N.02
Marzo/Aprile 2013

La forza della speranza fondata sulla fede

Quando mi è stato chiesto di intervenire in questo Convegno ho detto subito di sì. Perché si trattava di portare la testimonianza del cardinale Van Thuan. E allora, prima ancora di sentire di cosa esattamente si trattasse, ho accettato con entusiasmo. Perché l’incontro con una persona come il cardinale Van Thuan è qualcosa che segna la vita e vorrei almeno in parte farvi partecipi di cosa ha significato per me questa presenza. Innanzitutto vorrei dare qualche breve nota biografica per quanti non ne hanno sentito parlare. Il cardinale Van Thuan, Presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace è morto poco più di dieci anni fa. È morto qui a Roma, dove si trovava, suo malgrado, dal 1991. Suo malgrado perché non è stata una sua libera scelta lasciare il suo Paese, ma gli è stato “vivamente consigliato” di allontanarsi dal Vietnam. La sua vita non è stata semplice. Dopo la nomina ad arcivescovo di Saigon, il 15 agosto del 1975 viene arrestato e trascorre tredici anni in carcere, nove in isolamento. L’ho incontrato per la prima volta nel 1998, era da poco stato nominato Presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace e gli avevo chiesto un’intervista. La prima volta che avevo chiamato mi aveva subito risposto di sì, ma senza fissare alcuna data. Alle mie numerose richieste la sua segreteria rispondeva di richiamare. Allora ho cominciato a seguirlo nelle conferenze e nei seminari e, puntualmente, gli chiedevo di intervistarlo. Fino a quando, un giorno, mentre si trovava al bar durante la pausa di un convegno, in compagnia di Arturo Paoli (altro gigante della fede), vedendo che mi avvicinavo disse a padre Arturo: «Quella lì è peggio dei miei carcerieri in Vietnam, devo darle l’intervista». E così, con la gentilezza e la serenità che non lo abbandonavano mai, cominciò a parlarmi. Degli anni della prigionia disse semplicemente: «Ho passato tredici anni in carcere per obbedienza e ne sono felice. Il Papa mi aveva mandato in una diocesi e io dovevo servire il popolo di Dio in quella diocesi. Non potevo abbandonare la gente da sola…». Questo è stato l’inizio. Mi hanno poi raccontato che conservava nel suo comodino una copia di quell’intervista. Quello che mi colpì fu la semplicità con cui raccontava il suo passato, senza atteggiarsi a eroe e senza neppure far pesare il suo martirio. Incontrandolo si aveva la sensazione che tutto fosse al suo posto, che c’è una mano che guida l’esistenza, che ogni cosa ha un significato. Credo che tutta la sua vita possa essere sintetizzata in tre parole. Le due del suo motto episcopale, innanzitutto: Gaudium et Spes. Scelta sicuramente influenzata dal Concilio, ma anche dall’educazione materna, fondamentale nell’aprirgli la strada alla comprensione della volontà di Dio, alla fiducia, alla speranza. La terza parola è il suo stesso nome Thuan, che significa “in armonia con la volontà di Dio”. La madre, quando Thuan nasce, ha appena perso l’altro figlio e quel nome dice anche di un atteggiamento che la madre coltiva innanzitutto in se stessa.

Noi conosciamo gli anni della prigionia, il suo lavoro al Pontificio consiglio, ma c’è tutta una vita che ci dice che la vocazione di Van Thuan è stata quella di rendere testimonianza alla speranza. Nel ripercorrere la sua vita, come ho fatto nel libretto edito dalla Cantagalli, emerge chiaramente il tratto distintivo della sua esistenza: lo scrutare sempre, in ogni situazione, la volontà di Dio in modo da armonizzarsi con essa. Anche quando sembra incomprensibile.

Ricordiamo che, novanta giorni dopo l’ordinazione sacerdotale, Van Thuan viene ricoverato per tubercolosi. Lo stadio della malattia è avanzato, ma la madre lo consola: «Andrà tutto bene», gli diceva, «anche se muori adesso hai raggiunto ciò che più ti stava a cuore: diventare sacerdote». E lui stesso si ripeteva: «Andrà bene comunque finisca». Accade invece che, proprio prima di portarlo in sala operatoria, gli rifanno le ultime analisi e della malattia non c’è traccia. Van Thuan guarisce perfettamente, i medici dicono che per loro è un miracolo.

Ma la volontà di Dio è misteriosa: Van Thuan non è morto, un miracolo lo ha salvato. Sarà destinato allora a grandi cose. Fra l’altro appartiene ad una delle famiglie più importanti e facoltose del Vietnam, si prospetta un grande futuro. E invece… Imprigionato e rinchiuso in una cella. Dio lo ha salvato perché fosse seppellito vivo. Una cosa che sfugge alla logica umana. Ma Van Thuan, proprio in quelle condizioni, rafforza la sua vocazione. Riacquista serenità, non perde la speranza. Una speranza che non è vocazione romantica, ma virtù radicata nella fede. In ogni situazione Van Thuan cerca di aderire alla volontà di Dio, di capire quali strade stia preparando per lui. E tanti piccoli “miracoli” accompagnano anche la sua prigionia. La conversione dei suoi carcerieri, per esempio. Erano costretti a cambiare spesso le guardie perché dopo un po’ Van Thuan le conquistava con il suo atteggiamento. «Non capivano perché li amassi», diceva. «Molte volte mi chiedevano come facessi ad essere così benevolo nei loro confronti e io rispondevo: “Vi amo perché Gesù vi ama”. Amare, riconciliare, perdonare: sono queste le tre parole che possono costruire la pace». A noi possono sembrare parole facili da pronunciare qui e adesso, ma Van Thuan le pensa e le pratica mentre è in prigione, mentre, come dice lui stesso, «vivevo momenti tremendi. Da solo per giorni, mesi, anni. Solo, in una stanza senza finestre, senza nessun contatto con l’esterno, mangiando un po’ di riso con verdure e sale, talvolta costretto con la luce accesa in cella per dieci giorni e poi al buio completo per altri dieci. Spesso mi chiedevo se era vero quello che stavo vivendo. Mi ha aiutato imitare Cristo. Ho deciso di amare e perdonare i miei carcerieri come Gesù mi ama e mi perdona. Ne è nata una storia di fatti piccoli e grandi che cambiano la vita e il cuore». Le sue “armi” per arrivare al cuore degli altri sono la croce, l’Eucaristia, la parola. La croce, che si costruisce con piccoli pezzi di legno e che nasconde nel sapone perché non gliela portino via. La portava ancora al collo anche da cardinale, un segno inseparabile. L’Eucaristia che riusciva a celebrare con qualche briciola di pane e con una goccia di vino che riusciva a farsi mandare spacciandolo per medicina. La parola, infine. Sul retro di vecchi fogli di calendario, in italiano, dicendo alle guardie che si tratta di esercizi di lingua straniera, appunta i suoi pensieri. Ne nasce quello che poi sarà pubblicato come suo primo libro. Il titolo non poteva che essere Preghiere di speranza. Questa speranza e questa fede la porta anche nel lavoro al Pontificio consiglio, nei seminari sulla globalizzazione, sulla difesa dei carcerati, sulla riflessione intorno alla politica. Anzi, per i politici stila anche una serie di beatitudini che intrecciano quotidianità e valori evangelici.

Quando predica gli esercizi alla curia romana, nel marzo del 2000, su richiesta di Giovanni Paolo II mette a tema proprio la speranza. «È nel presente», dice in una delle meditazioni, «che inizia l’avventura della speranza. Esso è l’unico tempo che possediamo nelle nostre mani. Il passato è già passato, il futuro non sappiamo se ci sarà. La nostra ricchezza è il presente. Vivere il presente è la regola dei nostri tempi!». «La vocazione dei cristiani è sempre la stessa, dagli inizi della Chiesa» dice in un’altra occasione, «è l’invito di Gesù: siate luce del mondo, sale della terra». E lui è stato davvero luce e sale. Senza mai smettere di dare testimonianza alla speranza. Ripeto, una speranza radicata nella fede. Parlando degli anni del carcere diceva: «L’esperienza della persecuzione è strettamente legata al mistero del corpo mistico di Cristo. La forza di perseverare nella fede dipende da una totale fiducia nella volontà di Dio. Anche in mezzo ai tormenti più acuti, la grazia del Signore non ci abbandona, non ci lascia mai soli». Attraverso malattie, carcere, rovine e solitudini, attraverso le persecuzioni, le torture, i patimenti Van Thuan ha compiuto la sua vocazione insegnando a tutti noi che «sperare si può. Sempre! In qualunque circostanza. A qualunque costo».