N.03
Maggio/Giugno 2013

Film: Un giorno devi andare

 

Film: Un giorno devi andare

Regista: Giorgio Diritti

Paese di produzione: Italia

Candidature: David di Donatello per la migliore attrice protagonista

Premi: Nastro d’argento alla miglior attrice protagonista
Anno 2013 uscita

Il regista – Giorgio Diritti, regista, sceneggiatore e montatore, nasce a Bologna il 21 dicembre 1959. La sua formazione professio­nale ed artistica avviene a contatto con vari autori italiani, in parti­colare Pupi Avati, con cui collabora in vari film. Partecipa all’attività dell’Istituto “Ipotesi Cinema”, fondato e diretto da Ermanno Olmi e dirige documentari, cortometraggi e programmi televisivi. Esordisce nel lungometraggio nel 2005 con Il vento fa il suo giro, che partecipa ad oltre 60 festival nazionali e internazionali. Realizza poi L’uomo che verrà, vincitore di numerosi premi. Un giorno devi andare è il suo terzo lungometraggio

La vicenda – Dolorose vicende familiari spingono Augusta, una giovane donna italiana, a fuggire dal proprio paese per cercare un senso alla propria vita nell’immensità della natura amazzonica. Dapprima segue suor Franca, un’amica della madre che con il suo piccolo battello percorre il fiume per portare agli indios la parola di Dio e l’essenziale per vivere. Non soddisfatta di questa esperienza, Augusta abbandona la suora e decide di andare a Manaus per vive­re in una favela, povera tra i poveri, sperimentando la vita semplice e il senso di comunità che caratterizzano queste popolazioni. Ma le pressioni del governo, che non esita ad utilizzare qualsiasi mezzo pur di eliminare le favelas, porta allo sfaldamento della comunità stessa. Augusta allora se ne va, da sola, e si immerge sempre più nella straordinaria e potente natura amazzonica, annullandosi in essa e trovando così finalmente quella felicità e quel senso che an­dava cercando.

Il racconto – La struttura del film è sostanzialmente lineare, ma è caratterizzata da un montaggio parallelo che mette in relazione la vicenda di Augusta con quanto avviene in Italia, dove vivono la madre e la nonna, che abitano a Trento, e una comunità di suore che vivono nel santuario di S. Romedio. Ne nascono due grossi filoni strutturali: il primo, di gran lunga più importante, è quello che segue la protagonista e la sua evoluzione; il secondo diventerà importante soprattutto nel finale perché in esso si inserirà Janaina, un’amica di Augusta che compie il percorso inverso rispetto a quel­lo compiuto dalla protagonista.

PRIMO FILONE – È chiaramente divisibile in tre grosse parti.

Prima parte: Augusta e la Chiesa. Le prime immagini del film hanno un evidente significato emblematico. Sono le immagini della luna, in parte velata dalle nuvole, con in sovrimpressione le imma­gini di un’ecografia in cui appare un bambino che sta per nascere. Poi vediamo la protagonista, Augusta, che piange disperatamente: è facile intuire che cosa è successo.

– Si passa poi a vedere Augusta e suor Franca – un’amica di uni­versità di sua madre, Anna, – che arrivano in un villaggio lungo il fiume, dove vengono accolte festosamente dagli indios e, in modo particolare, dai bambini. Le due donne portano loro delle galline e gioiscono a vedere che è nata una nuova bambina. Augusta guarda con particolare trasporto e nostalgia quei bambini che giocano e sguazzano nelle acque del fiume. Poi suor Franca fa loro catechi­smo, parla di Gesù bambino che è venuto ad insegnare l’amore, fa loro ascoltare la musica di Stille Nacht (manca un mese a Natale) e distribuisce delle statuine del bambinello che: «Vi proteggerà».

– Dopo un po’ di tempo le due donne, con il loro battello dal nome emblematico, Itinerante, arrivano in un altro villaggio, ma si trovano di fronte ad un cartello che vieta l’ingresso ai missionari cat­tolici. Si tratta di un villaggio “conquistato” da una delle tante sette protestanti che, con il regalo di un televisore che trasmette i sermoni di un invasato predicatore, riescono a soggiogare la popolazione fa­cendo appello al sacrificio e alla necessità di purificare il villaggio. Le due donne vengono cacciate in malo modo; ma suor Franca reagisce con forza: «Non potete farvi abbindolare da questo pagliaccio. Vuole solo spaventarvi e presto incomincerà a infilare le mani nelle vostre tasche. Siamo noi che abbiamo costruito la chiesa».

– È significativa la lettera che in seguito suor Franca scrive alle sue consorelle di S. Romedio: «È commovente vedere gli indios che vengono a cercarci fin sulla barca. Sono persone dolci, non vedono l’ora di sentirci parlare di Dio (…). Con la dispensa del vescovo ho potuto fare una trentina di battesimi. Si cerca di farli sposare cristia­namente e insegnargli la confessione, ma su questo è difficile. Non capiscono perché debbono dire ai sacerdoti delle cose della loro vita. Qui capiscono il valore del creato fatto da Dio, ma se parli di Cristo, spieghi che è il figlio di Dio venuto a salvare l’uomo, certe volte ti chiedono che cosa deve salvare».

– In seguito viene sottolineato la diversa posizione di suor Franca rispetto ad Augusta. La prima prega, mentre la seconda non risponde «Amen» ed esprime una certa perplessità nei confronti di quella fede che a lei sembra preconfezionata. «La fede sei tu, quello che senti dentro la tua anima. Io ho sentito una voce che mi diceva di andare», afferma suor Franca. Augusta domanda: «E se la voce non la senti?». La suora ribatte: «Almeno una volta nella vita c’è un segno». E Augusta: «Anche la morte di un bambino?».

– Ed ecco emergere la vera motivazione che spiega la fuga di Augusta e racchiude gran parte del significato di tutto il film. In una lettera indirizzata alla madre Augusta scrive: «Sono scappata dal dolore. Il dolore mi interroga. Credo di non essere qui per di­mostrare a me stessa che so vincere la paura, che so vivere senza l’aiuto degli altri; e neanche per assaporare la bellezza di una vita primitiva. Sono qui per scoprire altri valori: la base, ritrovare un senso. Qui è tutto così grande, così maestoso, così potente e violento che puoi sentirti del tutto insignificante o parte della stessa violenta grandezza. Per me è difficile essere felice; è come se ce ne vergognassimo dopo millenni di sensi di colpa. Ma qui ti sorridono tutti, sorridono senza doverti vendere niente, senza comprarti. E ti sorridono anche quando tu non sei capace di sorridere; e i bambini ancora di più». Poi continua: «Un giorno senti che devi cambiare vita e non puoi più stare in questa; che devi andare, devi essere, devi sperare». È chiaro il riferimento al titolo del film.

– Le perplessità di Augusta aumentano quando le due donne si incontrano con padre Mirko, un missionario che sta progettando un grande centro, con tanto di camere, piscina, cucina internazio­nale, chiesa, scuola professionale, laboratori, ecc. Tutto ricevuto in eredità da un imprenditore italiano. Il prete cerca di spiegare ad un indio che questo progetto potrebbe evitare l’esodo verso la favela per almeno 250 famiglie: «Saranno salvi 1.500 indios; ci sarà abba­stanza lavoro per te e la tua famiglia; avrete sempre di che mangia­re». Ma l’indio dice che non vuole venire a vivere lì, perché la sua vita è nel villaggio. Al che il sacerdote osserva che a quella gente, prima di evangelizzarla, bisognerebbe fare il trapianto del cervello.

– Continua il confronto fra la suora ed Augusta. La prima rim­provera la protagonista di voler capire tutto, di non pregare abba­stanza. Augusta ribatte: «Sei contenta se riesci a farli battezzare, confessare, sposare (…) perché dobbiamo fargli fare delle cose che non capiscono?». E di fronte alla risposta della suora che dice che quelli sono dei sacramenti e che «se Dio è al nostro fianco creiamo il bene», risponde: «E cosa ti dice che è al nostro fianco?»

– Nel frattempo suor Franca continua a distribuire dei santini che dovrebbero proteggere dai vari mali. Poi le due donne trasportano a Manaos una ragazza che sta per partorire. Qui Augusta incon­tra un medico-sacerdote che le parla della necessità di sporcarsi le mani: «Se vuoi cambiare le cose, devi andare dove le cose bisogna cambiarle».

– Di grande importanza dal punto di vista tematico è la lettura che Augusta fa del libro Attesa di Dio di Simone Weil: «L’amore in­finitamente più infinito di Dio viene ad afferrarci. Noi abbiamo la facoltà di acconsentire ed accoglierlo, oppure di rifiutarlo. Se restia­mo sordi, Dio ritorna più volte come un mendicante; ma come un mendicante un giorno non torna più. E se acconsentiamo, Dio getta in noi un seme e se ne va; da quel momento a Dio non resta altro da fare se non attendere»1. Mentre si sentono queste parole le immagi­ni si soffermano a descrivere la sconvolgente bellezza del paesaggio.

– Dopo avere incontrato degli italiani che hanno finanziato la ricostruzione di una parrocchia, ma che nel contempo pensano di costruire un albergo per turisti, che potrebbero essere deliziati dall’esibizione della varie tribù nelle loro danze tradizionali; e dopo aver osservato la spettacolare esteriorità di certe immagini sacre, Augusta prende la decisione di andarsene, dopo aver lasciato uno scritto per suor Franca: «Dici sempre che ho una fede molto piccola; piccola e incerta. Dici sempre che mi faccio troppe domande, e forse hai ragione. Non ho trovato alcuna risposta. Però sento che questa chiesa non fa più per me. Voi siete professionisti dello spirito e io una piccola donna complicata. Non voglio smettere di cercare un senso. Solo non credo più di poterlo trovare così. Ora voglio essere terra. Devo dimenticarmi di Dio».

 Seconda parte: Augusta e la comunità. Augusta si reca a Manaus e va ad abitare nella favela, dove ha preso in affitto una stanza da Arizete, una donna che aveva conosciuto in preceden­za. Le immagini danno risalto ai vari aspetti della vita quotidiana e al forte contrasto esistente tra la vita degli abitanti della favela e quella delle persone ricche che vivono al di là del fiume in enormi grattacieli.

– Ben presto familiarizza con tutti: lavora con loro, mangia con loro, gioca a calcio coi ragazzini che le stanno sempre appresso fa­cendole le più svariate domande ed esprimendo il desiderio di poter andare in Italia.

– Ma ben presto le cose si complicano. Il comune fa di tutto per svuotare la favela e promette a ciascun abitante una somma di de­naro purché se ne vada. Qualcuno accetta. Quando alcuni operai del comune smantellano una baracca, la gente si lamenta: «È già la terza famiglia che va via. Tra vicini ci conosciamo. I nostri figli sono cresciuti insieme. Il governo promette case, ma sta distruggendola nostra comunità». Molti vorrebbero, sì, una vita migliore, ma non accettano lo sgombero forzato e vogliono che venga loro ga­rantito un impiego e il mantenimento della comunità.

– Oltre a vivere come una di loro, assaporando anche nuovi sentimenti che la fanno sentire più viva, Augusta si dà da fare per procurare alla gente un lavoro dignitoso. Organizza una vera e pro­pria squadra di operai che vanno a pulire gli attrezzi di una grande palestra e che si prestano a fare ogni tipo di lavoro. Alla fine della giornata i soldi vengono equamente distribuiti.

– Casualmente Augusta ritrova suor Franca che prima la rim­provera: «Sei mezza nuda come gli indios», ma poi ammette: «Ho pensato tanto alle cose che mi dicevi sulla barca. Mi hanno fatto bene». Suor Franca le annuncia che, dopo quattro anni, farà ritorno in Italia per un mese e le chiede se anche lei desidera ritornare, ma Augusta declina l’invito.

– Augusta parla finalmente con la madre via internet: le due donne sono commosse e imbarazzate. Augusta le annuncia di non essere più in compagnia di suor Franca: «Avevo voglia di vedere altre cose». La madre le chiede se è contenta. Lei risponde di sì, ma il suo volto esprime incertezza e mestizia.

– Poco alla volta le cose peggiorano. Un funzionario del governo cerca di corrompere qualcuno: «Bisogna fargli capire com’è brutto vivere qui; com’è pericoloso». La “voce della palafitta” (un tizio che con il microfono cerca di guidare la gente) invita tutti a rimanere: «Bisogna restare qui; insistere per ricostruire qui, perché questa è la nostra casa. Buttiamo via tutto? Il sentimento di vivere in comunità che abbiamo costruito insieme, che abbiamo ereditato dai nostri padri e che abbiamo il dovere di trasmettere ai nostri figli?».

– Ma poco alla volta gli uomini abbandonano il lavoro che Au­gusta procurava loro e vanno a lavorare alle nuove squallide case che il governo ha preparato per accoglierli. Augusta si arrabbia e arruola le donne per continuare il lavoro nella palestra. Ma proprio durante la loro assenza, un tizio, in combutta con il rappresentante del governo, vende il figlio di Janaina, facendo credere che è stato travolto dalle acque torrenziali. La disperazione della madre («Se non fossi andata al lavoro ora sarebbe vivo») e il finto funerale del bambino pongono fine all’esperimento di Augusta e alla sua per­manenza nella favela, che sembra crollare anche sotto i colpi delle piogge che fanno cadere alcune palafitte.

Terza parte: Augusta e la natura. Augusta parte da sola e se ne va con una piccola barca lungo il fiume. Si immerge sempre più nella maestosa e violenta natura dell’Amazzonia. Dorme sotto un grandioso albero. Si lascia inondare dalla pioggia, sdraiata per terra. Parla da sola. È importantissimo notare che a questo punto ritorna quell’immagine iniziale della luna velata dalle nubi. All’inizio que­sta immagine si accompagnava all’ecografia del nascituro; ora sta ad indicare l’inizio di una nuova vita. Augusta è diventata terra, acqua, natura. Cioè ha raggiunto quel grado di annullamento di sé che le permette di “essere tutto”. E ciò la rende finalmente felice.

– Quel bambino che appare improvvisamente e inspiegabilmente dal mare e col quale Augusta intreccia un gioco festoso ed esaltante, non possiede una giustificazione sul piano narrativo, ma rappre­senta simbolicamente il ritrovamento del figlio perduto e la perfetta felicità raggiunta.

– Alla fine, dopo che il bambino è partito, vediamo Augusta ri­presa dall’alto, sola, accovacciata sulla bianca sabbia, sorridente e serena.

– Ma l’ultima immagine del film è rappresentata da una barca (si vede soltanto la prua) che scivola tra le acque del fiume facendosi largo tra le alghe che emergono dall’acqua. Non può non venire in mente la barca senza conducente che concludeva il film Centochiodi di Ermanno Olmi, indicando il cammino e la ricerca che è necessa­rio compiere.

SECONDO FILONE – È quello relativo a ciò che avviene in Italia. All’inizio tale filone sembra essere in funzione della protagonista. Serve per far capire le ragioni della sua fuga: la perdita del figlio, l’abbandono da parte del marito, la morte del padre, ecc.

– Ma in seguito sembra possedere anche una funzione univer­salizzante. Infatti, anche la madre di Augusta, Anna, vive una si­tuazione di profonda sofferenza (la morte del marito, la partenza della figlia, l’assillante attesa di avere sue notizie, ecc.). Anche la nonna sembra vivere con angoscia la propria situazione di donna

anziana e malata. Anna inoltre sta vivendo anche una crisi religio­sa. Quando una suora di S. Romedio le chiede di dare una mano nel laboratorio delle icone, Anna afferma di non avere un buon rappor­to con Dio: «Non c’è. Non si sente. Non dice niente».

– Poi l’autore stabilisce un rapporto sempre più stretto tra i due filoni. Una suora del santuario recita un salmo: «Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? Fino a quando nell’anima mia penserò pensieri? Tristezza del mio cuore tutto il giorno. Fino a quando su di me prevarrà il nemico?». È significativo che le ultime parole re­citate si sovrappongano all’immagine dei bambini della favela che giocano tra le case allagate e le immondizie.

– Infine, con montaggio parallelo, si stabilisce una vera e pro­pria analogia tra Augusta e Janaina, che sembrano scambiarsi le parti. Augusta va sempre più lontano a perdersi nella natura; Ja­naina viene a Trento e sembra prendere il posto della protagonista accanto alla madre e alla nonna, di cui diventa la badante. È im­portante sottolineare che entrambe le donne hanno perso il loro bambino e che entrambe si allontanano dal loro paese per cerca­re qualcosa. E come Augusta porta qualcosa di sé in quella nuova realtà che ha scoperto, altrettanto fa Janaina nel mondo in cui si inserisce, provocando una benefica reazione in Anna che sembra intraprendere un percorso diverso.

– A questo proposito c’è un’immagine di fondamentale impor­tanza: Augusta porta con sé un’icona di Cristo e la lega ad un al­bero, quasi a indicarne la dimensione cosmica. Janaina, di fronte alla donna morta che si trova nella camera della nonna, recita una preghiera allo stesso tempo laica e di fede che evoca il senso prima­rio della vita, le sue cose fondamentali, ringraziando le varie parti del corpo della donna che le hanno permesso di vivere pienamente (gli occhi, le braccia, le mani, la mente, le gambe, i piedi, il sesso, il ventre e il cuore). E con queste parole termina il secondo filone.

Significazione – Non è facile fare una sintesi di tutti gli elementi narrativi e semiologici di cui il film è ricco. Tuttavia, si possono fare le seguenti considerazioni essenziali. Augusta scappa dal dolore e va alla ricerca di un senso da dare alla propria vita. Lo cerca nella Chie­sa, ma non lo trova. Lo cerca nella comunità degli ultimi, dove sem­bra trovare motivazioni e stimoli nuovi, ma gli avvenimenti glielo impediscono. Lo cerca infine nella potente e straordinaria bellezza della natura, di cui partecipa e in cui si annulla. E finalmente lo trova.

Tenendo conto della funzione universalizzante del secondo filo­ne, si può arrivare alla seguente idea centrale.

La vita è caratterizzata dalla sofferenza e dal dolore. Per poterse­ne liberare e trovare un senso è necessaria una ricerca spirituale che passa attraverso varie esperienze (religione, comunità, ecc.). Ma la vera liberazione può avvenire soltanto in un completo distacco da tutte le costruzioni umane e nell’immersione in una natura sen­tita religiosamente come il Tutto che ci avvolge, di cui facciamo parte, e in cui dobbiamo annullarci.

Valutazione tematica – L’idea espressa dal regista è molto vici­na alle filosofie e alle religioni orientali (il riferimento al buddismo è evidente: il grande albero sotto il quale Augusta ritrova la pace richiama chiaramente l’albero sacro sotto il quale il Buddha riceve l’“illuminazione”). Ma è anche molto vicina al misticismo cristia­no e alle varie forme di misticismo. In questo senso l’insistito rife­rimento a Simone Weil e al suo libro Attesa di Dio è illuminante. In quest’opera la grande filosofa francese parte dal concetto di sven­tura (“malheur”, parola senza equivalenti in altre lingue) che sradi­ca dalla vita, ma che è anche «una meraviglia della tecnica divina», in quanto rivela all’uomo la sua finitudine e l’illusione dell’io, che è l’ostacolo essenziale alla discesa di Dio nell’anima. Perché solo se l’anima si svuota di contenuto proprio può accogliere in sé la realtà divina.

La natura in cui Augusta si annulla è pregna di divinità (l’icona di Cristo legata all’albero). Ma una divinità concepita (secondo la migliore tradizione mistica) non come qualcosa da cercare o da con­quistare, ma come qualcosa da cui lasciarsi riempire. In altre parole, è necessario annullare se stessi per lasciare che Dio agisca in noi.