N.01
Gennaio/Febbraio 2014

«Mio padre era una arameo errante» (Dt 26,5) Aspetti biblici del “viaggio”

La condizione “esodale” è tema dominante nei racconti della sa­cra Scrittura1. Esso fotografa lo sviluppo dell’identità dell’uomo biblico e della sua cultura nomadica. L’“esodo” di Israele non è solo l’evento fondatore della nascita del popolo ebraico, ma dell’in­tera storia della salvezza, culminata nel mistero pasquale. Rileggere la Bibbia attraverso il motivo del “viaggio” aiuta a cogliere l’impor­tanza del dialogo vocazionale con Dio per l’attualizzazione pasto­rale2. Porremo in evidenza i passaggi biblici più espressivi collegati al motivo del viaggio (pellegrinaggio), articolando il percorso in tre sintetiche tappe: a) la funzione simbolica del “viaggio” nell’Antico Testamento; b) la dimensione “itinerante” della missione di Gesù e della comunità cristiana; c) la pastorale vocazionale: appunti biblici per un buon viaggio.

1. La funzione simbolica del “viaggio” nell’Antico Testa­mento
Fin dalle prime pagine della storia biblica, Israele è presentato come “popolo peregrinante”. La tradizione storico-teologica della propria origine (Dt 26,5: Abramo è definito «arameo errante») ri­chiama l’esperienza del cammino di Israele. Le forme letterarie che indicano la condizione nomadica dei singoli e di un gruppo sociale si collegano con i verbi «recarsi-camminare» (Tb 1,6), «uscire-en­trare-procedere in avanti processionalmente» (jṣ’-bō’- hag: Es 3,10- 12; 19,17; Lv 11,45) e «salire» (‘lh: cf Es 34,24; Ger 31,6; Sal 122,4). Le attestazioni neotestamentarie per indicare chi “esce fuori” dal suo paese e va a soggiornare in un altro ambiente, sono general­mente riassunte nell’uso dei verbi di movimento «uscire, mettersi in cammino» (ekdemeō; apodēmeō), mentre la figura del “pellegrino” è designata con l’espressione parepidēmos (1Pt 1,1; 2,11; Eb 11,13; Mc 13,34). La rilevanza del tema va colta nell’impiego teologico del “viaggiare”. Esso implica un cammino interiore verso Dio che chia­ma a un progetto. Mettersi in viaggio significa “rispondere” all’ap­pello del Signore e vivere nella sua fedeltà. Segnaliamo alcune tap­pe che caratterizzano il motivo anticotestamentario del viaggio e ne mostrano l’evoluzione teologica.

1.1 L’esperienza patriarcale e l’esodo
La testimonianza dei cicli patriarcali della Genesi evidenzia quanto la memoria religiosa contenuta nelle tradizioni ebraiche fosse legata alla categoria del viaggio e del pellegrinaggio. Oltre al pellegrinaggio di Giacobbe con la sua famiglia a Betel (Gen 35,1-8), più volte vengono presentati patriarchi in cammino verso diversi santuari, alture e luoghi sacri (Gen 12,6; 18,1; 26,23-25; 28,12). Lo sviluppo del motivo del viaggio è testimoniato nella letteratura storica mediante le attestazioni di assemblee religiose e santuari di varia importanza. Tra questi vanno ricordati i santuari di Sichem (Gs 24, 25; Gdc 9,6; 1Re 12,1-9), Betel (1Sam 10,3; 1Re 12,29ss.; Am 5,5; 7,13) e Bersabea (Am 5,5).
Tuttavia l’evento fondatore dell’identità di Israele è rappresen­tato dalla liberazione dei “figli d’Israele” e dalla storia dell’esodo. Si può affermare che l’esodo segna una svolta nella coscienza dell’i­dentità del popolo “nomadico”, che accoglie Dio come liberatore e salvatore. Se Dio agli inizi si era manifestato all’umanità come “Dio” (’Elohîm), poi ai patriarchi come “Dio Onnipotente” (’El Shad­day), nell’esodo si fa conoscere come Jhwh. Egli si presenta come liberatore, chiamando Mosè e definendo per la prima volta Israele come suo popolo (Es 3,7s; 5,1). Jhwh ascolta il grido degli oppres­si (cf 2,23-25) e si mette in cammino con loro. L’aspetto cruciale è il legame indissolubile che Dio crea tra la sua identità e quella d’Israele tramite la missione “itinerante” di Mosè (3,14-15). Il Dio d’Israele non sceglie una nazione potente, ma trasforma i figli di Israele, schiavi disperati e senza “nome”, in una «nazione santa», in un popolo «in cammino» (Dt 4,34; 7,7-8). Il compito d’Israele è di “ascoltare” e “credere” in Mosè come inviato di Dio, e di vivere il viaggio di liberazione sotto la protezione di Jhwh (4,30.31; 14,31).
Nel racconto dell’esodo il viaggio inizia dalla celebrazione della prima Pasqua (preparazione per la partenza), memoriale della libe­razione per tutte le generazioni (Es 12) e dal miracolo del passaggio del mare (Es 14). Il cammino nel deserto verso il Sinai (Es 15,22- 18,27) costituisce una sorta di tirocinio mediante cui Jhwh educa il suo popolo e lo coinvolge nel patto di alleanza presso il monte Sinai (Es 19-40). Durante il lungo peregrinare nel deserto, Dio esige il totale affidamento d’Israele, facendo capire il primato del Donato­re sui doni. L’esperienza del viaggio diventa scoperta della compa­gnia fedele di Jhwh, che si rivela «medico» (Es 15,26), «nutrice» (Es 16,29), «vessillo» (Es 17,15), «signore in mezzo al suo popolo» (Es 17,7) e «liberatore più grande di tutti gli dei» (Es 18,10-11). Jhwh è il Dio che «cammina» con la sua gente (Es 33,15; Dt 8,2-8). Nel cuore di ciascun ebreo rimarrà sempre la memoria di un “grande viaggio”: l’esodo della salvezza.

1.2 La stabilità nazionale
L’instaurazione della monarchia determina un processo di seden­tarizzazione e di centralizzazione cultuale che vede Gerusalemme e il tempio salomonico diventare meta di viaggi e di pellegrinaggi. La memoria di Israele “errante” si declina con il rito del pellegri­naggio. In tal senso è riletta la conquista della Città santa (1Sam 5) e la descrizione trionfale dell’ingresso dell’arca dell’alleanza in Gerusalemme (2Sam 6). Le alterne vicende politico-militari della monarchia israelitica non diminuirono l’usanza dei viaggi religiosi, anche se nacquero nel contrasto tra i due regni ulteriori santuari locali (Betel, Dan, cf 2Re 12,26-33) di carattere idolatrico. Con la riforma religiosa di Giosia ed Ezechia si soppressero i santuari lo­cali (2Re 18,4.22) e si fissò a Gerusalemme il calendario delle feste ebraiche (Pasqua, Settimane, Capanne, cf 2Re 23; Dt 16,1-17), che diventò occasione per riorganizzare le assemblee religiose, raduna­re il popolo e compiere i pellegrinaggi presso il tempio (cf il monte Sion: Is 2,1-5; Mic 4,1-3; Sal 87). Mentre il tempio è attivo, la pratica del pellegrinaggio a Gerusalemme costituisce un segno importan­te dell’identità religiosa del popolo eletto, motivo di preghiera e di difesa contro le influenze idolatriche provenienti dai popoli vicini. Alla stabilità nazionale succede la dissoluzione del regno e la di­struzione del tempio (2Re 25). Molti ebrei sperimentano il viaggio dell’esilio, una nuova condizione di schiavitù e di oppressione.

1.3 L’esilio
La tragedia dell’esilio rappresenta un momento critico della sto­ria e dell’identità spirituale di Israele. La distruzione del tempio (2Re 25,8-17), l’esperienza devastante della divisione, della morte e del­la deportazione dei reduci, il fallimento di una fedeltà che si cre­deva indistruttibile, hanno lasciato un segno indelebile nell’animo dell’israelita che sempre fa memoria dell’evento nella preghiera (Sal 74,7-9). La fine della liturgia templare e la conquista di Gerusalem­me da parte dei nemici significano che Jhwh ha rotto l’alleanza con il suo popolo (cf Ez 10-11) e che a sua volta Israele è chiamato a «ritornare a Dio» (Ger 3,14-18), a rifare il «cammino della fede» per ritrovare la pace (Is 52,7-10). Dopo il ritorno dall’esilio babilonese, i reduci riebbero la consapevolezza dell’importanza di Gerusalemme, del suo tempio ricostruito (Es 6) e delle festività che celebravano la rinnovata fedeltà di Dio per il suo popolo.

1.4 Il nuovo esodo
Rifare il cammino verso Gerusalemme è come un «nuovo eso­do» (cf Is 40,3; 41,17-20; 42,7-16; 51,9-16). In una terra ormai sog­giogata da imperi stranieri, la comunità israelitica vive come “pel­legrina”, sperimenta l’umiliazione («poveri di Jhwh») e invoca il compimento della salvezza. Non c’è più la presenza di un regno, ma rimane l’attesa del messia che rialzerà le sorti del popolo eletto. Il motivo del “viaggio” diventa una chiave interpretativa del cammi­no di speranza e di attesa del popolo. Una testimonianza indicativa è contenuta nella collezione dei salmi delle ascensioni (Sal 120- 134), che presenta un ricco quadro di motivi legati alla “spiritualità del viaggio-pellegrinaggio”. La riflessione sapienziale si unisce alla dimensione profetico-escatologica e sull’esempio dei pellegrinaggi si pensa e si attende l’apparizione finale di Jhwh, l’arrivo del suo giorno (Sof 1,14.16), nel quale tutti i popoli si uniranno come in un pellegrinaggio verso il monte Sion (Is 2,2-5; Zac 14,16-19), dove il Signore realizzerà la salvezza e la pace universale (Tb 13,11).

1.5 La diaspora
Un’ultima tappa è rappresentata dal fenomeno della diaspora, seguita alla violenta reazione delle truppe romane nel corso del I secolo d.C. Infatti, con la conquista romana e la doppia presa di Ge­rusalemme (69-70; 133 d.C.) si consuma definitivamente la vicen­da nazionale del popolo ebraico e l’idea del viaggiare assume un ul­teriore significato: il popolo, disperso in mezzo a tutte le genti, vive come in un viaggio-pellegrinaggio permanente e, pur attestandosi nelle diverse città e regioni del mondo, rimane per natura “errante” sulla terra. A nessun ebreo della diaspora è concesso di dimenticare la propria nazione e la sua città santa, così come nessun esiliato poteva lasciar cadere dal suo cuore il ricordo di Gerusalemme (Sal 137,4-6). Il ricordo di Gerusalemme e la sofferenza del suo popolo si fanno desiderio struggente nel cuore di ogni ebreo pellegrino. Così la celebrazione della Pasqua fa ripetere al capo famiglia, al ter­mine del seder pasquale, lo struggente desiderio dell’ultimo viaggio verso la città di Dio: «Quest’anno schiavi qui in terra straniera, il prossimo anno liberi a Gerusalemme».

2. La dimensione “itinerante” della missione di Gesù
2.1 La missione itinerante di Gesù
La presentazione della missione del Cristo è descritta come un “viaggio” verso la città santa. In particolare è l’evangelista Luca a proporre una “rilettura itinerante” della missione di Gesù, riassu­mendola in un percorso insieme geografico e teologico, che inizia a Nazaret (Lc 4,16-30) e si compie a Gerusalemme (Lc 9,51; 19,28; 24,47). Nel Vangelo il “camminare” è una dimensione costitutiva della rivelazione cristologica. Gesù cammina con il popolo, chia­mando i discepoli (Lc 5,1-11), evangelizzando (Lc 9,1-6; 10,1-20) ed entrando nelle “case degli uomini”. Seguendo l’itinerario pel­legrinante delle “case” che caratterizzano il “salire” di Cristo ver­so il suo destino, Luca presenta la “casa dell’eccomi” di Maria (Lc 1,26-38) e il suo primo “viaggio” verso la dimora di Elisabetta (Lc 1,39-45). La nascita di bambino è collocata dopo un lungo viaggio a Betlemme (Lc 2,1-20) e in seguito la sua vita domestica si svolge a Nazaret, dove Gesù «cresceva e si fortificava, pieno di sapienza» (Lc 2,39-40). Luca narra in forma solenne l’inizio del ministero pubblico nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,16-30), tra i compaesani che respingono la sua Parola. Da quel momento il “camminare” del Cristo (Lc 4,30) diventa compimento del “mandato profetico” (Lc 4,18-19), itinerario di salvezza e di liberazione per i poveri. La meta del viaggio di Gesù è l’uomo, il cuore della gente che si apre al Vangelo, che spalanca le porte delle proprie case per accogliere il «grande profeta» (Lc 7,16) e la sua misericordiosa presenza (Lc 19,9-10). I discepoli condividono il viaggio del Maestro e ne se­guono le orme. Il cammino verso la Pasqua e l’ascensione al Padre costituiscono l’ultimo tratto del peregrinare del Figlio nella storia (Ef 4,9-10). L’icona del viaggio di Emmaus illumina meraviglio­samente la condizione dei credenti e la missione della comunità cristiana (Lc 24,13-35).

2.2 La comunità come “Via”
Seguendo il comando del Risorto, la comunità si espande da Ge­rusalemme fino agli «estremi confini della terra» (At 1,8). I cre­denti non si sentono più legati in un luogo terreno (cf Gv 2,19.21; 4,21-23), ma sono chiamati a vivere l’esperienza cristiana come un “cammino” escatologico (2Cor 5,6ss.; Eb 13,14). La nuova valen­za conferita all’idea del viaggio congiunge la categoria temporale e quella spaziale non più finalizzata ad un calendario o ad un luogo sacro, ma al mandato evangelico e alla sua diffusione universale.
La descrizione della vita della comunità cristiana svolta nel li­bro degli Atti fotografa la condizione nuova dei cristiani, inviati ad evangelizzare i popoli nei luoghi più lontani del mondo abitato. Con il dono dello Spirito nella Pentecoste (At 2,1-13) si schiude la strada dell’evangelizzazione: dalla Giudea, verso la Samaria, sino ai confini della terra. Il movimento cristiano nascente è denominato la «Via» (hodos: At 9,2; 18,25; 24,22) e i credenti hanno ormai la con­sapevolezza di aver trovato la strada che non è più la Legge antica, ma la persona del Cristo crocifisso e risorto (cf Gv 14,6).

Prima Pietro e in seguito Paolo diventano i propagatori della “parola del Vangelo”, mettendosi in cammino verso le città ebrai­che e pagane. È in particolar modo l’Apostolo delle genti che ri­legge il suo servizio al Vangelo come un «viaggio» verso Dio3. L’infaticabile esperienza missionaria paolina diventa una tangibile dimostrazione del cambiamento di prospettiva apportato al movi­mento cristiano. Paolo si definisce e si presenta nelle vesti di un pellegrino «in corsa» (1Cor 9,24-27), dall’ora cruciale del suo in­contro con il Signore sulla via di Damasco (At 9,7) fino all’epilogo di un’esistenza spesa per Cristo (2Tm 4,6-8). Il motivo del viaggio è più volte rievocato nelle lettere neotestamentarie per esprimere la forza propulsiva della fede cristiana e della sua operosità. Essa è intesa come «movimento in avanti» (2Tes 4,17), dinamismo itine­rante (Gal 5,16; Ef 5,2; Col 2,6), corsa verso una meta (At 20,24; Eb 12,1; 2Tm 4,7), strada aperta per l’evangelizzazione (Rm 1,10). La comunità dei credenti non si basa più sulla distinzione etnica dei suoi membri (Gal 3,28), né su antichi riti di purificazione (Gal 5,6- 11), ma si autocomprende come «popolo straniero e pellegrino» (1Pt 2,11), a somiglianza di quanti per fede decisero di mettersi in cammino per obbedire alla voce di Dio (Eb 11,13). Questo pellegri­naggio è da intendersi come “terzo esodo”, dopo quello dall’Egitto e da Babilonia, che accade mentre la storia va verso il suo com­pimento (2Pt 3,5-17). Secondo questa visione, i credenti vivono al presente un permanente pellegrinaggio verso la Gerusalemme celeste (Gal 4,25; Eb 12,22; Ap 3,12; 21,2.10) e senza fuggire la sfi­da della storia, camminano in questo tempo penultimo aspettando l’incontro con «Colui che viene», l’Ultimo e il definitivo (Ap 1,8).

3. La pastorale vocazionale: appunti biblici per un buon viaggio
La ricchezza dei contenuti biblici evidenzia come il motivo del viaggio si coniuga con il cammino pastorale delle nostre comunità. I credenti sono invitati a guardare all’esperienza ecclesiale come una realtà in movimento. La pastorale vocazionale risulta efficace quan­do aiuta a coinvolgere i credenti in “una storia di pellegrinaggio”, che permette la condivisione e la compagnia della vita, suscitando un’autentica ricerca di Dio4. Parafrasando la metafora biblica del viaggio, segnaliamo quattro atteggiamenti che fondano un auten­tico percorso vocazionale: Scegliere di “farsi pellegrini”; Prepararsi a partire; Imparare a camminare insieme; Desiderare la meta.

3.1 Scegliere di “farsi pellegrini”
La sorgente vitale di ogni viaggio sta nella decisione di “mettersi in cammino” e di accettare lo status proprio del pellegrino con tut­te le sue rinunce. Si diventa “viaggiatori secondo il cuore di Dio” solo se si sceglie intimamente di partire e tale scelta coinvolge tutta la persona. È questa la prima condizione testimoniata dai racconti biblici. Come Abramo, chiamato da Dio a lasciare la propria terra, obbedì alla vocazione e si mise in cammino verso una nuova real­tà (Gen 12,1-4), così il credente comincia con un preciso appello vocazionale che chiede di rimettersi in discussione e di lasciare le proprie certezze per un disegno più grande. In questo senso “farsi pellegrino” implica un atteggiamento di fiducia, di affidamento, di risposta di fede e di apertura alla speranza.

3.2 Prepararsi a partire
La preparazione è il momento che precede la partenza. Dalla decisione del cuore si passa all’aspetto operativo non privo di tenta­zioni e difficoltà. Chi si accinge a partire per un viaggio deve portare con sé il necessario, svuotarsi delle comodità, avendo chiara la fi­nalità della meta e i mezzi per raggiungerla. L’immagine dello zaino evoca la capacità di “fare sintesi” guardando avanti. Il viaggiatore deve saper fare a meno delle cose ingombranti che ostacolano il cammino. La fase della preparazione diventa già una prima “puri­ficazione” delle motivazioni per le quali si sceglie di camminare. Il viaggio della vita implica l’essenzialità, è contrassegnato dall’impre­vedibilità, così come l’itinerario esodale fu caratterizzato dalla no­stalgia della schiavitù e dall’invito ad una perseverante obbedienza a Dio. Alla preparazione segue la partenza, cioè il distacco dalle pro­prie certezze umane e dalla propria terra. Lasciare una parte della propria storia per affidarla a Colui che ci ha chiamato è la condizio­ne ineludibile del viaggiatore. In questo senso mettersi in cammino significa “farsi povero”, rendersi disponibile alla capacità di ascolto, al desiderio di comunione, alla conoscenza di altri e di nuove realtà. La partenza costituisce la prima grande risposta all’appello di Dio e implica l’abbandono delle proprie comodità e la speranza di poter superare la prova per conquistare la meta.

3.3 Imparare a camminare insieme
Nel corso del cammino, tra le diverse situazioni vissute, si fanno due importanti esperienze. La prima è data dalla capacità di misura­re la propria persona di fronte alla fatica e alla difficoltà di guardare avanti e la seconda è costituita dall’incontro con quanti condivido­no la medesima strada. Non c’è viaggio senza una strada da per­correre, come non c’è strada senza fatica e stanchezza. Il percorso concreto rappresenta un invito a verificare la propria vitalità e a rettificare i propri modi di pensare se stessi e la realtà che ci cir­conda. Si comprende come la qualità del cammino si misura dalla capacità di maturare la dimensione della propria fede e di offrire in dono la propria esistenza. La ricerca di senso, il bisogno di giustizia e di verità, la voglia di scoprire e costruire amicizie sincere, la capa­cità di rispondere all’appello di Dio costituiscono gli aspetti cruciali dell’itinerario educativo, vissuto “insieme” in uno stile di fraternità. Sulla strada non si è soli, ma si sperimenta la compagnia di altri fratelli e sorelle. Sulla strada si fa conoscenza, s’instaurano legami, si condivide la fatica e la festa, si pregusta l’incontro finale. L’altro è un aiuto per conoscermi, per accettarmi, per cambiare in meglio, per vivere l’amore vero attraverso l’ascolto e il servizio. La vocazio­ne espressa nel simbolismo del viaggio va interpretata in rapporto alla comunità e non può mai ridursi ad una dimensione privata e solitaria. «Mai senza l’altro»!

3.4 Desiderare la meta
Il viaggio culmina con l’arrivo alla meta. Le attese della partenza si compiono dopo la fatica della lunga strada e la pazienza del tem­po trascorso nel cammino. È il momento dell’incontro con Dio che produce gioia, ringraziamento, lode. Tre sono i motivi che segnano questa tappa: il fermarsi nel segreto della preghiera, che permette al viaggiatore di affidare la propria vita e gli affetti più profondi a Dio; la memoria del proprio passato e della realtà che ha lasciato alle spalle; l’impegno di conversione e di rinnovamento della propria vita. La meta, condivisa con l’intera comunità, è insieme “punto di arrivo” del viaggio e condizione per ripartire con il cuore trasforma­to dall’incontro. La conquista della meta indica una crescita nella maturità, nella conoscenza di sé, nella consapevolezza delle proprie potenzialità e dei propri limiti. Il viaggio è da intendersi come una prova esistenziale che deve produrre una crescita integrale della persona, infondere la sapienza “dall’alto” fondata sulla fede in Dio, contribuire a superare l’atteggiamento arrogante del sentirsi arrivati e favorire l’apertura del cuore alla capacità di saper costruire il pro­prio futuro. «Arrivare insieme, senza sentirsi arrivati»!

Conclusione
Il motivo biblico del “viaggio” risulta fecondo e attuale per la pastorale vocazionale. Essa è chiamata a definire lo status viatoris dell’uomo e a sollecitare il desiderio di uscire (ekstasi) da se stessi per andare verso l’Altro. In questo senso la vocazione può essere intesa, analogamente alla vita, come il grande viaggio di ciascun credente. In definitiva egli si definisce come «homo viator» (G. Mar­cel) in cammino verso la città di Dio (Sant’Agostino). Un ulteriore messaggio proviene dalla stessa etimologia latina del termine “pel­legrino” (peregrinus = “ire per agros”: andare attraverso i campi), con cui si allude alla condizione del viaggiatore non circoscritto dai limi­ti della città degli uomini, ma dinamico e sempre in cammino verso la «patria» dei cieli (Ef 2,12). In questa duplice valenza, terrestre e celeste, l’esperienza del viaggio va reinterpretata come “chiave vo­cazionale” per il nostro tempo e le sue attese.

NOTE
1 Cf A. Nepi, «Esodo», in Dizionario Biblico della Vocazione, a cura di G. De Virgilio, Rogate, Roma 2007, pp. 287-292. L. Alonso Schökel, Salvezza e liberazione: l’Esodo, Dehoniane, Bologna 1997.
2 Cf G. De Virgilio, Raccontiamo le tue meraviglie (Sal 75,2). Dieci categorie bibliche, Cittadella, Assisi 2010, pp. 152-172.
3 Cf G. De Virgilio, La vita come cammino. Dall’estraneità alla comunione nel pensiero e nell’opera di Paolo, in Sulle orme di Paolo. Dall’annuncio tra le culture alla comunione tra i popoli, a cura di G. Bentoglio, (Quaderni SIMI), Urbaniana University Press, Roma 2009, pp. 93-124.
4 Cf G. De Virgilio, Raccontiamo le tue meraviglie (Sal 75,2). Dieci categorie bibliche, cit., pp. 169- 172.