N.03
Maggio/Giugno 2013

Un incontro per la missione

  1. La missione

Se incontriamo un giovane per la strada e gli chiediamo che cosa intenda per missione, sicuramente ci risponderebbe che è quell’attività che portano avanti i nostri soldati nelle terre “calde” del nostro pianeta; pensiamo, per esempio, alla missione in Afghanistan, o a quella in Iraq che costò la vita a 19 italiani, in missione di pace. Da tali esempi potremmo cogliere alcune carat­teristiche della missione: essa implica un mandato che si riceve da qualcuno, per un compito da svolgere a nome del mandante; un lasciare la propria terra che, in un certo qual modo, definisce l’iden­tità di ciascuno, un distacco dai propri affetti e dai propri beni che danno sicurezza, per andare verso un nuovo dai contorni indefiniti.

Ora, se poniamo a confronto queste caratteristiche con la missio­ne che Gesù affidò ai suoi discepoli, vi scorgiamo sicuramente delle somiglianze. Anche i discepoli ricevettero un mandato da parte del Signore (cf Mc 1,17), che li spinse a lasciare i loro affetti, il lavoro, il loro territorio, per proiettarli verso un futuro indeterminato. Ma, insieme alle somiglianze, dobbiamo sottolineare anche le differen­ze. La missione che Gesù affida ai suoi non è a tempo determinato, bensì indeterminato e, soprattutto, una caratteristica tutta gesuana è – potremmo dire – ciò che precede il mandato e che è presente proprio nella scelta dei suoi collaboratori.

 

1.1 Chiamati per essere inviati

Marco racconta la chiamata dei primi quattro discepoli all’inizio del suo Vangelo, dopo la proclamazione dell’Evangelo di Dio ripor­tato come un manifesto programmatico (1,15).

Passando lungo il mare vide dapprima Simone e suo fratello An­drea nell’intento di gettare le reti in mare, e poi Giacomo e Giovan­ni con il padre e i garzoni che riparavano le reti (Mc 1,16.19).

In questa scena serena, Gesù entra nella vita quotidiana delle due coppie di fratelli, intenti al loro lavoro quotidiano e, rivolgen­dosi loro, dà un comando: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini!» (Mc 1,17.20).

Lo scopo della chiamata da parte di Gesù è quello di fare di essi dei pescatori di uomini. Da pescatori di pesci Gesù li chiama a di­ventare pescatori di uomini. Per indicare la missione, Gesù parte proprio dal loro mestiere. Essi se ne intendono di pesca, poiché ne hanno appreso il mestiere dai loro padri, fin dalla loro fanciullezza. Ora, però, devono apprenderne un altro che somiglia a quello che stanno svolgendo, ma che nello stesso tempo è diverso, perché in questo caso si tratta di pescare uomini e non pesci. Qual è il mare dove devono gettare le reti e di quale tipo devono essere queste ul­time? Quali risonanze ebbero simili parole, nel cuore di quei quat­tro giovani, per i quali, quel giorno, che doveva essere uno come tanti altri, segnò invece l’inizio inaudito per la loro vita!

Vi farò diventare pescatori di uomini! Si sentono affidare una mis­sione di cui forse non comprendono fino in fondo il senso, ma che, quantunque rimanesse ancora nebulosa e alquanto oscura, era sempre qualcosa che li avrebbe allontanati da quel mestiere che rappresentava la sicurezza per il loro futuro e per la famiglia (si dice che Pietro era sposato); li avrebbe sradicati dal loro territorio, i cui contorni avevano definito la loro identità nella società e infine li avrebbe strappati dai loro affetti familiari che davano senso alle loro fatiche e alle loro gioie.

Ma una tale missione è preceduta da un comando: Venite dietro me!

Per diventare pescatori di uomini, devono “mettersi dietro” a Colui che li chiama; perché la promessa si realizzi, devono adem­piere il comando di seguire Gesù.

 

Ma, potremo dire, prima ancora del comando che Gesù rivolge loro, c’è l’incontro di Gesù con le due coppie di fratelli. Il testo sot­tolinea che Gesù passando li vide. Il verbo παράγω (parago) indica il passare accanto ad una realtà. Il passare accanto al luogo dove i quattro giovani si trovano è intenzionale; Gesù appositamente si reca lì dove sa di trovarli e volge loro lo sguardo. Lo stesso vedere implica una intenzionalità, non è semplicemente guardare cose e persone che si impongono alla vista, perché l’occhio non si sazia mai di guardare (cf Qo 1,8), ma è un porre attenzione all’oggetto che si guarda. Inoltre, esso indica una profondità che sfugge a qual­siasi altro; il verbo infatti richiama il vedere nel racconto del Batte­simo, dove solo Gesù vede i cieli squarciarsi e lo Spirito scendere su di lui come colomba (cf 1,10).

Nello sguardo di Gesù che si posa su Simone e Andrea intenti a gettare le reti in mare, come ogni giorno, c’è la sua intenzionalità so­vrana di elezione. Potremmo dire che l’incontro che Gesù ha creato con le due coppie di due fratelli è un incontro elettivo. Egli li invita con un comando ad andare dietro a lui.

Venite dietro a me.

Nessun maestro aveva l’ardire di avanzare una simile proposta. Al tempo di Gesù c’erano maestri che si circondavano di discepoli, ma se simile era ciò che appariva all’esterno, diverso era il procedi­mento e il risultato. Nella prassi ordinaria, infatti, erano i discepoli a scegliersi il maestro per conoscere la Torah; una volta conseguito il fine, erano pronti per essere, a loro volta, maestri per altri che volevano seguire la stessa strada.

È Gesù invece che chiama a sé quelli che egli volle (cf 3,14) e non per farne dei bravi maestri, ma perché lo seguissero. Gesù ha provocato l’incontro con Simone e Andrea, con Giacomo e Gio­vanni perché andassero dietro a lui. È questo un punto fondamen­tale del discepolato evangelico: non si tratta di imparare qualche cosa dai libri con l’aiuto di un esperto, ma si tratta di mettersi dietro a una Persona, di farsi condizionare da lui. La sequela di Gesù risponde come modello non tanto a una scuola, quanto a un laboratorio; non si tratta di apprendere nozioni teoriche, ma di acquisire uno stile, un modello di vita che si apprende stando con il Maestro.

 

La sequela dietro a Gesù è qualcosa che determina tutta la vita del discepolo, non solo l’istante in cui è chiamato; e proprio perché riguarda tutta l’esistenza non la si può programmare nei dettagli fin dall’inizio. Si tratta di un cammino dai risvolti imprevedibili, ma il cui punto fermo è la Persona di Gesù.

Si comprende ancora meglio perché Marco abbia posto il rac­conto della vocazione dei primi discepoli dopo la predicazione pro­grammatica di Gesù.

Credere nell’Evangelo per l’evangelista è lasciarsi condizionare totalmente dalla persona di Gesù.

Tutto questo richiede del tempo perché i discepoli possano ap­prendere e assimilare la lezione di vita che il Maestro impartisce loro.

Solo dopo si comprende la missione che segue al comando di sequela. Solo stando con Gesù i discepoli possono comprendere quelle parole alquanto misteriose: vi farò diventare pescatori di uomini.

Il fascino per Gesù, dal quale hanno sentito pronunciare il loro nome, Marco lo mostra con l’azione subitanea dei discepoli, dopo la chiamata: «E subito, lasciate le reti, lo seguivano» (Mc 1,18); «…e lasciato il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni, andarono dietro a lui» (1,20).

Quale potente azione di attrazione hanno sentito questi quattro giovani per lasciare tutto e mettersi alla sua sequela! Si è prodot­to in loro un movimento che ha fatto superare le loro sicurezze concretizzate nell’affetto di una famiglia, nel lavoro su cui tutti i componenti della loro casa potevano contare, in un certo benessere segnalato in modo discreto con la presenza dei garzoni insieme al padre. Non si sono sentiti bloccati nella loro decisione da tutti que­sti legami, ma con prontezza generosa hanno dato ascolto a quella voce che da allora in poi è diventata sempre più familiare.

Mi sembra che i discepoli abbiano preso piena consapevolezza del gesto di abbandonare tutto per mettersi alla sequela di Gesù da­vanti al rifiuto del giovane ricco, chiamato anch’egli come loro, ma che se ne andò rattristato perché aveva molti beni (cf Mc 10,21.22).

Ci sembra di sentire la voce colma di stupore di Pietro: «Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito» (Mc 10,28). Di fronte a colui che non ha la forza di lasciare le sue ricchezze, per mettersi

alla sequela di Gesù, risalta la prontezza dei discepoli di aver lasciato tutto per avere il cuore libero solo per il Maestro e la sua missione.

Paolo dirà che ciò che per lui erano guadagni, li ha considerati una perdita a motivo di Cristo (cf Fil 3,7). E tutto questo perché è stato conquistato da Cristo (cf Fil 3,12).

Nell’incontro con Gesù, i discepoli sono stati conquistati dalla sua Persona per la sua causa: vi farò diventare pescatori di uomini.

1.2 «…e chiamò a sé» quelli che aveva a cuore[1] (Mc 3,13-15)

In 3,13-15, Marco ritorna sulla chiamata e sulla missione dei discepoli, ma con espressioni che approfondiscono i due temi[2].

Circa la missione, rispetto al racconto della prima chiamata, essa viene specificata: ai discepoli sarà affidato il compito di predicare e sarà loro conferito il potere di scacciare i demoni.

Marco finora ha presentato Gesù proprio come colui che pre­dica l’Evangelo (1,14.15.38.39; cf 2,2) e scaccia i demoni (1,21- 28.33.39). Ora è proprio questa la missione che affida ai suoi. Co­mincia così a delinearsi il mandato che Gesù affida loro. Comincia a diventare chiaro per i discepoli che cosa significavano quelle pa­role misteriose: vi farò diventare pescatori di uomini. Iniziano a vede­re il “mare” nel quale gettare le reti: la sinagoga dove il popolo si riunisce per la preghiera del sabato (1,21-28), la porta della città dove pulsa la vita civile e sociale di un popolo (1,32-34); la casa che può diventare luogo accogliente per tanta gente che ha fame della parola e dove la fede dei fratelli fa sbocciare il dono del perdono (2,1-12). Incominciano a capire quali sono le reti che servono per una simile pesca: la parola insegnata con autorità e il potere che mette in fuga i demoni (1,22.27). Stando con Gesù, incominciano a vedere in lui come si diventa pescatori di uomini. Stando con lui apprendono pian piano il mestiere per il quale Gesù li ha chiamati.

 

Cominciano a comprendere che è fondamentale seguire Gesù, stare con lui per diventare pescatori di uomini.

La chiamata a sé rimanda a quel “venite dietro a me”. Si tratta di fissare lo sguardo su Gesù, di imparare il suo stile di vita. Da dove infatti Gesù prende la sua forza per annunciare e scacciare i demo­ni? Essi lo hanno visto non solo operare, ma anche pregare. Lo han­no infatti sorpreso in preghiera il mattino presto e, alla loro pretesa di rimanere a Cafarnao, si sono sentiti rispondere una parola enig­matica: «Andiamocene altrove nei villaggi vicini, perché io predichi anche là, per questo sono venuto» (1,35-38). Venuto da dove?

Nel vederlo compiere azioni potenti come scacciare i demoni, si saranno chiesti come la folla: «Chi gli dà questo potere di fare simili cose? Chi è costui a cui anche gli spiriti impuri obbediscono?» (cf 1,27).

  1. Stare con Gesù

Prima di tutto lo stare con Gesù racchiude un paradosso, perché in realtà stare con il Maestro, potrebbe far pensare a un fermarsi con lui in un luogo, per un periodo di tempo abbastanza prolungato, in­vece, dalla testimonianza dei Vangeli, stare con Gesù ha coinciso con un essere in continuo movimento; si è trattato di un continuo an­dare dove si recava il Maestro per annunciare e scacciare i demoni, nelle sinagoghe, sulle piazze della città, lungo il mare di Genezaret, nelle varie case dove il Maestro era invitato, lungo la strada, ecc.

Ma non era solo un movimento di tipo spaziale, ma soprattutto valoriale: si trattava, per i seguaci di Gesù, di uscire continuamente da sé per accogliere la novità di Gesù; si trattava di una continua conversione. Del resto per Marco la sequela vuole essere un esem­pio concreto di che cosa significhi convertirsi e credere all’Evangelo (cf 1,15). Per i discepoli che sono andati dietro a Gesù si è trattato di un autentico cammino di conversione per giungere alla fede salda e forte in lui.

 

2.1 Stare con Gesù durante il ministero in Galilea (Mc 1,14- 8,30)

La presenza dei discepoli con Gesù è spalmata su tutto il rac­conto evangelico, dove Marco mostra il lento e faticoso cammino

di sequela, lungo le tre parti del suo racconto: il ministero di Gesù in Galilea (1,14-8,30); il viaggio verso Gerusalemme (8,27-10,52) e gli ultimi episodi della sua esistenza terrena fino alla risurrezione e ascensione al cielo (11,1-16,8).

All’inizio i discepoli partecipano all’entusiasmo che la gente ri­serva per un tale Maestro che insegna con autorità e non come gli scribi (1,22). Essi constatano, insieme a tutto il popolo, come questa autorità si manifesti con la cacciata di un indemoniato nella sinago­ga di Cafarnao (1,24-28), con la guarigione della stessa suocera di Pietro e con le molte guarigioni alla porta della città, dopo il sabato (1,29-34).

Man mano che il racconto avanza, però, tale sequela comincia a segnare il passo[3].

Già a proposito della tempesta sedata (4,35-41), Gesù ha parole di riflessione per il gruppo che, di fronte alla furia del mare e del vento, teme di morire e perciò si rivolge a Lui quasi in tono di rim­provero: «Maestro non t’importa che siamo perduti» (4,38)?

Dopo aver mostrato la sua sovranità sulle forze caotiche del male e della morte, simboleggiate dal mare e dal vento, Gesù si rivolge ai suoi con queste parole: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (cf 4,40).

Se Gesù è con loro, perché temere? La loro paura è indice di mancanza di fede. Lo stare con Gesù, allora, implica la fede, un im­parare cioè ad affidare la loro vita in colui che li ha chiamati. Non è uno stare alla pari, ma un conoscere colui a cui anche il vento e il mare obbediscono (cf 4,41).

Nel racconto che segue la moltiplicazione dei pani, Gesù impar­tisce un’altra lezioni ai suoi e anche questa volta in barca (6,45-52).

Dopo che Gesù ha sfamato cinquemila uomini, costringe i di­scepoli a precederlo sull’altra riva, mentre egli si ferma ancora con la folla per congedarli (6,45). Mentre sosta sul monte a pregare, i discepoli, soli nella barca, faticano avendo il vento contrario. Sul finire della notte Gesù li raggiunge camminando sulle acque. Ciò è motivo di spavento, credendo di vedere un fantasma, ma Gesù li rassicura presentandosi come colui che è (ego eimi). Salito sulla

barca, il vento cessa. A questo punto l’evangelista commenta che i discepoli erano fortemente meravigliati perché non avevano capito la moltiplicazione dei pani a causa della durezza del loro cuore (cf 6,51-52). Il loro grande stupore è rimandato al miracolo dei pani, non compreso dai discepoli a causa del cuore duro.

Si può stare con Gesù e non comprendere i suoi gesti. Lo seguo­no, sono con lui, ma non tutto è comprensibile di ciò che egli fa, a causa della loro durezza di cuore.

In un altro racconto dove Gesù è sempre con i suoi sulla barca si ripete la stessa scena; anzi, questa volta è Gesù stesso a rimpro­verarli per la loro durezza di cuore (8,11-21). Hanno occhi e non riescono a vedere la realtà, hanno orecchi e non sanno ascoltare in profondità.

In questi eventi si nota la distanza che si è creata tra Gesù e i suoi discepoli, pur rimanendo il fatto che essi sono sempre con Lui. Che cosa non riescono a capire, che cosa sfugge del loro Maestro, di cui condividono la vita e la fatica della missione?

Infatti l’evangelista, a proposito delle moltiplicazioni dei pani, ci ha mostrato i discepoli che interagivano con il Maestro. Esprimono infatti a Gesù la preoccupazione per la gente che lo segue da tre giorni senza prendere cibo. Tentano una soluzione quando si sento­no provocati da Lui di dare loro stessi da mangiare. Ma con cinque pani e due pesci che hanno recuperato che cosa possono fare di fronte a tutta quella gente?

Obbediscono a Gesù che ordina loro di far sedere la gente a gruppi di cento e di cinquanta e, dopo che Gesù ha benedetto i pani e li ha spezzati, li distribuiscono a tutti e così fanno con i pesci. Alla fine raccolgono i pezzi avanzati recuperando dodici canestri di pezzi di pane (6,32-44).

Anche nella seconda moltiplicazione dei pani, questa volta in terra pagana, sono i discepoli a procurare i sette pani e a distribuirli ai quattromila uomini presenti, dopo che Gesù ha reso grazie (8,1- 10).

Stanno con il Maestro, vedono quello che egli fa, vengono pian piano coinvolti nella sua stessa missione, ma ancora non riescono a comprendere le sue azioni, perché ancora non sono arrivati a pene­trare il mistero della sua Persona.

 

2.2 Stare con Gesù lungo il viaggio verso Gerusalemme (Mc 8,27-10,52)

Il ministero di Gesù in Galilea si chiude con il racconto della professione di Pietro (8,27-30). Da quel momento in poi l’evange­lista segnala il viaggio di Gesù verso Gerusalemme. Il brano dove troviamo la confessione di Pietro funge da cerniera tra la prima e la seconda parte del racconto marciano, perché se il v. 27 segna chiaramente uno stacco, ciò che viene raccontato in esso mostra il culmine della prima parte del racconto marciano che si chiude con la menzione di uno dei titoli di Gesù, presentati dall’evange­lista fin dall’inizio del suo Vangelo (1,1). Lo stare con Gesù porta Pietro, che risponde a nome di tutto il gruppo, a cogliere in Gesù l’identità messianica. Il Cristo è colui che il popolo d’Israele atten­deva da secoli e che Pietro finalmente può identificare con la Per­sona che li ha chiamati a seguirlo. Per Israele, il Re-Messia è colui che avrebbe guidato il suo popolo con i suoi insegnamenti e gli avrebbe procurato il cibo per vivere. Ora Marco presenta queste prerogative in Gesù proprio nei due racconti delle moltiplicazioni dei pani; egli, infatti, è il pastore che ha compassione del suo po­polo, gregge senza pastore, che lo nutre con la sua parola e il pane (cf 6,34; 8,2).

La confessione di Pietro segue quasi subito questi eventi straor­dinari, ma perché Gesù ha parole di rimprovero molto forti verso i suoi discepoli (cf 8,11-21)? Che cosa in realtà devono comprendere ancora?

Potremmo dire che Pietro, confessando Gesù come il Cristo, ha compreso che egli è guida, pastore e re del suo popolo, ma ciò che ancora non comprende, e con lui tutti i suoi compagni, è il modo in cui egli eserciterà questo potere sul suo popolo.

Questa comprensione ancora incompleta è raffigurata emble­maticamente dall’evangelista con il racconto del cieco di Betsaida. Dopo il primo intervento su di lui egli vede, ma in modo confuso; c’è bisogno di un nuovo intervento di Gesù sui suoi occhi, perché egli possa vedere chiaramente e distintamente ogni cosa (8,22-26).

Marco, con questo racconto, che precede la professione di Pie­tro, avvisa il lettore che la fede dei discepoli è certamente maggiore di quella della gente che lo ritiene un profeta (cf 8,28), ma ancora deve essere rafforzata, perché essi possano vedere Gesù nella sua vera identità.

Subito dopo la confessione di Pietro, Gesù dà loro il primo an­nuncio della sua passione.

«E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva sof­frire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti, e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni risorgere» (8,31). La reazione di Pietro è violenta e mostra bene la sua sorpresa (8,22). Come può dire una cosa del genere il suo Maestro che egli ha con­fessato come Messia?

Da questa reazione possiamo intuire che nella mente di Pietro non c’è posto per un messia che deve soffrire e morire. E poi che cosa significa risorgere dai morti (cf 9,10)?

Altrettanto forte è la reazione di Gesù che apostrofa il suo disce­polo come Satana perché non pensa secondo Dio, ma secondo gli uomini, invitandolo a rimettersi dietro a lui (8,33).

Con queste parole Gesù mostra come Pietro sia distante dal suo modo di pensare e quindi di agire; pur stando con lui egli deve mi­surare lo scarto che lo separa dal suo Maestro. E soprattutto non può mettersi davanti a lui per indicargli la strada, non può fargli da guida, ma se vuole essere discepolo di questo Maestro deve stare dietro a lui.

Subito dopo ai discepoli e alla folla Gesù indica le condizioni per seguirlo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (8,34).

Non si è obbligati a seguire Gesù; la sua sequela è sempre un atto di libertà, di scelta libera e volontaria, ma una volta che si accetta, si deve stare alle regole del suo gioco.

Lo stare con lui fa conoscere intimamente Gesù e mette a nudo l’intimo del discepolo. Egli è chiamato a convertirsi e in questo caso la conversione comporta il rinnegamento di sé e il prendere la pro­pria croce[4].

 

Il rinnegamento di sé alla luce della reazione di Pietro alle paro­le di Gesù è la rinuncia a fare di sé il centro della propria vita, per porlo nella Persona di Gesù, Messia. Il rinnegamento di sé, allora, non implica un andare contro le aspirazioni profonde della persona e quindi contro la ricerca della felicità, ma è piuttosto modo per conseguirla, senza illudersi.

Questo implica che il discepolo si faccia determinare totalmente e completamente dalla Persona di Gesù. Ma come è possibile che un uomo possa determinare così profondamente la vita di un altro?

Come è possibile che un altro possa condizionare totalmente la mia esistenza?

La risposta a queste domande la troviamo nel racconto della tra­sfigurazione che l’evangelista riporta subito dopo. Sei giorni dopo queste cose, Gesù salì sul monte portando con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e si trasfigurò davanti a loro. Essi contemplano il loro Maestro con una veste sfolgorante e lo vedono in mezzo a Mosè ed Elia. Dalla nube ascoltano la voce che lo indica come il Figlio amato che ingiunge loro di ascoltarlo (cf 9,2-7).

I discepoli che hanno appena ricevuto l’annuncio della sua pas­sione, ora possono contemplare Gesù in mezzo alle autorità massime d’Israele: la Torah e i Profeti, alle quali essi danno l’assenso della loro fede. Ad esse si aggiunge la voce celeste che rivela loro un altro aspet­to ancor più profondo della Persona del loro Maestro: egli è il Figlio, l’amato. Sul monte viene loro rivelata la relazione singolarissima di Gesù con Dio. Così il Messia confessato da Pietro, presentato da Gesù stesso come rifiutato dal popolo, è rivelato dal Padre come il Figlio. Ecco la ragione ultima perché i discepoli sono invitati ad ascoltarlo, cioè a seguirlo e a stare con lui. Non si tratta di un semplice maestro, fosse pure il più grande di tutta l’umanità, ma si tratta del Figlio di Dio che chiede una sequela dietro di sé senza riserve, incondizionata, anche quando il cammino diventa impegnativo ed enigmatico.

Di fronte a questa svolta del ministero di Gesù, che inizia il suo viaggio verso la Croce, il discepolo è chiamato di nuovo a fare la sua scelta. Gesù non illude i suoi amici, ma li rende partecipi della sua sorte, li lega a sé nel suo cammino di sofferenza e di gloria.

Egli intercetta la sete di felicità dei suoi e di ogni uomo, di ricer­ca della propria realizzazione, ma ne indica la strada sicura, non ingannevole come fa il nemico dell’uomo, facendolo cadere nella trappola attraverso l’inganno e lasciandolo ogni volta con l’ama­rezza della constatazione drammatica dei propri limiti (cf Gen 3,1- 13). Egli ci mostra la strada da percorrere per raggiungere il fine: è la strada del rinnegamento della propria falsa immagine di sé per indicarci la meta che è il conseguimento della vera felicità, fatta in­travedere nella scena della trasfigurazione. Ecco allora l’importanza di stare dietro a lui, di continuare a seguirlo.

Il Padre, con la sua dichiarazione nei confronti di Gesù, attesta la bontà delle sue scelte e delle sue strategie nel portare avanti il suo messianismo a favore del suo popolo. Il Padre rivela che il Figlio è in perfetta sintonia con il suo punto di vista; sono i discepoli che, pur stando con lui, sono ancora molto distanti da esso.

Quanta fatica perché queste parole siano accolte dai suoi disce­poli! Infatti egli ripeterà il suo annuncio di rifiuto, di morte e di risurrezione per ben tre volte scandendolo lungo la strada che lo porta a Gerusalemme, ma troverà sempre la medesima reazione da parte dei suoi: incomprensione. Nel racconto, subito dopo la guarigione dell’epilettico, Gesù si ritrova di nuovo solo con i suoi discepoli e dice loro la stessa cosa: «Il Figlio dell’uomo viene con­segnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, il terzo giorno risorgerà» (9,31). Questa volta la reazione non è aperta, come quella di Pietro dopo il primo annuncio, ma è la stessa. Essi infatti lungo la via avevano discusso chi di loro fosse il più grande (9,34). Gesù non li biasima per l’aspirazione profonda di essere i primi e i protagonisti, ma ne indica la strada certa per conseguire tale fine. Non la sopraffazione dell’altro, non la violen­za per emergere a tutti i costi, ma il servizio liberamente assunto (9,35ss.).

La stessa lezione è ripetuta dopo il terzo annuncio (10,32-34). La distanza tra Gesù e i suoi è indicata dalle pretese dei due figli di Zebedeo di essere i primi ministri nel Regno glorioso di Gesù e dalla reazione violenta degli altri dieci contro le ambizioni dei due fratelli (10,35-45).

Gesù nella sua risposta orienta i suoi ad assumere il suo punto di vista, invitandoli a spogliarsi della loro visione mondana. Egli orienta la generosità intraprendente dei due figli di Zebedeo a par­tecipare al suo destino di morte per giungere alla gloria che essi sognano.

Così pure agli altri dieci Gesù contrappone la logica di potere dei grandi della terra a quella che deve contrassegnare il loro stile di eser­citare l’autorità sugli altri. Il loro stile è quello che vedono esercitare dal loro Maestro, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti. Stare con Gesù li abilita ad assume­re questo tipo di potere che equivale al servizio libero e generoso nei confronti dei fratelli. È il potere che devono assimilare dal loro Mae­stro che si dichiara essere servo, il cui bel servizio è quello del riscatto dal peccato e dalla morte, per renderci persone davvero libere, capaci di decidere della propria vita e di metterla a loro volta a servizio degli altri, sulla scia del Maestro (10,45; cf Is 53,12).

Lo stare con Gesù in questo tratto di cammino in comune ha significato per i discepoli apprendere una lezione di vita assai im­pegnativa. Ha comportato una purificazione delle loro motivazioni della scelta fatta, una conversione radicale delle loro convinzioni circa il messianismo del loro Maestro e Signore. Stare con Gesù ha significato per i discepoli accettare di fare un cammino di profon­da trasformazione per essere in grado di accogliere la sua Persona come si rivelava a loro e non come pretendevano che fosse.

Avranno compreso la lezione impartita da Gesù in modo così costante e convincente?

2.3 Stare con Gesù a Gerusalemme (11,1-16,8)

Nell’ultima parte del suo racconto, Marco ci presenta il ministe­ro di Gesù a Gerusalemme (11,1-13,37) e a seguire le vicende che segnano gli ultimi giorni della sua esistenza terrena con l’annuncio pasquale accanto alla tomba vuota (14,1-16,8).

Gesù arriva a Gerusalemme sempre accompagnato dai suoi di­scepoli. È interessante notare come il racconto della salita alla Città Santa termini con l’episodio del cieco di Gerico che, appena guarito da Gesù, si mette a seguirlo lungo la strada (10,46-52). Anche qui, come già in quello del cieco di Betsaida (8,22-26), il racconto mo­stra una valenza simbolica. Solo colui che viene guarito dalla cecità, può seguire Gesù che si appresta a vivere la passione e la morte, secondo quanto aveva predetto ai suoi discepoli.

 

Ma perché i loro occhi potessero essere illuminati su Colui con il quale avevano vissuto fino a quel momento, senza conoscerlo veramente, dovevano passare per il crogiolo della croce.

In quest’ultima parte del racconto ci viene raccontato come lo stare con Gesù da parte dei discepoli subisca un’interruzione.

Nel racconto dell’Ultima Cena, Gesù porta all’apice la sua strate­gia seguita fino a quel momento, offrendosi ai suoi nel dono del suo Corpo e del suo Sangue. La sua esistenza, caratterizzata dal dono di sé nell’annuncio del Regno e nella cacciata dei demoni, nella guarigione della malattie e nel dono del perdono, ora è consegnata completamente ai suoi, nel segno del pane spezzato e del sangue versato per amore.

Ma questo gesto con cui Gesù celebra la sua morte, rivelandone il suo significato profondo, è in forte contrasto con quello dei suoi che sono stati con lui tutto quel tempo e che nel momento supremo lo abbandoneranno.

Marco ha cura di mostrare questa interruzione della sequela da parte dei suoi, anche nel modo di comporre il racconto. Infatti inca­stona, come una perla di inestimabile valore, il racconto della isti­tuzione dell’Eucaristia (14,22-25) tra la predizione del tradimento di Giuda Iscariota (14,17-21) e quella del rinnegamento di Pietro e l’abbandono di tutti gli altri (14,27-31).

Giuda, uno dei Dodici, scelto da Gesù perché stesse con lui per mandarlo a compiere la sua stessa missione, come gli altri, è pronto a consegnarlo ai capi dei sacerdoti che cercano il modo di catturarlo per farlo morire (14,10)! I Vangeli su questa scelta di Giuda sono estremamente sobri. Per quale motivo Giuda è spinto a tradire il suo Maestro? Davanti a questo silenzio del racconto evangelico, anche noi dobbiamo rimanere sulla soglia del mistero della libertà umana che fa le sue scelte.

Pietro, uno dei primi ad essere chiamato a seguire Gesù, colui che lo aveva confessato come il Cristo, negherà di averlo mai cono­sciuto (14,66-72)! Mentre Gesù farà la sua bella professione davanti al sinedrio, compromettendo definitivamente la sua sorte (14,62- 65), Pietro davanti a una serva negherà di conoscerlo (14,68s.).

E gli altri come si comporteranno in queste ore drammatiche per il loro Maestro? Gesù predice anche il loro comportamento:

tutti lo abbandoneranno e fuggiranno, perché saranno scandalizzati (14,27). Il Messia crocifisso sarà una pietra di inciampo alla loro se­quela. Come è possibile che Gesù debba morire come un malfatto­re, condannato alla pena infamante della crocifissione? Come potrà realizzare la sua missione di guida, di colui che nutre il suo popolo se viene portato al supplizio proprio da coloro che avrebbero, per primo, dovuto riconoscerlo come loro Messia?

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù li aveva preparati a questo momento, ma evidentemente non avevano compreso e così ora non reggono allo scandalo della Croce e fuggono via tutti, lasciandolo solo.

Ma già da ora, mentre si accinge ad entrare nella sua Passione, Gesù guarda oltre e predice loro che, una volta risorto, li precederà in Galilea (14,28).

Lo stesso messaggio ripeterà l’angelo alle donne davanti alla tomba vuota, il primo giorno della settimana, al levar del sole: «Egli vi precederà in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto» (16,7).

Con queste parole il Crocifisso-Risorto è pronto a ricominciare con quel gruppo scelto all’inizio del suo ministero messianico. Non allontana i suoi discepoli, ma li riprende con sé, li chiama di nuovo a sé (cf 3,13) invitandoli a precederlo in Galilea, dove tutto è ini­ziato.

Marco, rispetto agli altri evangelisti, non racconta però il pro­sieguo della storia. Chiude infatti il suo racconto con la fuga delle donne dal sepolcro, e con il loro silenzio decide anch’egli di fare silenzio. Il silenzio con cui il narratore chiude il suo racconto di­venta un invito, per noi oggi lettori del Vangelo del III millennio, a continuare la storia. Intercettati dall’Evangelo che ci ha raggiunti (cf 13,10), siamo invitati ad andare in Galilea dove abbiamo la spe­ranza di incontrarlo.

Leggendo e rileggendo il Vangelo, da dove traspare la dimensio­ne rivelatrice della vita terrena di Gesù[5], siamo invitati a metterci dietro a lui, affascinati dalla sua Persona, perché anche noi possia­mo apprendere, stando con lui, il suo stile, che ci deve caratterizza­re come suoi seguaci che continuano la sua missione sui sentieri del tempo e dello spazio del nostro mondo.

1 Belano suggerisce di tradurre il verbo volere con “avere a cuore”, prediligere, secondo la sfumatura semitica del verbo (cf Mt 27,43). A. Belano, Il Vangelo secondo Marco. Traduzione e analisi filologica, Aracne, Roma 2008, p. 236.

[2] L’intenzione di Gesù è duplice ed è espressa con due proposizioni finali introdotte dalla par­ticella hina: Egli li chiama a sé / perché stessero con lui / e perché li mandasse a predicare e per avere potere di scacciare i demoni. Lo stare con Gesù è prioritario per compiere la missione.

[3] G. vanOyen- M. Perquy, Lire l’Évangile de Marc comme un roman, Lessius, Bruxelles 2011, pp. 124-144.

[4] Maggioni parla a questo punto di un capovolgimento teologico nel senso che il discepolo impara a conoscere chi sia il suo Maestro spogliandosi dell’immagine che si è fatta di lui e di un capovolgimento antropologico nel senso che egli è chiamato a passare da una concezione di vita vissuta come conservazione a una vissuta come dono. Cf B. Maggioni, Il fondamento evangelico alla vita consacrata, in AA.VV., Vita consacrata. Un dono del Signore alla sua Chiesa, Dehoniane, Bologna 1993, p. 113 ss.

[5] G. vanOyen, Lire l’Évangile de Marc, cit., p. 166.

Temi