N.03
Maggio/Giugno 2013

Andate…impegnate la vita in ciò che vale

Quali sono, in questo nuovo secolo, alcune delle sfide più grandi nella vita spirituale e nella nuova evangelizzazio­ne? Due mi sembrano fondamentali: da una parte foca­lizzare il rapporto tra nuova evangelizzazione, vita spirituale e al­cune tematiche importanti per il mondo contemporaneo (in vista di una piena riconciliazione) e, dall’altra, la questione dell’ordo amoris, ovvero del rapporto, come io preferisco, tra amore, sapien­za e giustizia1.

  1. Nuova evangelizzazione, vita spirituale e corporeità

Un tema caro al mondo contemporaneo è quello della corpo­reità; in tempo di opulenza (crisi permettendo) e di mancanza di guerre, si può fare tanto per il corpo; è anche vero che si fa tanto per il corpo estetico e pochissimo per il corpo vissuto.

Essendo finito il dualismo anima/corpo, la teologia e l’antropo­logia guardano con positività al corpo; i formatori e gli accompa­gnatori rimangono un po’ più perplessi perché non sono ancora chiare alcune linee formative riguardo all’ascolto del corpo nella vita spirituale.

 

Un passaggio fondamentale da fare è, allora, questo: divenire, attraverso adeguata formazione, esperti lettori dei processi psicocorporei che caratteriz­zano noi umani e dei significati relazionali che essi esprimono.

In questo contesto, io ritengo che vada ricordato anzitutto que­sto: Gesù e Maria con i loro corpi resuscitati sono realmente presen­ti in mezzo a noi e lo Spirito preme attorno a noi e dentro di noi per spingere i nostri corpi e i nostri cuori verso i corpi e i cuori di Gesù e Maria, al fine di realizzare un incontro che sia insieme rassicurante e sconvolgente, ma di sicuro coinvolgente e maturante.

Quello che si rende visibile nella vita dei mistici, nei loro corpi, è segno di ciò che il Signore vuole realizzare con ciascuno di noi e in ciascuno di noi. Gesù e Maria vogliono rapire i nostri corpi verso i loro, vogliono manifestarsi ai nostri occhi, vogliono comunicarci, come ad amici carissimi, le loro segrete ragioni, vogliono trafiggere l’uomo vecchio, vogliono che li aspettiamo con il corpo e con il cuore nella veglia e nel digiuno, che li incontriamo nella corporeità delle Sacre Scritture, dell’Eucaristia, delle icone.

«Il corpo è per il Signore e il Signore è per il corpo»; «Offrite i vostri corpi in sacrificio spirituale a Dio gradito»: così l’apostolo Pa­olo. Oggi ci è offerta una chance meravigliosa, un avvincente obietti­vo formativo: non più reprimere il corpo per innalzare l’anima, ma ascoltare il corpo e offrirlo nella relazione con il Signore e con Maria perché con tutta la densità della nostra umanità possiamo andare incontro a Dio ed ospitarlo nella nostra vita. L’importante è, quindi, che impariamo ad ascoltare il corpo in relazione. E l’importante è che nella preghiera, soprattutto attraverso i salmi, uno dopo l’altro, come in una via di guarigione verso Dio e in Dio, portiamo sia l’a­nima che il corpo.

  1. Nuova evangelizzazione, vita spirituale e piacere

Si dice che viviamo in una società edonista; è vero ed è anche vero che il piacere è una realtà bella ed attraente al di là del tipo di società in cui si vive. Un dubbio profondo avvelena i credenti e anche i consacrati, ora che non siamo più abituati a pensare che il piacere sia una realtà negativa: la piacevolezza del vivere è fuori dal perimetro di una vita credente e, a maggior ragione, dal perimetro della vita consacrata?

 

Insomma, è come se dominasse spesso un pensiero di questo tipo: Dio ha creato il piacere, ma se ne è pentito; forse lo usa ancora come esca per i peccatori, ma lo vuole negare ai credenti, di meno ai protestanti, molto di più ai cattolici, del tutto ai consacrati. Oppure, all’opposto, si pensa che molti comandamenti di Dio siano un peso e che è importante trasgredire per attingere liberamente alla piace­volezza del vivere. La gioia non sarebbe nell’Evangelo (almeno dal punto di vista affettivo ed erotico), ma nel seguire la propria libertà.

No, Dio vuole che ricerchiamo e liberiamo i semi di piacere che egli stesso ha seminato, in nostro favore, lungo le vie che conduco­no al Regno. «Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi (…), ma si compiace della Torah del Signore, la sua Torah medita giorno e notte» (Sal 1): il termine ebraico abitualmente tradotto con “si compiace” fa parte del linguaggio amoroso, potrebbe essere tradotto con “è attratto”; beato l’uomo che si lascia attrarre dalla To­rah, che si lascia coinvolgere anima e corpo dalla Parola del Signore.

Il campo dello studio orante delle Sacre Scritture, quello della preghiera appassionata, il campo dell’osservanza dei comandamen­ti, quello della vita fraterna e il campo della cura del prossimo sono ricchi di semi di piacere che chiedono di essere trovati e liberati. Certo, bisogna scavare per trovarli, ma ci sono e in abbondanza. Parliamo chiaramente del piacere adulto; il bambino oppone piace­re e dolore, gratificazione e sollievo, l’adulto sa che non c’è “cura del piacere” senza disciplina e fatica, senza accoglienza delle inevi­tabili sofferenze della vita.

Quando un uomo o una donna si dedicano, nell’eunuchia per il regno o nella verginità consacrata, allo studio delle Sacre Scritture, alla preghiera, all’osservanza dei comandamenti, alla cura della vita fraterna e al servizio del prossimo, non stanno rinunziando al piace­re, stanno cercando quel piacere che Dio ha seminato in tali campi, le segrete dolcezze di cui parla Santa Chiara, quel piacere spirituale che non si oppone al piacere terreno, ma che è il piacere terreno rapito, trascinato e portato a compimento dallo Spirito presente in mezzo a noi.

I doveri portati avanti senza piacere, senza essere alla ricerca dei semi di piacere seminati da Dio dentro la via dei doveri, sono pe­santi e logoranti; i piaceri cercati fuori dalle vie dei doveri del cuore

sono illusori ed avvelenati. È necessario allora nella vita credente operare per una riconciliazione tra dovere e piacere.

  1. Nuova evangelizzazione, vita spirituale ed affettività

La vita di oggi permette tanti incontri tra uomo e donna, tan­te conoscenze, tante possibilità. Dobbiamo temere questo in nome della vita spirituale o, all’opposto, dobbiamo pensare che questo è più attraente di una vita evangelica?

Inoltre, la cultura di oggi, liquida, fa l’elogio della gratificazione affettiva, a costo dell’infedeltà e della mancanza di perseveranza; la gratificazione affettiva è percepita più importante di ogni legame istituzionale (ad. es matrimoniale); al massimo si sogna che sia pos­sibile mettere insieme impegno istituzionale e soddisfazione affetti­va; nell’affrontare tale elogio dobbiamo fare i moralisti che accusa­no il mondo contemporaneo di superficialità o dobbiamo pensare che in effetti i rapporti profondi e duraturi sono impossibili e che la morale cristiana dal punto di vista affettivo è una gabbia disumana?

In verità, non penso che Dio, creatore di ogni bene, voglia impe­dire ai credenti, e ai consacrati in particolare, quella gratificazione affettiva così cara al mondo di oggi; Dio non vuole impedirci tanti rapporti o rapporti importanti; egli è un Dio geloso, ma non delle creature, bensì degli idoli. Egli vuole, come vedremo meglio, il cen­tro del cuore perché noi abbiamo bisogno di lui, ma vuole dilatare il nostro cuore per donarci tanti rapporti belli ed importanti nella misura in cui ciò è possibile su questa terra.

Il Signore non si oppone all’amore che possiamo avere per Ma­ria, per San Giuseppe, per San Francesco, per l’angelo custode, per la famiglia di origine, per la famiglia attuale (la famiglia spirituale cui apparteniamo), per i figli spirituali, per gli amici, per l’amico del cuore o per l’amica del cuore; egli vuole che viviamo tutto questo in modo appassionato ed ordinato insieme. Infatti, un modo appas­sionato e non ordinato porta alla follia e alla dispersione (è questa la tragedia del mondo contemporaneo appena coperta dalla sbronza del consumo); un modo ordinato ma non appassionato porta alla freddezza e alla rigidità. No, Dio non ci vuole visi pallidi, esangui, come ci definiva Nietzsche, e non ci vuole nemmeno folli quale fu il destino del grande filosofo.

 

Mi sembra, insomma, che nel messaggio cristiano sia contenuta una profonda fiducia riassumibile nello “scavare” (darash in ebrai­co), opera esistenziale che sola permette l’integrazione di fedeltà e creatività; l’amore vero, fedele, duraturo, che attraversa le prove e i conflitti, che ama la povertà e le ferite, che guarda oltre il pecca­to, non è un’illusione; è creato da Dio e lo si trova e lo si sviluppa, se si è disponibili a scavare nella Parola di Dio, nel proprio cuore, in quello altrui, rinnegando la tentazione della superficialità, dello stordimento, della fuga, per custodire il tesoro nascosto dentro le profondità della vita e del Verbo fatto carne.

  1. Nuova evangelizzazione, vita spirituale, eros ed aggres­sività.

A cosa ci spinge l’eros? A costruire legami appassionati, non solo mentali. La conversione, infatti, non è primariamente un fatto mo­rale, bensì relazionale: Dio vuole che prendiamo sul serio il rappor­to con lui, nel corso degli anni e dei decenni, coinvolgendoci in esso con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutte le forze, con ogni respiro. E vuole che amiamo il prossimo come noi stessi, cioè con ricchezza di umanità.

Come non amare con passione Dio, i fratelli e le sorelle, i figli e le figlie spirituali? Certo, si tratta di imparare a declinare la passione in modo diverso a seconda del contesto relazionale, ma certo si tratta di amare con passione.

Per quel che riguarda l’aggressività, essa, rapita e trascinata dallo Spirito, può spingerci da una parte a lottare con Dio nella preghiera prima di arrenderci a lui (spesso la lotta è via necessaria alla resa), dall’altra, a sviluppare assertività e capacità di resilienza, superando le derive della violenza e dell’aggressività passiva.

L’assertività è frutto dell’incanalamento della propria aggressivi­tà come forza tranquilla che permette di sostenere ed esprimere le proprie idee, il proprio sentire, i propri bisogni, i propri scopi; essa si integra con la capacità di ascoltare e rispettare gli altri, dando diritto di cittadinanza ai propri vissuti e a quelli del prossimo.

La violenza, invece, consiste nel voler dominare sugli altri o nel fare male agli altri, non solo fisicamente; l’aggressività passiva con­siste nel colpevolizzare gli altri, nella lamentela senza fine, nella

scontentezza ricattatoria, ecc. La capacità di resilienza ha a che fare con la forza di attraversare e superare i traumi della vita.

Quando eros, aggressività e ragione si integrano nella luce della fede, l’assertività può evolversi come prosocialità ed altruismo; e gli psicologi ci ricordano che quando diventiamo prosociali ed altrui­sti ci facciamo un regalo grandissimo, ci aiutiamo ad essere felici: potremmo dire, in senso positivo, che non c’è egoismo più grande dell’altruismo!

  1. Nuova evangelizzazione, vita spirituale e soggettività

Un’altra caratteristica tipica del mondo contemporaneo è il rilie­vo dato alla soggettività; si è parlato di trionfo della cultura dell’io al posto della cultura del noi; e di enfatizzazione dell’uomo tragico piuttosto che dell’uomo colpevole.

Ebbene, ci domandiamo: è bello, come vuole il messaggio cristia­no, fare della propria vita un dono? O non è forse più bello vivere la propria vita liberamente ed evitare il peso, lo stress, la fatica di una vita offerta?

È bello vivere insieme fedelmente e scommettere sul sogno della fraternità? O invece di un sogno si tratta di un incubo? L’incubo di amare fratelli freddi ed individualisti in cui non trovi calore, o sorelle un po’ acide e fissate con cui non puoi collaborare? Insom­ma, è più bella la liquidità o il comandamento dell’amore fedele e perseverante?

È bello vivere obbedendo a Dio e ai fratelli? O non è piuttosto più bello vivere liberi e fare ciò che si vuole? Vogliamo vivere in caserma o creativamente?

Per lunghi secoli il messaggio cristiano si è inculturato in una cul­tura del noi ed ora è chiamato ad inculturarsi in una cultura dell’io, accogliendone, con spirito affettuoso e critico, le domande, i travagli, i punti positivi e quelli negativi. Che i diritti del soggetto siano im­portanti, che la voce di ciascuno debba essere ascoltata, che le mino­ranze siano rispettate, ecc., da tutto questo la Chiesa non ha nulla da difendersi, anzi, può riconoscere che i semi evangelici piantati nel corso dei secoli hanno fruttificato; è altrettanto vero che la Chiesa può educare i soggetti a non perdersi nell’individualismo e nel gio­vanilismo, cosa che non rende felici ma disperati, bensì a maturare

adultità e dono di sé, convinta com’è della bontà delle parole del suo Signore: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35).

Infatti, maturare adultità e dono di sé non è qualcosa di estrin­seco alla natura dell’uomo, alla soggettività, ma è il suo naturale compimento, non raggiunto il quale c’è il fallimento. Che le per­sone imparino a dire io, ovvero ad ascoltare i propri vissuti e ad esprimerli, è positivo; ed è altrettanto importante aiutarle a svilup­pare un io capace di ascoltare il tu e poi di diventare genitore, ossia uomo-donna capace di dare la vita e di servire con fedeltà.

Qui l’obiettivo formativo mi sembra quello di raggiungere l’a­dultità, maturando dono di sé e passione per il servizio, per una soggettività insieme libera e responsabile.

  1. Nuova evangelizzazione, vita spirituale ed ascesi

Abbiamo parlato di piacere, corpo, affettività, aggressività, eros, soggettività; possiamo ancora parlare di ascesi? Certamente sì, per due motivi: uno perché la necessità di un cammino ascetico è parte del messaggio cristiano, l’altro perché il mondo contemporaneo ha una sua tendenza all’ascesi: quanto sport per mantenersi in forma, quante diete per apparire più belli, quante ore tolte al sonno per lavo­rare, o per “bivaccare” al pub o per stare davanti al computer, quante medicine per avere un rapporto sessuale, quanti piercing e tatuaggi per esprimere qualcosa di sé, ecc., e soprattutto, in tanti, il desiderio di lavorare su di sé per costruirsi come persone autenticamente uma­ne (quanta partecipazione a corsi di psicologia, meditazione, ecc.).

Chiaramente, l’ascesi cristiana non può più essere compresa oggi come negazione del corpo in favore dell’anima. Va ricompresa, come ascesi interiore-relazionale, ossia come piacevole e faticoso lavoro su di sé al servizio della crescita interiore e relazionale, della costruzione di sé; tale lavoro implica conoscenza dei propri vissuti, neutralizzazione di quelli distruttivi, superamento di quelli imma­turi, ascolto disponibile degli altri, assunzione degli inevitabili im­pegni genitoriali.

In questa luce, trovano senso, aspetti ascetici tipici della tradizio­ne: la veglia, il digiuno, la continenza, il silenzio, la disciplina negli atti comuni, l’obbedienza ai superiori e ai formatori e la cura della bellezza.

 

La veglia (ad es. alzarsi presto al mattino per la lectio e la preghie­ra) indica, dal punto di vista relazionale, l’importanza data all’Ama­to e il voler vivere in attesa di lui, della sua visita e della sua venuta definitiva, la disponibilità ad incontrarlo con un certo sacrificio per un cammino di guarigione con lui. Come è scritto nel libro della Sa­pienza: «Si deve prevenire il sole per renderti grazie e pregarti allo spuntar della luce» (Sap 16,28).

Il digiuno (ad es. il venerdì mangiare pane ed acqua) indica, dal punto di vista relazionale, il volersi concentrare sull’essenziale, fa­cendo memoria anche corporea che l’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. E il Signore ci ricorda che alcuni demoni si scacciano solo con la preghiera e il digiuno.

Il silenzio (ad es. evitare distrazioni col televisore o col computer, evitare chiacchiere inutili, o il venerdì non parlare di niente) indica, dal punto di vista relazionale, la disponibilità anche corporea all’ha­bitare secum davanti a Dio, in vista di un incontro con se stessi e con Dio che sia maturante.

La continenza sessuale, dal punto di vista relazionale, indica la disponibilità a lasciarsi unificare dal Signore per una vita che sia tutta “a causa” del regno di Dio e “in vista” del regno di Dio.

E così per altri aspetti. L’ascesi è necessaria come collaborazione con la grazia di Dio proprio per poter vivere oggi una vita che non rinneghi il piacere, l’affettività, l’eros, ma che permetta allo Spirito di rapire queste realtà e di trascinarle verso il loro compimento.

  1. Nuova evangelizzazione, vita spirituale e ricomprensio­ne dei voti

Affrontando in altra sede il tema dei voti, abbiamo proposto una loro ricomprensione che ne evidenzi le possibilità evolutive e rela­zionali.

In estrema sintesi, possiamo dire che il voto di povertà permette crescita interiore e relazionale se compreso come liberazione (de­pauperamento) da quelle pretese che avvelenano la vita interper­sonale e proponiamo come punto di riferimento essenziale quanto scritto da San Francesco nella lettera a un ministro: «Non preten­dere che gli altri siano cristiani migliori». Esso è in vista soprattutto della condivisione.

 

Il voto di obbedienza permette crescita interiore e relazionale se compreso come sviluppo di quegli atteggiamenti di ascolto, cura, sacrificio di sé che caratterizzano l’adulto divenuto genitore. Esso è in vista soprattutto dell’appartenenza.

E il voto di castità permette crescita interiore e relazionale se compreso come eunuchia per il regno, ossia disponibilità a non ge­nerare figli propri, per accogliere, con Maria e Giuseppe, il Figlio di Dio che si fa carne e quei figli e quelle figlie spirituali che il Si­gnore voglia donare. San Giuseppe mi sembra il modello più bello, dopo Gesù, di eunuco per il regno, che a causa del regno e in vista del regno, accoglie nella sua vita la vergine Madre e l’Emmanuele, non rinnegando il bisogno di amore, di appartenenza, di intimità e di generatività, ma incanalandolo nel modo inaudito e scandaloso dell’eunuchia per il regno, appunto.

  1. Nuova evangelizzazione, vita consacrata ed ordo amoris. Ovvero: il tempio interiore

Dopo aver detto qualcosa su nuova evangelizzazione, vita spiri­tuale e tematiche care al mondo contemporaneo, veniamo all’altro punto fondamentale del nostro incontro: nuova evangelizzazione, vita spirituale ed ordo amoris; ossia, usando non una terminologia platonico-agostiniana, bensì biblica, il rapporto tra amore, sapienza e giustizia.

Ci poniamo, quindi, la domanda seguente: cosa fare per rende­re il nostro cuore capace di un amore sapiente e giusto? Per poter rispondere, mi piace usare l’immagine del nostro cuore come di un tempio interiore chiamato all’ospitalità di Dio e del prossimo.

1) Al centro del cuore (in modo analogo al Santissimo nel tem­pio) è necessario che ospitiamo la Sapienza di Dio, il Verbo incar­nato, la Santa Trinità. Perché? Non per divino egoismo certamente, ma perché noi ne abbiamo bisogno per equilibrarci nella vita. Sia­mo noi ad avere bisogno che la stanza centrale del cuore sia abitata da Dio; lì, nel profondo, abbiamo bisogno di sperimentare l’amore e la stima del Dio che ci parla e lì ci deve essere come una centra­le operativa da cui promanino le giuste dinamiche di crescita e di umanizzazione. In principio delle nostre vite è il Verbo che ci parla

e ci costituisce come uditori e facitori della sua parola e noi abbiamo bisogno della sua luce che ci risana e rende beati.

Dio solo, forse, per molti di noi, come per Adamo, “non basta”, ma certo la prima giustizia da fare, è quella di ospitare Dio al centro del cuore e di coltivare e di custodire il rapporto con lui. Il paradiso si riapre laddove questo avviene, altrimenti rimaniamo squilibrati, ci creiamo degli idoli, non maturiamo adeguatamente. La Messa, la liturgia delle ore, la lectio divina, l’adorazione eucaristica, la preghie­ra personale dei salmi, il rosario, ci aiutano ogni giorno in tale opera, bella e faticosa.

2) Un’altra stanza importante del cuore deve essere data alla famiglia attuale, ossia alla famiglia spirituale di cui facciamo parte. Anche al consacrato è chiesto di separarsi dalla famiglia di origine (non certo di non amare i propri familiari), per rispondere al co­mando del Creatore: «Per questo l’uomo e la donna lasceranno il padre e la madre» (cf Mt 19,5). E anche al consacrato è chiesto di separarsi progressivamente dai suoi sogni giovanili riguardo ad una fraternità, di prenderne distacco, di valutarli con intelligenza, pro­prio per realizzarli in modo adulto.

Mi pare importante da questo punto di vista coltivare il piacere di imparare a relazionarsi con ogni membro della propria fraternità nel modo giusto, anche in questo senso sviluppando intelligenza interiore e relazionale. Il Signore vuole che cresciamo in sapienza e le prove interpersonali ci vengono donate proprio per questo; in altri termini, non per frantumare i sogni giovanili, ma per realizzarli in modo adulto, in unione con il Signore Crocifisso e Risorto.

Lasciarsi guarire dalla permalosità, dalle paure, dall’orgoglio, dalle tristezze che non passano, dall’invidia, dalla gelosia è fon­damentale per accogliere l’invito di Paolo a gareggiare nella stima reciproca: «Gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10); mi sembra importante, allora, imparare ad accogliere il punto di vista altrui, deporre ogni senso di superiorità, considerare ogni conflitto come occasione di crescita, pensare ogni fratello o sorella come por­tatore o portatrice di una parte di verità fondamentale. Si può così realizzare il dono dell’ospitalità, inteso come fare spazio all’altro, così com’è, anche quando possa sentirsi estraneo, in difficoltà, ecc.

 

Ciò che va superata è la legge della reciprocità (ti amo se mi ami), per entrare nella logica di Dio, quella del dono e del servizio; e per arrivare a questo può essere utile pensare anche di noi adulti ciò che don Bosco pensava dei giovani: non esistono mele marce, ma solo mele verdi. Ogni confratello, me compreso, ha degli aspetti di immaturità che vanno amati, senza pretesa di cambiamento.

Nei corsi per i genitori, noi psicologi ci sforziamo di insegnare ai mariti a considerare la parte di verità contenuta nel pensiero delle mogli sull’educazione dei figli e, viceversa, ci sforziamo di insegnare alle mogli a considerare la parte di verità contenuta nel pensiero dei mariti. Così, dobbiamo imparare nella vita consacrata che ogni confratello o consorella sta cogliendo una parte di verità che io non colgo.

3) La terza stanza importante mi pare quella in cui ospitare gli amici ed anche, per chi vuole, l’amico del cuore o l’amica del cuo­re. Per difendere la radicalità della consacrazione e per evitare ten­tazioni, negli ultimi secoli tanti maestri di spirito hanno messo in guardia dalle amicizie e da quelle particolari; forse, al giorno di oggi, la radicalità della consacrazione non significa sospetto sull’amicizia, ma saper integrare amore di Dio (al centro del cuore, con il suo pri­mato) e amicizia umana. Forse, al giorno di oggi, in tempo di liqui­dità e mancanza di perseveranza, i consacrati possono essere chia­mati a testimoniare come è bello essere teneri, coltivare amicizie fedeli, sviluppare sapienza relazionale; quest’ultima virtù permette di superare o lo scetticismo o le facili illusioni di tipo romantico.

In modo particolare, forse, oggi i consacrati sono chiamati a testi­moniare che con la grazia di Dio può avvenire un miracolo di bellezza e dolcezza, l’amicizia fedele ed intelligente tra uomo e donna. Fede­le: quanti innamoramenti nella vita e quanta poca amicizia fedele; è terapeutico invece lasciarsi prendere dal piacere dell’amicizia fede­le. Intelligente: il cervello maschile e quello femminile ragionano in modo a volte assai diverso ed è necessario imparare dal sesso opposto la logica che gli è propria, lasciandosi prendere dal piacere della sco­perta faticosa e disciplinata del diverso modo di intendere la realtà.

Tre punti a questo livello mi sembrano fondamentali. Il primo: la stanza centrale del cuore deve essere occupata da Dio per poter ospitare in un’altra stanza amici cari, se no non vi sarà equilibrio. Il secondo: le amicizie non devono essere un’alternativa alla cura della propria famiglia spirituale, bensì un arricchimento e un soste­gno. Il terzo: vi sono consacrati maschi, ad es., che sanno coltivare il rapporto con le donne e non sanno coltivare quello con i ma­schi e viceversa; è, invece, importante equilibrare amore maschile e femminile, per gli uomini e per le donne (non stiamo parlando di omosessualità, è chiaro!).

4) Una quarta stanza del cuore deve essere dedicata ai figli e alle figlie spirituali. Qui mi sembrano importanti diversi punti, che hanno a che fare con le leggi diverse che regolano rapporti paritari e non paritari, con le necessarie competenze, e con la necessità di integrare passione, piacere e perseveranza.

Partiamo dalle leggi diverse che regolano rapporti paritari e non paritari; essenzialmente sono tre.

La prima: nei rapporti paritari la cura è reciproca, in quelli non paritari i “grandi” si prendono cura dei “piccoli” e non viceversa; in altri termini non vi è reciprocità nell’appoggiarsi emotivamente e spiritualmente. Questo significa, ad es., che il padre spirituale ascol­ta i travagli dei figli spirituali, ma non racconta loro i propri; che il formatore non stringe amicizia con un formando; che un superiore non privilegia un suddito piuttosto che un altro.

La seconda: nei rapporti paritari vi può essere più spontaneità emotiva, nei rapporti non paritari chi si prende cura, chi forma o chi governa deve neutralizzare le emozioni distruttive che posso­no mettere a rischio il rapporto; in altri termini, un formando può attaccare un formatore, ma non viceversa, un figlio spirituale può non capire il padre spirituale, ma quest’ultimo deve sempre sforzar­si di capire il primo, ecc.

La terza: nei rapporti non paritari non vanno fatte assolutamen­te alleanze contro un terzo; così, ad es., un formatore non deve fare alleanze con un formando contro un altro formando o contro un altro formatore.

In sintesi, padri spirituali, formatori e superiori devono avere sempre un pensiero in più dei figli spirituali, dei formandi e dei sud­diti, non nel senso di essere più intelligenti e creativi, ma nel senso di supervisionare sempre il rapporto, al modo del genitore che gioca alla lotta con il figlio e, mentre il figlio semplicemente gioca, il padre pensa anche a come il figlio non si faccia male.

Per quel che riguarda le competenze, è forse bene ricordare che oggi, laddove il rispetto per l’autorità non è scontato, è necessario che chi governa, forma o cura sviluppi adeguate competenze, di tipo evolutivo ed interpersonale, nella relazione di aiuto: mi sem­bra, quindi, necessario formarsi bene nel pastoral counseling per po­ter aiutare in modo adeguato.

Infine, qualche parola sulla necessità di integrare passione, pia­cere e perseveranza. Non è necessario che amiamo con freddezza i figli spirituali o i formandi per prendercene cura, possiamo amarli con passione, perché i figli si amano così. Del resto, don Bosco usa­va dire che non basta che i giovani siano amati, occorre che si senta­no amati. Il punto è che la passione sia adulta, di tipo genitoriale, ossia che sia maturata come passione del prendersi cura, del volere il bene dell’altro, del rinunziare a se stesso. Così, può essere piacevole prendersi cura, perché vi è un piacere tutto proprio del servire, del cercare di capire, dell’imparare a sostenere, del tornare e ritornare sui punti difficili per sviluppare intelligenza relazionale; tale piacere deve unirsi alla perseveranza di chi sa che solo andando a fondo, mettendosi in discussione, lasciandosi supervisionare, mai rompendo un rapporto non paritario, sacrificandosi, si può essere veramente di aiuto.

5) Una quinta (ma non meno importante) stanza deve essere dedicata ai poveri. Riascoltiamo la Gaudium et Spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». Vi sono consacrati che vivono da poveri, altri che vivono con i poveri, altri ancora che vivono per i poveri, è necessario che tutti sviluppiamo stima per i poveri, che impariamo a fare esegesi, delle Scritture e della vita, dal loro punto di vista. Il padre Carlo Maria Martini con­siderava sua parrocchia il carcere, il beato Gabriele Maria Allegra, fondatore di un istituto biblico e di un istituto di sociologia, si reca­va spesso in un lebbrosario; mi sembra importante che ognuno di noi si tenga in contatto con i feriti, i bisognosi, i malati per imparare da loro e per contattare meglio il povero che è in ciascuno di noi. Ci sostiene l’icona di San Francesco che abbraccia il lebbroso e che sente l’amarezza trasformarsi in dolcezza di anima e di corpo.

6) Infine, nel tempio interiore l’atrio dei gentili, ovvero il luogo dedicato a coloro che devono essere evangelizzati. È uno spazio che speriamo possa riempirsi di ospiti. Può sembrare che la gente sia indifferente alla Chiesa e forse anche al messaggio cristiano, ma sappiamo tutti che dietro la coltre dell’indifferenza si trovano do­mande inespresse di relazionalità autentica, di ricerca di senso, di ricerca di Dio. Quanti genitori in crisi, ad es., tra loro o con i figli, cercano implicitamente spazi di confronto e di formazione sui rap­porti familiari.

La questione forse è semplice: se le persone non vengono più da noi, dobbiamo andare noi da loro, raggiungendo famiglie e giovani laddove sono e offrendo risposte significative al loro bisogno di re­lazionalità, senso e ricerca di Dio. Come dice magnificamente Papa Francesco: andare nelle periferie esistenziali! Chiaramente, prima ancora della missione, è importante la testimonianza, nel senso del­la presenza di fraternità, anche piccole, in cui sia visibile che si cerca Dio e si cerca una vita autenticamente umana, ossia fraterna.

I padri usavano dire che la Chiesa è quella locanda in cui il buon samaritano, cioè il Cristo, ha condotto l’uomo ferito. Possa il nostro cuore essere quella locanda in cui siamo condotti dal Cristo che si prende cura di noi e in cui possiamo accogliere i fratelli e le sorelle che il Signore ci dona.