si china più profondamente e porta le mani, giunte, sino al petto: nel suo movimento verso l’interiorità essa è più coinvolta nella stessa postura: l’implicazione psicosomatica femminile è più forte e solidale, i moti dell’anima si traducono con naturalezza nel movimento del corpo e manifestano una pietà profonda e personale che, introspettivamente ripiegata su di sé, scava nell’intimo sin negli spazi che si fanno accoglienza di vita. Eppure, con tutto ciò, la sua postura è parimenti di un’asciutta e nobile sobrietà esemplare. Nessuna goffa teatralità, nessun gesto inutile, nulla eccede da questa gestualità sobria e genuina dove tutto è essenziale; nulla eccede, ma neppure recede, giacché tutto l’essenziale c’è e conferisce quella pacata solennità al momento che si traduce in santificazione dell’esistente, del lavoro quale dimensione fondamentale e nobile dell’uomo, che trova così il suo ritmo di vita, il suo tempo. Anche il lavoro è un’esperienza di Salvezza.

 

Un approccio vocazionale

L’Angelus di Millet evoca l’esperienza del lavoro umano in una sua dimensione elementare quale il lavorare la terra. Elementare perché con essa ci si trova ad una delle attività fondamentali, anzi, potremmo dire, l’attività prima e fondamentale con la quale l’uomo ha praticato in modo complesso con consapevole coordinazione di atti e mezzi il proprio autosostentamento. Non è un caso che tale attività sia stata assunta dall’antichità a metafora del complesso esperienziale che qualifica l’uomo nel suo vivere sociale denominato cultura e che ne reca ancora nel termine la traccia.

Il lavorare la terra, infatti, è l’esperienza di una relazione elementare ad una realtà – la terra – che precede l’intervento dell’uomo che si misura con essa e la dissoda, la cura, la tratta. Così la natura, la realtà esistente nella sua complessità, si porge all’opera e al pensiero dell’uomo che, nel tempo, la porta a cultura. Come il lavoro della terra, la cultura è un’interpretazione dell’esistente. Non prescinde, a capriccio, dalla realtà, ma si misura con essa, la rispetta per ciò che è, senza per questo lasciarla semplicemente com’è: plasmandola, e-laborandola, la porta a un ordine e ad una sintesi superiore che modula le materie prime in forme complesse.

Così è di ciò che comunemente chiamiamo vocazione. Se è veramente tale, cioè chiamata d’Altri a percorrere responsabilmente i sentieri che vengono a porgersi ai passi dell’uomo, anche la vocazione instaura un’interpretazione dell’esistente, della realtà che è innanzitutto l’uomo stesso, il soggetto della vocazione, nella sua irripetibile singolarità, con le sue particolari dotazioni e talenti, in rapporto alla realtà che costituisce la situazione spazio-temporale, il contesto socio-culturale ed epocale che è chiamato a vivere. Vocazionem non è, dunque, chiamata ad una dedizione astratta ad un’immaginaria missione fideisticamente lanciata nel vuoto di un’idealità sottratta alle condizioni storiche, ma è piena realizzazione di incarnazione quale implicazione piena e coraggiosa nella determinatezza della realtà quale effettivamente si porge al vissuto dell’uomo concreto.

Allora è cristificante, perché, appunto, pienamente rispondente all’Incarnazione che si continua nella storia nella sacra mentalità della Chiesa.

La risposta alla vocazione è allora un elaborare consapevole la terra che abitiamo e noi stessi che la abitiamo, il che non si dà senza sosta riflessiva sul nostro essere, sul nostro stare: sul vasto orizzonte della terra nel quale ci muoviamo come sul Cielo nel quale siamo immersi e da cui siamo avvolti, spesso senza avvedercene, giacché ce lo rappresentiamo come una volta lontana che ci sovrasta da altitudini inaccessibili, mentre è pure e al tempo stesso in mezzo a noi, costituendo la stessa aria che respiriamo. Una sosta che è preghiera e, nel momento in cui guarda al Cielo, guarda paradossalmente alla terra, perché sta al piano della realtà che ricorda all’uomo la pochezza della sua condizione e l’orizzonte elementare nel quale ac64 cogliere la grazia e da cui continuamente risollevarsi. Un guardare la terra che è – alla lettera – humilitas e come tale è condizione primaria all’ascolto, silenzioso e attento, della volontà di Dio su ciò che vorrà che sia, che divenga, che fruttifichi, quella terra. Una sosta in composto e sobrio silenzio, come nei due personaggi dell’Angelus di Millet, che prontamente rispondono al suono della campana, lì dove si trovano, senza neppure accennare a muoversi se non nella postura, ed evocano nella loro preghiera il farsi Storia della vocazione dell’Uomo alla cui sequela si è chiamati. Il farsi Incarnazione.

L’Angelus, appunto.

1857-1859, olio su tela, cm 55,5 x 66, Parigi, Museo d’Orsay