N.01
Gennaio/Febbraio 2013

Scelte di vita e senso di precarietà nel mondo

La vita e le esperienze esigono di essere interpretate. Mentre navighiamo sulla zattera del tempo e nel conflitto delle interpretazioni, per i giovani di oggi è più difficile interpretare e dare un senso alla loro vita, un senso definitivo, una causa finale. Manca in loro un itinerario culturale e spirituale che li raccolga intorno ad alcuni valori sintetici e definitivi dell’esistenza. Spesso i giovani fanno fatica a conoscersi veramente e vivono sovente la solitudine della decisione. Abituati ad accompagnarsi con i valori parziali della vita, avvertono un senso di dispersione delle intenzioni e delle energie, del corpo e del tempo, del presente e del futuro. Sono spesso molto buoni e recettivi, ma soffrono di una interpretazione così debole e così diversa del mondo e delle cose. In che cosa possono credere, in che cosa devono sperare?

La cosiddetta “modernità”, accanto ad un’indubbia valorizzazione della libertà, porta con sé delle provocazioni che esigono capacità di analisi e indicazioni di risposta. La storia della coscienza moderna e l’esito di un dibattito tra razionalismi e empirismi portano il bisogno di un abbozzo nuovo del quadro antropologico dove si dia vera coesione della persona e del suo posto nel mondo. In questo quadro emergono questi elementi essenziali che rendono la vita di un giovane di oggi inevitabilmente precaria. Il senso dell’esistere è oggi un problema. Probabilmente lo è sempre stato. Di fronte alle scelte da compiere e alle fatiche da portare, di fronte agli entusiasmi e agli scoraggiamenti, si avverte la necessità di essere ricondotti verso una affermazione originaria di sé, che metta in luce, anche se a volte in modo troppo drammatico, il porsi dell’uomo di fronte alle sue possibilità reali.

Riteniamo fecondo prendere come punto di partenza delle nostre considerazioni il rilievo che l’angoscia ha assunto nella coscienza contemporanea giovanile, perché siamo convinti che l’angoscia sia un’esperienza nascosta ma centrale nei giovani di oggi. E «l’angoscia ci istruirà soltanto se cerchiamo di comprenderla e se comprendendola prendiamo contatto con la sorgente della verità e della vita che nutre le nostre risposte all’angoscia. Provare per comprendere, comprendere per superare, questa mi sembra essere la massima che deve governare la nostra meditazione»1. Nel vissuto giovanile contemporaneo ci sono indubbiamente molte paure legate spesso alla fatica di trovare una collocazione stabile e definitiva per la vita: pensiamo ai problemi della fede, del lavoro, dell’amore; pensiamo a tutte le dinamiche della relazione, al fascino e alle tensioni della precarietà, all’incertezza sul futuro.

Spesso la forma immediata con cui si sperimenta l’angoscia è quella delle singole paure, anche se è doverosa una distinzione tra paura e angoscia. Infatti, la paura ha sempre un oggetto determinato ed esprime perciò una minaccia parziale, la quale si limita a qualche aspetto della vita. È sempre paura di qualcosa. L’angoscia invece ha sempre un oggetto indeterminato; compare come un disagio di fronte al tutto, come una minaccia che investe l’esperienza complessiva della vita: la non voglia, il non senso, la mancanza di significato di fronte a tutto. La possibilità che tutto di me vada a finire in niente mi minaccia; il nulla è in agguato. Le conseguenze sono nel fatto che mi sento più vulnerabile, il mio corpo si sente diviso, le mie emozioni sono contrastanti, le mie energie sono lacerate, i miei sforzi sono dispersi e logorati. Finisco per navigare in un mare di conflitti. Vorremmo partire da questo disagio, non sempre drammatico, considerando il vissuto dell’angoscia, spesso inconscio, come un momento di passaggio verso una maturità della vita. Ricerchiamo nel contemporaneo le sfumature di questo vissuto.

  1. Le aspirazioni negate

La precarietà della coscienza e delle scelte spesso è insieme causa ed effetto di una forma subdola e angosciata della vita. Si dà, cioè, una forma di angoscia che emerge dal timore di vedere che le possibilità che la vita sembra offrire, cadono poi una ad una.

È il sentire l’immediatezza della morte, non prevalentemente nel suo estremo accadimento fisico, ma come privazione delle cose che stanno più a cuore, delle esperienze desiderate ma non compiute, dei progetti non realizzabili. A volte questo cadere delle possibilità si presenta come negazione di qualche relazione umana significativa, come demotivazione nell’agire, come scarsità di capacità progettuale, sfiducia nel futuro. L’angoscia si presenta come una pienezza di vita che viene intuita come possibile, ma immediatamente negata. Non si fa questione su qualche aspetto particolare della vita, ma si fa questione sul tutto, sulla sua significanza e sulla sua produttività. Questo conduce a meditare sul senso della vita, sulla differenza delle età, sul tempo, il quale promette, ma anche consuma. Induce a pensare alle scelte fatte e a quelle che si potevano fare.

Il giovane contemporaneo deve passare talvolta attraverso questi vissuti in cerca di un superamento. È proprio questo passaggio che lo deve rendere più assestato e maturo, sostenuto da una ragione autenticamente umana che lo impegna completamente nella sua libertà, ma insieme lo affida nel suo sacrificio ad una più solida alterità. Così si esprime Ricoeur: «Scopro allora che il mio voler vivere sfugge all’angoscia della morte soltanto nel momento in cui le mie ragioni di vivere sono poste al di sopra della mia stessa vita al momento in cui i valori concreti che fanno il senso della mia felicità e del mio onore trascendono l’opposizione stessa della mia vita e della mia morte. È evidente che questo atto di trascendenza non si compie che nella condotta del sacrificio»2. È l’indicazione di un itinerario educativo, il quale è molto di più di qualche norma ascetica. Si tratta di raccogliere le energie più genuine per consegnarle ad un superiore affidamento.

  1. Le percezioni del corpo e l’astrattezza degli obiettivi

Nelle scelte giovanili sta tutta l’energia di una vita protesa. Un ragazzo vorrebbe raccogliere tutto di sé e, in prima istanza, il corpo è una parte fondamentale dell’intero. In esso si esercita l’alfabeto della sensazione. Questo alfabeto percorre tutta la gamma della percezione: dal sentire corporeo al senso ultimo. Il principio del piacere e del dolore innerva tutto il vissuto fino alla manifestazione dei significati motivazionali psichici e spirituali della persona. La sensazione è oggi diventata – forse troppo – uno dei criteri più rilevanti come percezione delle realtà, per questo va condotta ed educata nelle sue possibilità e nei suoi limiti. La percezione del valore passa anche attraverso di essa, ma non solo; esige di essere condotta oltre l’attimo e verso la durata, oltre l’effimero e l’eterno, oltre il bisogno e verso il desiderio dell’altro da sé. Un vero cammino educativo esige una approfondita maturazione nella gestione della propria corporeità.

Nella coscienza giovanile può sorgere una forma di precarietà che emerge soprattutto a livello della struttura psichica della persona, nei suoi stati d’animo e nelle sue tensioni. Ci si avvicina a questo senso precario della vita tutte le volte che ci si scopre incapaci di governare con proprietà le energie che si hanno a disposizione. È una sorta di confusione di fronte al desiderio di operare con energie psichiche semplici, robuste, chiare, capaci di individuare un obbiettivo e di raggiungerlo. Si vorrebbe appartenere a piene forze ad un progetto universale, con un proprio compito e un proprio ruolo. Invece il progetto non c’è, oppure è confuso, oppure lontano, incomprensibile, irraggiungibile. Sembra di condividere impotenti un processo di spegnimento della civiltà. Così ci si ripiega su se stessi, si diventa scontenti, aggressivi, manipolatori perché si ha paura di soccombere e nella propria insicurezza non si sa dove aggrapparsi. Da questi conflitti interiori nasce una certa debolezza che rafforza gli aspetti contingenti e contraddittori della vita. Nessuna finalità è capace veramente di smuovere. Nessuno chiama nessuno: ogni vocazione sembra impossibile alla radice. Certe forme di benessere e di consumo spesso conducono molti ad un diffuso sentimento di vacuità, ad un disimpegno nei confronti della civiltà; consegnano ciascuno alla assenza di uno scopo. Tutto questo non è ancora certamente la forma acuta e riflessa dell’angoscia, tuttavia ne rappresenta la traccia, che si imprime quando la vita psichica di un individuo o di una società si sente interamente minacciata.

  1. Verso un nuovo realismo

Il vissuto contemporaneo riformula l’esperienza della frammentarietà anche quando percepisce il tradimento operato dalle ideologie. Certamente lo schema ideologico è servito alle precedenti generazioni ad innalzare parametri di interpretazione, a stabilire connessione tra i fatti e ad individuare progetti; ora il crollo delle ideologie porta a far pensare alla triste o liberante necessità di pensare la storia senza una logica. Sembra che sia impossibile fornire un’interpretazione convincente e univoca degli eventi e dei processi storici. I tentativi operati dalle ideologie razionaliste prima e idealiste dopo, marxiste in un tempo e storiciste in un altro, rivelano tutte le loro debolezze, mostrano da più parti come i tentativi di razionalizzazione siano finiti spesso in tragedie. Qui la forma della precarietà si sviluppa a partire dalla non credibilità delle sintesi, dalla falsità dei processi di riconciliazione o di superamento, dalla sfiducia anche nelle dialettiche più marcate, dalla debolezza delle economie e delle finanze. Sembra proprio che rimanga niente, eppure si vive e si deve vivere. È lo scoprire che non basta la ragione per risolvere il dolore e che i tentativi di sospenderlo mediante la forza delle ideologie sono falliti. A questo punto dello sviluppo della parabola dell’Occidente il disagio giovanile compare come quella «insicurezza specifica che si accompagna alla storia perché non siamo sicuri che la ragione possa coincidere con l’esistenza e la logica con il tragico» (Ricoeur). Il venir meno delle ideologie più consolidate in questi ultimi secoli contribuisce in maniera notevole a creare nelle nuove generazioni quella sensazione di vuoto che rende più difficile un esercizio autentico della libertà.

  1. Le fatiche della libertà

La configurazione della decisione nei giovani oggi richiede uno sforzo molto sproporzionato rispetto all’investimento dei rischi che si corrono. Esercitare la libertà è molto impegnativo. Anche in una prospettiva vocazionale è necessario acquisire una teoria pratica della libertà, un itinerario che conduca all’atto di volontà maturo. Il contesto attuale ha ampiamente sondato la coscienza ed emergono con più consapevolezza i rapporti fra intelligenza e corpo, fra conscio e inconscio, fra individuale e collettivo, tra benessere e sofferenza. L’esercizio della libertà non può più essere pensato solamente come esercizio esclusivamente individuale, ma va ricompreso anche nella sua valenza culturale. L’esuberanza solitaria della coscienza moderna conduce troppe volte ad esiti di natura razionalistica e ad incolmabili solitudini interiori. La decisione è certamente un atto individuale, ma è anche un saltuarietà culturale, o se si vuole, in un linguaggio più teologico, è anche una esperienza di comunione ecclesiale. La mia libertà è situata sempre in una zona di pericolo, che sempre mi mette alla prova, che a volte mi esaspera, perché alla fine rischia di non essere mai sicura di sé. Libertà errante, libertà perduta, libertà ritrovata.

Continuamente, nell’oggi, i giovani passano attraverso percorsi seduttivi e impervi e domandano di ritornare a casa senza smarrirsi. Ma esiste una casa? Esiste un senso compiuto? Esiste un “vale la pena di”? Potrebbe anche non esserci e questo suscita l’incertezza fondamentale. L’esercizio della libertà umana è sempre collocato tra una partenza e una meta. Ritrovare questa partenza e questa meta è un punto irrinunciabile per ricomporre la coscienza contemporanea nella sua più vera autenticità. Solo così si può superare una volta per sempre e tutte le volte da capo il sospetto che grava sulla vanità stessa della propria libertà. Dire che la nostra libertà ha una partenza e una meta significa dire che non è una libertà assoluta, ma una libertà segnata dal limite. Ma proprio qui sta il segreto: affermare il limite della nostra libertà significa affermare che Qualcuno ci ha voluto e che Qualcuno ci aspetta. Se, al contrario, si vuole essere come Dei, non si rimane neppure uomini. Il punto di arrivo della nostra libertà umana, e quindi della verità delle nostre scelte, sarà proprio la certezza che comunque è possibile scegliere perché è anche possibile affidarsi.

Oggi molto spesso nella coscienza giovanile la realtà di Dio sembra essere diventata debole, anche se è forte il suo richiamo estetico. La debolezza della simbologia con cui Dio appariva nel mondo, i fragili richiami culturali al Dio cristiano, la poca rilevanza del patrimonio dogmatico e la infrastruttura ecclesiale che lo legittimava sembrano essere tutti fattori che rendono debole Dio nella storia. La sua forza di persuasione e quindi di vocazione sembrano confondersi in un panorama più ampio di richiami e di possibilità per la vita. Viene da dire che non c’è più un dio unico, condiviso, onnipotente, giudice del bene e del male, interlocutore temuto. Dio compare piuttosto come un dio compagno, un dio che non mette paura, un dio aperto ad un’etica sempre possibile, sempre scusabile. Sembra qualche volta di respirare un’atmosfera culturale apparentemente non contraria alle scelte radicali della fede, tuttavia con

lo straordinario potere di svuotare il cristianesimo dall’interno, la croce diventa di plastica, la religione è un oggetto pregiato di costume e di arte. Per i giovani tutto questo rende meno normativo il riferimento a Dio.

  1. Il dramma dell’umano e il bisogno della salvezza

Il presentarsi della fede, oggi, non tollera più forme di retorica: la sensibilità credente più genuina  richiede sobrietà di parole e verità di esperienza. Una descrizione ridondante dell’esperienza della fede ottiene sulla coscienza giovanile un effetto insopportabile: frasi stereotipate, slogan, titoli ad effetto, messaggi in ogni occasione, documenti non assimilati che alla fine circolano nelle nostre comunità cadono appassiti sulla coscienza giovanile e risultano, quando sono conosciuti, sostanzialmente estranei. Non so cosa si può fare. Non dobbiamo svuotare il rapporto tra parola ed esperienza, tra gusto e significato, tra sacrificio e valore.

Oggi vediamo l’uomo che soffre. Questa è la forza più grande dei cristiani: i cristiani familiari alla contemplazione del Crocifisso vedono la sofferenza e si sentono partecipi di questa ferita. La questione si è fatta seria: la coscienza più avanzata, anche tra i giovani, torna a percepire che il messaggio cristiano può essere veramente una salvezza, una grazia, un segreto per attraversare la vita; non è esclusivamente un’etica, un dovere da compiere, una tradizione da mantenere, un qualcosa che se uno non fa ha l’impressione di aver trasgredito la legge.

Si comincia a percepire, soprattutto da parte delle giovani generazioni, che il trasgredire dei comandamenti porta al disfacimento della vita. Inizia una stagione positiva per il messaggio cristiano: in

mezzo a questo dramma umano il Vangelo può essere realmente una strada di salvezza. Il comandamento può essere una preziosa eredità che aiuta ad attraversare la vita. Da qui ripartirà ogni pastorale vocazionale. Incontro spesso ragazzi e ragazze che amano il Vangelo, ma soffrono perché non riescono a metterlo in pratica. Lo vogliono, intuiscono che è vero, che le beatitudini sono vere, ma poi si rendono conto che metterle in pratica è difficile, non ce la fanno. Piangono e dicono: «Che cosa devo fare?». La fatica psichica, non sorretta dal contesto culturale circostante, è veramente notevole. Sono questi i sacrifici delle nuove generazioni. Probabilmente la generazione del dopoguerra ha fatto altri sacrifici di natura economica, più pratica. Oggi i sacrifici dei giovani sono psichici, di significato; la loro libertà è una libertà troppo individuale e per questo, spesso, è una libertà debole, isolata, esposta.

 

  1. Una nuova cultura della vocazione

In questa larga contingenza culturale ed antropologica le scelte giovanili sono le prime a risentirne. I giovani cercano nuovi sentieri. Infatti, se da un lato i giovani appartengono ad una cultura pluralista e ambivalente, politeista e neutra, dall’altro, cercano autenticità, affetto, rapporti personali. La generazione giovanile di oggi investe molto sulla sua infrastruttura affettiva più che su quella razionale. Gli affetti, le percezioni, i sentimenti fanno più presa sulla nuova generazione che non la giustezza del ragionamento. Inoltre, i giovani di oggi sono feriti dal benessere. Il loro mondo è legato prevalentemente alle percezioni del momento e sentono i contenuti dottrinali della fede piuttosto astratti e scontati. Si capisce come poi rivendichino il predominio della loro soggettività e il desiderio di una libertà spontanea. Inoltre molti giovani oggi non incontrano difficoltà nell’affrontare la questione di Dio, ma faticano a comprendere il ruolo della Chiesa.

Da queste considerazioni emergono alcune attenzioni che ci è chiesto di tenere vive nel rapporto con i giovani e la loro vocazione nella pastorale ordinaria.

La fatica nel progettare il loro futuro. Molti di loro non sanno fino all’ultimo che cosa fare finite le scuole medie superiori. Nutrono un progetto debole sulla loro vita, si capisce perciò la loro fatica a seguire una vocazione così impegnativa come può essere quella di speciale consacrazione, sia verso il ministero sacerdotale, come la vita religiosa. Questi fenomeni sono più ampi e non toccano soltanto il versante ecclesiale, ma quello più generale di ogni giovane che entra nella maturità della vita e delle responsabilità.

I giovani spesso sentono molto forte la questione della autorealizzazione personale. Non si tratta di ubbidire alla volontà di un altro. Più immediatamente – nel loro sentire – si tratta di rendere felici se stessi. Accanto spesso si trova l’affermazione, qualche volta un po’ retorica, di essere di aiuto agli altri. C’è una reale dinamica dentro di loro, che va raccolta e indirizzata. Non si può non ascoltarli; sono sinceri; esigono di essere guidati, accompagnati, sostenuti con infinita pazienza e una buona determinazione.

Le nuove generazioni in genere guardano al loro futuro sostanzialmente su due versanti: una sistemazione economica e un appagamento affettivo corporeo soddisfacente. Sono motivi di integrazione, di costruzione di una loro reale identità; sono processi di identificazione, che vanno integrati, vanno corretti, ma soprattutto vanno assunti. Diversamente l’azione educativa è improduttiva, nulla o addirittura dannosa. I giovani coltivano una certa prospettiva religiosa; non la escludono; faticano ad avere metodo, motivazioni durature, relazioni che la favoriscano. Non è facile per loro dare un volto al mistero e alla trascendenza: quando si deve dare concretezza storica al problema religioso e riconoscerlo in Gesù di Nazaret, il cammino si fa più arduo. I giovani avvertono un senso di identità incompiuta, che favorisce una certa permanenza in luoghi caldi e sicuri, quali la famiglia di origine. Il giovane italiano non si stacca dalla famiglia. All’interno di un contesto rassicurante permane un certo calcolo di comodità, accanto ad un evanescente desiderio di bene, il quale si accompagna spesso al relativismo etico.

A partire da queste considerazioni possiamo costruire una lettura della situazione giovanile piena di speranza, ma insieme anche carica di incertezza di fronte al futuro. Anche coloro che sono legati alla nostra tradizione talvolta si sentono soli. Sono combattuti interiormente: non si tratta tanto di scegliere pro o contro Gesù, piuttosto scelgono pro o contro la possibilità di stabilire relazioni significative e appaganti. Trovando strade per relazioni immediatamente più gratificanti, preferiscono questi percorsi che rispondono ai bisogni affettivi prima ancora che a quelli religiosi. Sul principio mantengono una relazione con Gesù in un modo molto privatistico, poi, poco a poco, la dinamica delle relazioni e il relativismo etico fanno abbandonare anche l’aspetto privato e frantumano la struttura della coscienza.

È decisivo ricondurre i giovani a ricomprendere la vita nella sua struttura unitaria in cui ci sono un punto di partenza e un punto di arrivo. Per mantenere questa struttura unitaria della persona è necessario percepire che le cose passano, che le età della vita sono diverse, che gli idealismi si trasformano in realismi, che tutte queste dinamiche si succedono inevitabilmente; bisogna in un certo senso percepire la realtà del morire e la verità della vita eterna. Questo è il segreto del cristianesimo. Se non c’è questa percezione del tempo si viene frammentati e macinati lungo il cammino. Per nutrire questa coscienza viva della storia bisogna reintrodurre in modo consistente la verità di Dio, come un Dio “in sé”, che ha consistenza propria, verità di se stesso, fondamento del mondo, garante della storia; e un Dio “per me”, come qualcuno che mi conosce, che si occupa di me, che mi accompagna, che mi perdona, che mi sostiene.