N.03
Maggio/Giugno 2013

Andate…raccontate l’amicizia con Gesù

Nella mia vita di sacerdote una delle esperienze più impegna­tive e felici è stata quella dell’insegnamento della religione cattolica in un liceo classico. L’ho fatta per dodici anni, con grande passione. In quegli anni ho avuto il dono di incontrare mi­gliaia di ragazzi. Il preside era molto esigente e desiderava da noi docenti di religione un insegnamento di qualità. L’ora di religione, come noto, è in Italia un’ora facoltativa; l’utilizzo di voti, compi­ti, verifiche, valutazioni, sanzioni disciplinari è praticamente quasi inesistente; gli unici strumenti didattici nelle mani degli insegnanti sono il rapporto interpersonale e l’interesse, gratuito, per la mate­ria, nella fattispecie, la religione.

Fra la quarta ginnasio e la terza liceo i ragazzi cambiano molto dal punto di vista intellettuale; negli anni acquisiscono via via, con rapidità, una grande capacità di ragionamento ed astrazione. I ra­gazzi più giovani amano scoprire, usare i sensi, ascoltare, vedere, costruire, usare le mani; con i più grandi, in molti casi, si riusciva a discutere, analizzare il reale per via teoretica in modo profondo e ricco; sono certo che, come è stato per me, molti di loro hanno raccolto frutti importanti dall’ora di religione.

Le occasioni in cui riuscivo a carpire la loro attenzione con mag­gior facilità, erano quelle in cui raccontavo fatti che riguardavano la mia vita o la vita di persone che avevo conosciuto. Raccontare la propria vita ha la fragranza del buon pane fatto in casa; riuscire a mettere in risalto la presenza di Dio nella propria esistenza dona alla narrazione un grande fascino.

L’esperienza mi ha insegnato che ogni autentica narrazione per­sonale in realtà porta con sé una grande quantità di somiglianze, di tratti comuni con la vita di chi ascolta. Alcune esperienze sono in­fatti comuni ad ogni persona in virtù di una comune natura umana: la bellezza dell’amare e dell’essere amati, il timore del giudizio degli altri, la sensazione di non essere capiti, la ricerca del senso della propria esistenza, la gioia di essere stati riconosciuti e valorizzati da qualcuno.

Spesso accade di ritrovare se stessi nella vita di chi racconta.

Se ben ricordo, praticamente in ogni classe ho dovuto raccontare la storia della mia vocazione al sacerdozio; gli alunni stessi me lo chiedevano; la stessa cosa accade anche in alcuni gruppi giovanili; una vocazione al sacerdozio può sembrare – e in un certo senso lo è – una cosa strana, tuttavia possiede alcuni tratti che incurio­siscono tutti, domande del tipo: «Ma come hai scoperto di essere chiamato al sacerdozio? Ma chi te lo ha fatto fare? Ma perché hai studiato prima ingegneria e poi sei entrato in seminario? Ma prima eri fidanzato? Ma cosa hanno detto i tuoi amici? E i tuoi genitori? Tua sorella? Sei contento? Non ti manca un po’ il non avere una famiglia, dei figli, una moglie?». Mi vengono rivolte ancora oggi molto frequentemente.

È bello raccontare ed è bello ascoltare persone che narrano qual­cosa di sé, della propria vita. Fin da piccolo sono stato abituato ad ascoltare racconti; da piccolo, quando frequentavo gli scout ed ero un “lupetto” amavo molto le narrazioni che gli educatori, i “vecchi lupi” ci facevano a partire da Il libro della Jungla di Rudyard Kipling; li ascoltavamo al buio, in cerchio, illuminati unicamente da una candela; a dire la verità io ed i miei amici amavamo ancor più i racconti che ci faceva un nostro vecchio lupo; si trattava di storie fantasy inventate da lui, ma non lontane dall’esperienza di tutti i giorni; li attendevamo con grande passione; capivamo che dentro quei racconti c’era lui, il suo rapporto con Dio, con gli altri, con il mondo, con il mistero, la sua voglia di vivere e la sua sofferenza.

Narrare la propria vita è bello e coinvolgente; talvolta non è facile capire dove è bene fermare il racconto, a che livello di pro­fondità, di interiorità, di intimità; spesso è difficile capire quando il racconto deve fermarsi per non coinvolgere in modo indesiderato il racconto della vita di altre persone; la nostra esistenza è infatti sempre intrecciata con la vita di altri, è una permanente relazione con altre persone che vanno rispettate; anche la nostra più intima interiorità penso che in un certo senso vada custodita, con pudore e prudenza.

Ogni narrazione è tanto più efficace quando ciò che si desidera raccontare è stato riletto, passato al vaglio della riflessione; tutti ab­biamo una storia da raccontare; i credenti hanno Dio come protago­nista della propria storia. Ogni credente dovrebbe saper raccontare la propria vita in parallelo alla vita di Gesù; gli episodi del Vangelo parlano di noi; il figliol prodigo, Pietro, Filippo, il cieco nato, il para­litico, l’adultera e coloro che la volevano lapidare siamo noi, in vari momenti e situazioni della vita.

Il modo con cui Dio ha voluto farsi conoscere all’umanità è in fondo una narrazione; la Bibbia è il racconto dell’esperienza del rapporto di Dio con un popolo, dell’Alleanza fra Dio e l’uomo, dell’amore sponsale fra l’Altissimo e l’umanità, dell’amicizia fra il divino e l’umano.

La grande narrazione biblica si snoda sia storicamente, cronolo­gicamente, che sapienzialmente, secondo parametri interiori, spiri­tuali e culturali.

La vita dei santi è una miniera di racconti che parlano di Dio; ogni santo è un affresco che orna la cattedrale del Paradiso; non è facile conoscere bene i santi; è necessario studiarli, frequentarli, en­trare nel loro cuore per poterli poi raccontare; nella mia esperienza ho potuto notare che i giovani amano conoscere i santi, sentirli vicini, simili a loro; recentemente sono rimasto stupito del fascino che la storia della beata Chiara Luce Badano ha esercitato su tanti giovani.

Alcune associazioni scout hanno individuato nella narrazione il metodo più efficace per la loro proposta di fede.

Andare e narrare la propria amicizia con Gesù, raccontare la pro­pria vita di fede è oggi un modo efficace e, in un certo senso, acces­sibile a tutti per essere testimoni e missionari.

  1. La mia amicizia con Gesù

La parola “ amicizia” è senza dubbio una delle più belle del vo­cabolario: ha il profumo dell’autenticità, la freschezza della sempli­cità; anche il solo pronunciarla invita a sorridere, solleva il cuore, illumina lo sguardo.

Vorrei provare a narrare l’evoluzione della mia amicizia con Gesù, nella speranza di offrire qualcosa di saporito.

1) Gesù presenza familiare nella fanciullezza e nell’adolescenza

Andando a ripercorrere la mia vita di fede mi sembra di poter dire che durante la fanciullezza e l’adolescenza Gesù è stato per me un’affettuosa presenza familiare, una persona di famiglia, come mia mamma, mio papà, mia sorella, mia nonna.

Fin da piccolo, ogni mattina, prima di entrare a scuola, mio padre mi accompagnava in chiesa. Nella mia parrocchia, in un altare late­rale, c’è ancora oggi un grandissimo quadro del Sacro Cuore; ogni giorno io, mio papà e mia sorella stavamo alcuni minuti di fronte a questa immagine, tenendoci per mano e recitando alcune preghiere.

I miei genitori hanno scelto per me un asilo guidato da una comunità di suore, molto vicino a casa mia; lì ho trascorso i primi anni della mia vita, fino alla prima elementare. In quell’asilo, nel­le aule, nel giardino, in refettorio, nella chiesetta, nei modi gentili delle suore, tutto parlava di Dio, con delicatezza, senza oppressione ed esagerazioni. Con ogni probabilità questa frequentazione quoti­diana della parrocchia e dell’asilo ha fatto sì che Gesù entrasse con naturalezza a far parte delle persone che quotidianamente frequen­tavo, che divenisse una persona di famiglia.

Questi presupposti mi hanno reso facile vivere l’età dell’adole­scenza alla presenza di Gesù. Sia che facessi il chierichetto, che an­dassi a scuola, che frequentassi gli scout, sui campi di calcio o lungo le piste da sci, con gli amici e durante le prime esperienze di inna­moramento ho sempre avvertito con semplicità la presenza di Gesù.

Molti fra i miei amici e compagni di classe, sia alle scuole medie che al liceo scientifico, si erano allontanati dalla fede e dalla Chiesa, ma questo fatto non mi ha mai preoccupato più di tanto né causato problemi o generato dubbi; anche in questi anni Gesù era uno di casa e mi faceva piacere pregarlo, invocarlo, celebrarlo ogni dome­nica, parlare con lui.

 

Avevo diciassette anni quando morì mio padre; era il presiden­te della Conferenza di San Vincenzo della mia parrocchia; franca­mente non sapevo bene che cosa facesse; si occupava dei poveri; lo capii quando al suo funerale vidi un gran numero di persone che non conoscevo assolutamente e che, al termine della S. Messa e nei giorni successivi, mi vennero a dire che mio papà li aiutava econo­micamente e che speravano di poter essere ancora aiutati; nem­meno mia madre era totalmente al corrente di queste iniziative di papà. Per mio padre i poveri erano persone di famiglia; un giorno mi portò a casa di una famiglia da lui assistita, una casa buia e stret­ta; pochi giorni dopo quella famiglia era a cena a casa nostra, con semplicità e naturalezza.

2) Gesù modello nella giovinezza

Intorno ai diciotto anni, grazie all’educazione ricevuta dai miei ge­nitori, alle proposte dei miei educatori e dei miei capi scout ho avuto la possibilità di sperimentare la bellezza di cominciare a fare qualcosa per gli altri; con gradualità sono stato accompagnato a sperimentare un modo di vivere non più basato sulla ricerca del mio bene, della mia felicità, ma sul desiderio di rendere felice il prossimo. Erano gli anni in cui ho iniziato a frequentare un doposcuola per bambini in difficoltà, ad aiutarli a fare i compiti, essere di aiuto ad altri mi riem­piva il cuore e la vita di gioia. Le anime di questo doposcuola erano un sacerdote, un vero credente, umile e autentico, e una signora dal cuore grande, innamorata di Dio e dei piccoli. Quando iniziai avevo diciassette anni, ma mi sentivo un grande professore; insegnavo ma­tematica, italiano, geografia, storia, inglese a bambini e ragazzi ed ero più felice per i loro voti che per i miei. Ricordo con gioia le preghiere in chiesa, al termine del doposcuola, nella chiesa ex garage. Non di­menticherò mai il momento in cui il don mise il televisore sull’altare per seguire l’elezione di Giovanni Paolo II.

Nello stesso periodo per vari motivi un mio amico ci fece cono­scere un ragazzo in carrozzella, distrofico, che abitava vicino a lui. Cominciammo a frequentarlo e a coinvolgerlo nelle nostre uscite serali, il mondo della disabilità e della malattia mi coinvolse emoti­vamente moltissimo.

In quegli anni cominciai anche a fare la mia prima esperienza di servizio come capo scout, prima come “ vecchio lupo” con i lu­petti e successivamente come “ capo reparto” con gli esploratori e le guide.

Mi buttai in questa avventura educativa con un grandissimo en­tusiasmo, con tutto me stesso. Mi era stata data fiducia dai capi più anziani e desideravo dimostrare che avevano fatto bene a puntare su di me. Nello stesso periodo, intorno ai 19-21 anni, ebbi la gioia di condividere, in tempi diversi, un tratto di strada con due ragazze di cui mi ero innamorato che mi vollero bene ed alle quali volli davvero bene; si trattava di persone che conoscevo da molto tempo e che portavo nel cuore; una in particolare mi aiutò a scoprire la bellezza dell’amore, il cercare la felicità dell’altro, la disponibilità a rinunciare ai propri progetti, a perdersi; con candore e semplicità imparai molte cose da lei; camminai e crebbi molto come persona.

Erano anni in cui vivevo immerso per vari motivi in una logica di amore, di servizio, di dono di sé, di gioia di vivere: gioia per il fidanzamento con una ragazza, il servizio educativo, la preghiera quotidiana e la vita sacramentale, l’attività sportiva agonistica come sciatore, la facoltà di ingegneria, il servizio ai malati. Gesù passò con gradualità dall’essere una piacevole presenza di casa all’essere un modello di vita, il modello dell’amore, l’esempio di come si vive; Gesù aveva dato tutto, aveva amato fino alla fine, aveva dato la vita e io volevo vivere così.

È questo l’ambiente vitale e spirituale in cui ho cominciato a sentire i primi richiami a quella che sarebbe stata la mia vocazione al sacerdozio. Avevo voglia di dare la vita, per tutti, fino alla fine, di amare il mondo, proprio come aveva fatto Gesù, il mio modello. Sentivo che una moglie, dei figli non mi sarebbero bastati.

3) L’amicizia con Gesù nell’età adulta

  1. Gesù sostegno sicuro.

Con il passare del tempo mi sembra di poter dire che la mia amicizia con Gesù ha avuto ulteriori evoluzioni. Lentamente Gesù è diventato per me il compagno di ogni momento della mia vita, un sostegno affidabile su cui contare man mano che le responsabilità aumentavano e che gli impegni si moltiplicavano.

In questi anni adulti l’esperienza e le forze psichiche, materiali ed intellettuali permettono alla persona di intraprendere percorsi arditi e complessi; ci si sente autonomi.

 

Intorno ai 23-24 anni, verso la fine dell’università, sentivo den­tro di me una forza enorme; non avevo paura di nulla, mi sentivo in grado di intraprendere qualsiasi tipo di percorso: sposarmi, entrare in un monastero trappista (in quel periodo ero rimasto affascinato da alcuni scritti di Charles De Foucauld che mi aveva proposto un sacerdote), partire per l’Africa. Gesù e la sua divina Madre erano per me un sostegno sicuro e non avevo paura di nulla.

Grazie all’aiuto di alcuni sacerdoti che fecero ognuno la propria importante parte e un padre spirituale a cui mi affidai con fiducia, decisi, dopo un adeguato e sofferto discernimento, di entrare in se­minario, nel seminario diocesano; dopo alcune difficoltà iniziali il percorso in seminario fu abbastanza regolare, senza troppi intoppi.

L’essere entrato in seminario e, in misura ancora maggiore, l’es­sere diventato prete, ha determinato in me un grande cambiamento nella vita spirituale.

La vita del prete prevede alcune grandi responsabilità; molte persone si fidano dei sacerdoti, aprono loro il cuore, rivelano i propri sentimenti, confidano in un aiuto concreto, contano sulla preghiera e sulla penitenza del loro parroco. In una situazione di questo tipo sempre di più ho sentito il bisogno di aggrapparmi a Gesù, di sentirlo vicino, di invocarlo nelle scelte, di pregarlo per le persone care, per i miei parrocchiani, per i malati e i sofferenti affinché lui arrivasse con il suo amore là dove io non riuscivo ad arrivare.

In particolare ho sentito Gesù vicino in un momento molto diffi­cile della mia vita della nostra famiglia coincidente con una grande sofferenza vissuta da mia sorella e durata alcuni anni.

In quel periodo Gesù non era più né una presenza familiare, né un modello bensì un approdo sicuro, che dava speranza nei mo­menti di difficoltà.

  1. Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me.

Negli ultimi anni della mia vita sacerdotale, l’amicizia con Gesù ha avuto una ulteriore evoluzione.

La vita di un sacerdote è un meraviglioso succedersi di incon­tri con Dio e con i fratelli: la celebrazione della Santa Messa, del sacramento del perdono e degli altri sacramenti, l’incontro con le persone, con i sofferenti e i poveri, la progettazione di iniziative pa­ storali, di annuncio, di preghiera, di servizio, l’incontro con giovani e adulti, con bambini e genitori, con chi lavorava e con anziani.

Dio mi ha raggiunto e continua a raggiungermi attraverso l’affet­to gratuito, per certi aspetti immotivato, di una grandissima quanti­tà di persone; senza alcun motivo tanta gente mi vuole bene, prega per me, mi aiuta concretamente, mi incoraggia. Questa esperienza di sentirmi amato è sempre fonte di stupore e di commozione.

In queste occasioni, sento che Gesù non è un amico, né una presenza e nemmeno un sostegno sicuro a cui aggrapparmi; Gesù evidentemente è presente in me, vive in me; le persone amano non me ma il Signore che è presenta nella mia vita e desidera amare gli altri attraverso il mio cuore, donarsi attraverso la mia persona.

In questi anni sento che il mio rapporto con Gesù si sta trasfor­mando in una sua presenza efficace dentro la mia vita.

Mentre celebro la santa Messa o qualche altro Sacramento intui­sco qualcosa, qualche scintilla della luce che proviene dall’esperien­za mistica di San Paolo «non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20); anche in altre occasioni percepisco l’azione di Dio che opera attraverso la mia povera persona; i gesti di carità spesso non sono miei ma di Dio.

Intuisco che le stimmate di San Francesco, di San Pio, di Santa Rita sono la manifestazione della presenza di Gesù nella loro vita; ogni battezzato, non solo il prete, è un abitato da Dio, dalla Santis­sima Trinità, dal Padre al Figlio, dallo Spirito Santo.

  1. La preghiera: l’incontro quotidiano con Dio

Vorrei concludere testimoniando quella che oggi è per me una priorità assoluta per vivere la mia amicizia con Gesù: la preghiera quotidiana, il quotidiano incontro con lui.

Custodire la vicinanza del mio cuore con quello di Gesù è diven­tato in questo tempo la priorità assoluta della mia esistenza; attra­verso l’ascolto della Parola di Dio e le tante occasioni del ministero sacerdotale, di carità pastorale, posso vivere costantemente legato a Dio. In questo modo l’esistenza acquista un colore divino, teologa­le, diventa bella e luminosa, sempre nuova, feconda, piena di quella gioia per cui Gesù è venuto: «Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia dimori in voi e la vostra gioia sia completa» (Gv 15,11).

 

La preghiera quotidiana, l’unione permanente con il Signore è un dono da desiderare e chiedere; è un impegno d’amore che va scelto continuamente.

I ritmi frenetici, la fretta, il rumore, gli stimoli continui a cui la rete informatica ci sottopone, rendono estremamente difficile per tutti, consacrati e laici, giovani e adulti, questa amicizia. Tante per­sone sentono un rinnovato bisogno di silenzio e di raccoglimento dove poter coltivare l’amicizia con Gesù.

  1. Insegnare e imparare l’amicizia con Gesù

La mia amicizia con Gesù, il mio saper stare con lui in modo affet­tuoso, ha avuto una evoluzione grazie ad una molteplicità di fattori, o meglio, grazie ad una molteplicità di persone che mi hanno aiu­tato, mi hanno accompagnato, mi hanno insegnato come realizzare l’unione con Dio.

I poveri, gli ammalati, i sofferenti nel corpo e nello spirito sono stati maestri importanti per quanto riguarda il mio incontro con Gesù; sono loro che per primi mi hanno reso presente il Signore con grande evidenza; stare con loro, ricevere la loro gratitudine, il loro amore, poterli servire e “lavare loro i piedi” è sempre stata per me un’esperienza spirituale molto intensa; abbracciare un malato con amicizia e amore ha ancora oggi per me lo stesso effetto spiri­tuale e fisico di abbracciare Gesù; compiere un gesto fisico di affetto genera l’esperienza reale della verità della parola del Signore «ogni volta che lo avete fatto a uno di questi miei fratelli, lo avete fatto a me»(Mt 25).

Durante la mia vita ho avuto la possibilità di effettuare alcuni viaggi in paesi lontani, di nuova evangelizzazione, in visita ad alcuni missionari amici: in particolare ricordo due viaggi, uno in Mozam­bico ed uno in Etiopia in cui sono stato accompagnato in villaggi dove il Vangelo non era mai stato annunciato in modo sistematico e dove le religioni tribali o altre forme religiose erano di gran lunga più diffuse del cristianesimo. Ho visto con i miei occhi e udito con le mie orecchie la sete di verità, la sete di Dio presente nei cuori di quei fratelli e di quelle sorelle africane che ancora non conoscevano il Vangelo; fra quelle capanne di fango e paglia abitava Gesù che diceva “ho sete”, ho il desiderio di farmi conoscere a tutti, aiutami.

 

Ricordo in particolare un episodio in cui un capo tribù che, al termine di una catechesi, ha “consegnato” nelle mani del mio ami­co missionario la sua fede e quella di tutta la sua famiglia, abban­donando la propria religione tribale ed abbracciando la sequela di Gesù. Per un attimo mi è sembrato di rivivere una situazione simile a quelle descritte negli Atti degli Apostoli in cui lo Spirito Santo ac­compagnava l’opera evangelizzatrice dei discepoli e se ne percepiva quasi fisicamente la presenza; in quella circostanza ho avuto la sen­sazione di “vedere Gesù” vivo e operante. Anche in Italia ho incon­trato alcuni non credenti “assetati” di Gesù, che non aspettavano altro che qualcuno desse loro un po’ di acqua viva, vera; anche in quegli incontri ho sentito la presenza evidente del Signore risorto.

Due sacerdoti mi hanno aiutato molto per quanto riguarda la mia amicizia con Gesù: il mio padre spirituale che mi ha seguito negli anni del seminario e che ancora oggi mi accompagna ed un padre gesuita che mi ha dato gli Esercizi Spirituali per quattro setti­mane in quattro anni diversi, secondo lo schema di Sant’Ignazio di Loyola; questi due sacerdoti sono stati i miei maestri di preghiera, di amicizia con Gesù; verso di loro sento una profondissima gratitudi­ne; con la loro testimonianza e il loro insegnamento mi hanno fatto un dono grandissimo; il primo mi ha comunicato la passione per la meditazione quotidiana, per l’orazione mentale; a lui devo la con­vinzione che senza una preghiera prolungata e quotidiana, gratuita, informale, fatta con il cuore, la vita spirituale presto si inaridisce. Il padre gesuita mi ha comunicato l’amore per la Parola di Dio e il suo essere una delle sorgenti della preghiera.

Il mio intimo rapporto con Gesù è cresciuto e sta crescendo pa­rallelamente alla mia esperienza di sacerdote. Giorno dopo giorno imparo a sperimentare il significato, l’azione di Gesù in me attra­verso il sacramento dell’Ordine; l’efficacia del mio agire sacerdotale spesso supera i miei numerosi limiti umani, oltrepassa i miei pec­cati. Questa sensibilità spirituale all’azione di Gesù, unico sacerdote che opera attraverso i suoi preti, posso dire che mi sia stata donata dal presbiterio di Genova: i preti genovesi che ho incontrato nella giovinezza, nel tempo di formazione in seminario e nei primi anni della mia vita sacerdotale mi hanno trasmesso questa realtà spiri­tuale e teologica. Devo dire che anche i miei docenti della Facoltà teologica e soprattutto i vescovi che ho incontrato e ho servito mi hanno educato ed aiutato con il loro insegnamento e il loro esem­pio a comprendere il legame fra Gesù e il sacerdote. Mi sento di poter affermare che nella mia diocesi, Genova, si sia in un certo qual modo creato un filone di spiritualità sacerdotale fondata sulla presenza sacramentale di Gesù nella persona del presbitero.

Oggi sento fortemente la presenza del Signore che, come a Pie­tro, mi chiede: «Nicolò, mi ami?».

Oggi mi sembra di poter dire che amo Gesù più del giorno della mia ordinazione sacerdotale avvenuta il 9 maggio 1992; la mia ami­cizia con Gesù è cresciuta e continua a crescere.