N.01
Gennaio/Febbraio 2014

Dalla casa alla periferia una nuova pastorale vocazionale

1. Nelle periferie la realtà si vede senza filtri
Tutti tendiamo in qualche misura a trasformare gli aspetti fa­ticosi della realtà e a trovare qualche stratagemma per non tenerli davanti agli occhi. Tutti ci raccontiamo storie per ren­dere più sopportabile ciò che invece ci chiede di cambiare o che ci dà da pensare. Tutti cerchiamo di mettere i sassolini che entrano nelle scarpe in una posizione in cui non danno più di tanto fa­stidio. A volte, come un momento di grazia e di verità, facciamo l’esperienza dell’impatto con quella realtà che vorremmo non ve­dere.
Proprio perché cerchiamo di nascondere a noi stessi ciò che è spigoloso, c’è il rischio che le nostre case, i luoghi e i tempi che fre­quentiamo maggiormente, siano un po’ ovattati e non ci facciano vedere la realtà nella sua crudezza.
Nelle periferia, invece, molto spesso si opera una sorta di svela­mento della realtà. Nella periferia le facciate e le fioriere decorate vengono meno, c’è una preoccupazione minore per l’apparenza, la realtà è più spudorata e si fa vedere nei suoi contrasti e nelle sue tensioni. La periferia permette di fare una lettura più efficace e ra­pida di quanto viene vissuto. Le dinamiche, i movimenti profondi, le grandi direttrici sono per lo più le stesse, ma ai margini sono più evidenti e chiare.
Quanto più ci si trova in periferia, tanto è più forte la spudora­tezza della realtà. Questa è l’impressione che si riceve quando si visitano le grandi città dell’Africa o dell’America Latina. I contrasti tra ricchi e poveri, i conflitti per le risorse, i rischi che si corrono, la creatività che è presente, la speranza che porta a sorridere… lì nella periferia sono lampanti per il visitatore. Anche nelle nostre case, anche nelle nostre comunità ci sono contrasti, conflitti, limiti risorse e speranze.
Guardare alla periferia allora può essere come un esercizio di verità: si vedono senza tanti filtri gli elementi e le dinamiche che fanno parte della vita di tutti, ma che altrove sono più nascosti.

2. Passeggiando per le periferie di Rio
Chi ha potuto partecipare alla Giornata Mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro nell’agosto 2013, è rimasto colpito nelle periferie dall’abbondanza di luoghi di culto e di riunione per molteplici co­munità cristiane evangeliche o di altro tipo. In alcune zone almeno un locale ogni 100 metri era affittato da queste comunità. Nell’arco di una ventina d’anni queste comunità sono crescite in modo espo­nenziale.
Vedendo una tale abbondanza di gruppi viene da chiedersi: per­ché sono così presenti nelle periferie? Quali sono i bisogni a cui rie­scono a dare una risposta? Perché le parrocchie cattoliche, che pure si danno da fare, non riescono a soddisfare gli stessi bisogni? Quali conversioni sono necessarie perché anche la nostra pastorale possa corrispondere maggiormente ai bisogni delle periferie?

3. Imparare dalle periferie
Sicuramente quella non è una situazione paragonabile al nostro contesto italiano, ma un confronto può offrire stimoli interessanti alla lettura della realtà e alla progettazione pastorale.
Seguendo l’intuizione che nella periferia si vede in modo più chiaro ciò che è presente nelle case e nel cuore di tutti, chiedendoci perché nelle periferie si diffondono le piccole e nuove comunità evangeliche, vorremmo vedere quali sono i bisogni che vengono soddisfatti da queste realtà. Per operare questa lettura prendiamo ispirazione e seguiamo lo schema offerto dal documento nato dalla collaborazione di diversi segretariati e consigli pontifici nel 19861 sui nuovi Movimenti Religiosi. Chiaramente è un testo datato, ma può risultare ancora utile come griglia di lettura dei bisogni.
Cercheremo di vedere come il vangelo della vocazione sia effet­tivamente una buona notizia per le nostre comunità e per i nostri giovani.

3.1 La ricerca dell’appartenenza
Nel nostro contesto sembrano opporsi in modo dialettico due tendenze. Da una parte il senso di appartenenza come era cono­sciuto fino a qualche anno fa è andato profondamente in crisi. In genere la comunità non si percepisce come realtà alla quale ap­partenere; non è detto che il luogo in cui abito sia anche il luogo in cui vivo. Ad esempio si sceglie la scuola non perché più vicina, ma perché è quella più comoda da raggiungere sulla via del lavoro. Soprattutto nelle città, l’appartenenza ad una parrocchia non è per niente percepita come una realtà legata allo spazio, ma piuttosto ad una serie di preferenze. Dall’altra parte, proprio perché la struttura di molte comunità è stata fortemente indebolita, proprio perché le case difficilmente sono viste come luogo di legami stabili, le perso­ne spesso si sentono sradicate e sole e percepiscono maggiormente un bisogno di appartenenza. Si esprime questo bisogno attraverso il lessico dell’amore, della comunità, del calore, dell’amicizia, della fraternità, dell’incontro, della comprensione, dello stare insieme, del riparo.
È interessante notare come anche nel mondo del web si ripro­pone il bisogno della “comunità” e si sceglie il linguaggio inerente.
Soprattutto nelle periferie, si fa sentire il senso di estraniazio­ne che richiede appartenenza. Queste periferie sono quelle fisiche delle città, ma anche quelle esistenziali. Quando qualcuno spe­rimenta ad esempio un momento di malattia, o la perdita del la­voro, o l’esclusione da un corso universitario a numero chiuso, o una separazione, quello è il momento in cui è forte il bisogno di comunità.
Una proposta pastorale generativa deve tener conto di questo bisogno di appartenenza, deve “sapere di casa”, deve offrire calo­re umano, attenzione e sostegno, deve far sperimentare la bellezza dell’essere comunità, della condivisione di un fine e di una fraterni­tà. Il clima comunitario deve essere attento alla diversità, accompa­gnando ciascuno nei momenti critici e di svolta.
Questo bisogno di appartenenza e di calore deve essere mante­nuto in equilibrio con la necessità di fare proposte che in qualche modo sfidano e fanno uscire dalle proprie sicurezze.
Annunciare il vangelo della vocazione significa offrire lo spazio di una relazione che definisce la propria identità, proporre di inse­rirsi in una comunità ministeriale dove i doni e i talenti di ciascuno vengono messi al servizio, sentirsi coinvolti in un clima di famiglia. Concepire la vita come risposta ad una chiamata fa sentire desidera­ti, voluti, cercati e amati, permette di tenere insieme l’unicità della persona e la possibilità di costituire una comunità a cui appartenere.

3.2 La ricerca di risposte
Nelle periferie spesso mancano i punti di riferimento. Non c’è un campanile in cui riconoscersi, non c’è un centro verso il quale andare, non c’è un luogo che possa dare un senso di identità e di sicurezza. Nelle periferie esistenziali, in situazioni in cui la vita è molto complessa e confusa, si cercano risposte e soluzioni.
Il bisogno di sicurezza e di risposta è autentico e merita una con­siderazione seria. Le risposte date rischiano di essere delle istruzioni per l’uso, delle direttive chiare, delle ricette semplici da mettere in pratica. A volte chi è in ricerca di risposte si rivolge a “nuove rive­lazioni”, ad apparizioni, profezie, luoghi particolari che sembrano dare risposte autentiche, non tanto per l’affidabilità e la credibilità del contenuto, piuttosto per la straordinarietà del mezzo attraverso il quale giungono.
Se il bisogno di risposte è autentico, non si possono dare solu­zioni troppo semplificate e parziali, che non tengono conto della complessità.
Il successo di alcune proposte pastorali che illustrano in modo sistematico gli aspetti della nostra fede, come ad esempio gli iti­nerari sui Dieci Comandamenti che si stanno diffondendo un po’ in tutta Italia a partire dall’esperienza pilota di Roma, rispecchiano questo bisogno di risposte. I contenuti vanno poi mediati dall’ac­compagnamento personale che introduca alla ricchezza dell’arte del discernimento.
Parlare della vocazione significa rispondere alla domanda di sen­so soggiacente a tutte le altre questioni che uno si può porre nella vita: chi sono? Qual è il mio posto nel mondo? Dare una rispo­sta a queste domande, intrecciando identità e missione, significa dare una struttura attorno alla quale coagulare anche altre risposte.
Chiaramente, individuare la propria identità e la propria missione in relazione con Dio richiede non una risposta da fuori, ma una ri­sposta da dentro e ciò implica la libertà e la coscienza.
Nei percorsi formativi per giovani è opportuno aiutare la ricer­ca delle risposte dando alcuni criteri per il discernimento, ma mai sostituendosi alla responsabilità della coscienza nello scegliere. Le guide spirituali devono essere esperte di discernimento, ma estre­mamente prudenti e rispettose per evitare di sostituirsi alla libertà dei singoli.

3.3 La ricerca d’integrità
La periferia ha la tendenza a depersonalizzare, a mescolare tra di loro le culture, a frammentare il proprio ambiente. Questo avviene anche nelle periferie esistenziali della sofferenza e delle ferite, della lontananza e dell’esclusione. Molti sembrano non ritrovarsi più con se stessi, con gli altri, con la propria cultura e il proprio ambiente. Si sperimenta una sorta di rottura dentro di sé, forse perché feriti proprio da coloro che avrebbero dovuto proteggere: i genitori o i professori, la Chiesa o la società. Ne deriva un senso di esclusione e di frammentazione.
La richiesta che viene fatta alla dimensione spirituale è quella di offrire unità, integrità, armonia. Ci si aspetta che si possano riconci­liare e ricondurre le frammentazioni che uno sente tra emozioni e pensiero, tra individuo e comunità, tra fede e ragione.
È necessario fare delle proposte il più possibile unitarie e integra­te, che superino le specializzazioni (“questa è un’iniziativa della pa­storale giovanile, questa è una proposta della pastorale vocazionale, a quest’altro ci pensa il centro missionario, la pastorale familiare si occupa di quest’altro problema…”). Ogni iniziativa dovrà stare ben attenta a tenere conto della dimensione razionale ed emotiva, della creatività e del bisogno di riferimenti normativi. Il tema dell’incul­turazione, della capacità di saper “battezzare” alcuni elementi cul­turali che lasciano spazio al Vangelo, diventa pregnante non solo nel paesi di missione, ma anche nei nostri contesti.
Pensare alla vita come vocazione permette di tenere insieme, in un quadro unitario, diversi aspetti della vita che, all’apparenza, possono essere anche contraddittori e difficilmente armonizzabili.
Vivere la vita come vocazione significa rispondere a Dio che chiama e ama l’interezza della nostra vita, i pensieri e le emozioni, la rete delle relazioni e le capacità, i desideri e i limiti.

3.4 La ricerca di essere riconosciuto, di essere speciale
Nelle periferie, proprio perché a volte anonime e spersonalizzan­ti, le persone hanno bisogno di uscire dall’anonimato, di costruir­si un’identità, di sentire che sono particolari, e non un numero o un membro senza volto tra la folla. Anche nel momento della sof­ferenza, situazione tipica delle periferie esistenziali, la persona ha bisogno di essere riconosciuta nella sua individualità, nell’unicità della sua condizione, nella particolarità del proprio vissuto. Chi ha vissuto il dramma della separazione vuole essere visto non come un “separato”, ma come Giovanni o Michele o Andrea che è portatore di una storia. Una donna che ha abortito prima di tutto è Chiara o Sabrina o Sandra, con una storia unica e speciale, segnata da dubbi, sofferenze, ferite…
Le proposte pastorali che si limitano ad essere eventi di fol­la dove manca il rapporto personale e la proposta individuale ri­schiano di non essere accolte. Anche i rapporti che hanno una natura amministrativa o legata solo al ruolo, non corrispondono al bisogno di essere riconosciuti nella propria specialità. L’atteggia­mento clericale che organizza le persone in categorie e classifica i comportamenti in base a “valori non negoziabili”, lascia poco spazio per avvicinare ogni persona individualmente e nella sua situazione personale.
Una pastorale che sappia rispondere al bisogno di essere rico­nosciuti e di essere speciali deve essere centrata sulla persona e sulla cura dell’individuo, deve prevedere la possibilità di parte­cipare e di esprimere la propria esperienza, deve tener conto del bisogno di essere rassicurati circa la stima di sé. Il Convegno Ec­clesiale di Verona ha mosso un passo importante nella direzione di una pastorale centrata sul soggetto, piuttosto che sugli ambiti e sulle attività, ma la ricezione del nuovo orientamento non è per nulla semplice.
Il concetto stesso di vocazione richiama all’unicità della propria identità, della propria storia e del proprio posto nel mondo. Pensa­re che Dio chiama ciascuno personalmente e per nome, significa riconoscere l’unicità di ogni suo figlio. Quando si parla di vocazio­ne, non bisogna ridurre la questione della chiamata semplicemen­te alla scelta dello stato di vita o del proprio ministero all’interno della comunità ecclesiale. Il vangelo della vocazione afferma che ciascuno ha una parola, un’immagine, un concetto attorno al quale organizzare tutta la propria esistenza… Oltre allo stato di vita e alla scelta di un ministero, c’è una vocazione personalissima e unica. Si è chiamati non solo ad essere sacerdoti o sposati, ma si è chiamati a vivere la parola “vita” o “paternità” o “misericordia” o “bellezza”… nel proprio essere sacerdoti o sposati. Per chi vive il matrimonio è evidente che non esistono due famiglie uguali, perché, se non altro, gli sposi e i figli sono diversi… Allo stesso modo anche chi vive la chiamata al sacerdozio o alla vita consacrata e missionaria vive l’u­nicità di un’identità che diventa missione personalissima2.

3.5 La ricerca della trascendenza
Nella periferia della società e dell’esistenza, a volte, ci si sente soffocare o per l’aria pesante, segno di una mancata cura dell’am­biente, o per la difficoltà a cogliere strade su cui incanalare la spe­ranza, o per un contesto abitato da persone che condividono la stes­sa fatica e la stessa situazione. C’è il bisogno di cambiare orizzonte, di elevare lo sguardo in una direzione diversa, di superare i limiti che sembrano opprimenti. Questo bisogno di cambiamento può es­sere visto come una ricerca della trascendenza, di un oltre, di un superamento.
È un bisogno spirituale molto profondo che si esprime nel ri­cercare qualcosa dietro l’evidenza, l’immediato, il familiare, il con­trollabile e il materiale. Magari in modo piuttosto primitivo e non sempre esplicito, si ricerca una risposta agli interrogativi ultimi della vita, qualcosa che possa cambiare la propria esistenza in maniera significativa. A volte questa ricerca si appassiona al misterioso, non distinguendo bene tra gli avvistamenti di UFO, la rivelazione pri­vata, le tradizioni religiosi, la profonda e sana dottrina spirituale, il profetismo e il messianismo.
Spesso si ha l’impressione che le persone in genere non siano coscienti di ciò che la Chiesa può offrire in termini di saggezza spi­rituale. È più comodo rivolgersi altrove piuttosto che cercare nella ricchezza del proprio patrimonio cristiano. Qualcuno si sente sco­raggiato quando ricerca la trascendenza nel mondo cristiano perché vede nelle nostre strutture un’insistenza unilaterale sulle questioni morali, o sugli aspetti istituzionali della Chiesa. Molto spesso que­sta insistenza non è reale, ma è piuttosto il luogo comune diffuso dai mezzi di comunicazione; comunque, fa da ostacolo a chi cerca qualcosa di più.
C’è anche la paura di essere presi in giro o giudicati “strani” se si condivide la propria esperienza spirituale o religiosa, tanto da non discuterne con nessuno, arrangiandosi in un “fai da te” di fronte alle risposte ultime e più importanti.
Sembra scontato che le nostre proposte pastorali siano indiriz­zate ad un incontro con il mistero trascendente, ma non sempre vengono vissute così. Sembra che i Movimenti siano più in grado di offrire il senso di salvezza, l’esperienza concreta del dono dello Spi­rito, un linguaggio per poter esprimere e approfondire le domande ultime in un contesto in cui ci si capisce, le occasioni per un con­tatto con il Trascendente nella preghiera e nell’ascolto orante della Scrittura. In questo senso i Movimenti sono una risorsa importante per chi, altrimenti, si rivolgerebbe anche al di fuori della Chiesa per dare una risposta a queste istanze.
Mantenere una prospettiva vocazionale in tutta la pastorale aiuta a non smarrire il richiamo costante alla trascendenza nella molteplicità delle proposte e delle iniziative. Sapere che la pro­pria vita non si spiega da sola, ma che, per essere comprensibile, richiede di essere letta alla luce del mistero trascendente di Dio, è una buona notizia per chi vive col rischio di soffocare nel proprio orizzonte. La vita, in quanto tale, è mistero, luogo dell’incontro con la trascendenza di Dio che irrompe nel quotidiano anche at­traverso alcune esperienze profondamente umane come il gioco, il riso, il dono3.

3.6 La ricerca di partecipazione e di impegno
Nelle periferie, a volte, si respirano atmosfere depresse e sen­za speranza ma, altre volte, proprio nelle periferie, proprio in chi è messo maggiormente alla prova, proprio per chi riesce a vedere in modo più spudorato e senza filtri la realtà, emerge un bisogno di partecipazione e di impegno nella speranza di poter cambiare il proprio presente. L’impressione di chi visita le periferie economiche del nostro mondo molto spesso è proprio quella di un surplus di speranza che spinge ad impegnarsi nel cambiamento.
Nelle piccole e vivaci comunità che abitano le periferie c’è la voglia di partecipare alle decisioni, alle previsioni, alle realizzazioni, c’è il desiderio di essere testimoni attivi, evangelizzatori, promoto­ri di un modo nuovo di stare insieme. Questo lo si verifica anche conoscendo le giovani Chiese, meno segnate dal clericalismo e con più spazi offerti alle iniziative del mondo laicale.
Le nuove comunità sembrano proporre una missione concreta per un mondo migliore, un invito a una donazione totale, una par­tecipazione a più livelli. L’esigenza della proposta, anziché allonta­nare, come temiamo, rende invece attraente la proposta stessa.
Pensare alla propria vita come risposta ad una chiamata di Dio che mi invita a porre le mie energie, le mie risorse, i miei talenti, la mia identità, a servizio della costruzione del suo Regno, è sicuramente una prospettiva entusiasmante di partecipazione e di impegno. An­nunciare il vangelo della vocazione, che pensa all’esistenza di ogni persona come importante in quanto voluta da Dio e capace di col­laborare alla costruzione del regno, aiuta anche ad uscire da alcune prospettive clericali che rispondono più alla logica della casta che a quella della promozione dei carismi. La proposta alta ed esigente del­la vita come vocazione, se non si cade nello spiritualismo, può essere l’asse attorno al quale ordinare i propri impegni e le proprie capacità.

3.7 La ricerca di una direzione spirituale
I bisogni di appartenenza, di risposte, di integrità, di riconosci­mento, di trascendenza, di impegno che si respirano in modo più chiaro nei contesti periferici della vita, rimandano ad un bisogno di essere accompagnati personalmente, con delicatezza e forza. È il bisogno di direzione spirituale.
La ricerca di direzione può emergere dalla mancanza di aiuto da parte dei genitori nelle famiglie di coloro che sono alla ricerca, o dalla mancanza di pazienza, di impegno personale da parte dei responsabili della Chiesa o degli educatori, troppo impegnati ad or­ganizzare attività, piuttosto che ad accompagnare le persone.
Le comunità evangeliche, come i nuovi Movimenti religiosi, na­scono dall’intuizione di qualche leader che si offre come guida. Cer­to, il riferirsi ad un guru, ad un leader carismatico è estremamente rischioso perché, facilmente, queste figure vengono idealizzate e ciò apre la strada allo sfruttamento di chi assicura sottomissione. Tutta­via il bisogno di avere un punto di riferimento personale, capace di accoglienza, di ascolto e di guida, è molto chiaro e non può essere trascurato.
La pastorale vocazionale non può esistere senza la presenza di persone, sacerdoti, consacrati e laici, che siano capaci di compagnia spirituale nel viaggio che esplora la chiamata alta all’amore che è la vocazione.
La guida si deve formare adeguatamente. È proprio l’educatore stesso lo strumento primo della pastorale vocazionale e dell’accom­pagnamento. Perché gli accompagnatori spirituali siano efficaci, an­che muovendosi tra la casa e la periferia, devono aver lavorato ab­bondantemente sulla propria esistenza e sulle proprie zone limite, per poter aiutare gli altri a scoprire i desideri che li abitano.

4. Gesù nelle periferie
La vita di Gesù è stata un continuo muoversi tra le case e le peri­ferie del suo tempo. Gesù ha abitato la propria casa, le case private, le sinagoghe, il tempio, ma, allo stesso tempo, ha esplorato le peri­ferie muovendosi in Samaria e nella zona di Tiro e Sidone; soprat­tutto ha frequentato le periferie esistenziali incontrando lebbrosi, stranieri, samaritani, ladroni, pubblicani, prostitute, adultere… Pro­prio a loro, che presentavano in modo più esplicito i corto circuiti della logica farisaica, ha annunciato il vangelo della vocazione e della misericordia che diventa buona notizia per tutti. Muoversi tra la casa e la periferia è imparare da Lui perché ciascuno si incontri con il vangelo della vocazione.

NOTE
1 Segretariato per l’unione dei cristiani – Segretariato per i noncristiani – Segretariato per i noncredenti – Pontificio Consiglio per la cultura, Il fenomeno delle sette o nuovi movimenti religio­si, 7 maggio 1986, Enchiridion Vaticanum, X, nn. 371-442. L’analisi dei bisogni ai nn. 390-399.
2 Su questo tema una buona sintesi si trova in H. Alphonso, La vocazione personale, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 2002.
3 Pagine molto bello sul mistero che è la nostra esperienza umana in F. Imoda, Sviluppo umano. Psicologia e mistero, EDB, Bologna 2005.