N.06
Novembre/Dicembre 2014

Torneranno i prati

Regia: Ermanno Olmi
Fotografia: Fabio Olmi
Scenografia: Giuseppe Pirrotta
Costumi: Andrea Cavalletto
Interpreti: Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Andrea Di Maria, Francesco Formichetti, Camillo Grassi, Niccolò Senni, Domenico Benetti, Andrea Benetti, Carlo Stefani, Niccolò Tredese, Franz Stefani, Andrea Frigo, Igor Pistollato
Distribuzione: 01
Durata: 80’
Origine: Italia, 2014

Nel Centenario dello scoppio del primo conflitto mondiale, Ermanno Olmi torna dietro la macchina da presa per ribadire il suo deciso «No!» alla guerra, che distrugge gli uomini e che, con la conseguente retorica della vittoria, ne cancella perfino il ricordo. Ha dichiarato a questo proposito il regista: «Le versioni ufficiali? Non sono mai credibili, e le bugie, gli atti di prudenza non devono essere taciuti. Dobbiamo sapere e conoscere cosa accadde allora, perché se non è sincera come può la Storia esserci maestra?». Il film ha preso ispirazione dal racconto La paura di Federico De Roberto (1921).

La vicenda – È ambientata sul fronte Nord-Est, dopo gli ultimi sanguinosi scontri del 1917 con le truppe austriache, e ha la durata di una notte. In un avamposto delle linee italiane c’è un gruppo di soldati comandati dal capitano Emilio. La situazione è critica: la neve altissima, il freddo, l’influenza stanno tormentando quel manipolo di uomini che sembrano rassegnati a tutto. Arrivano all’avamposto un maggiore e un tenentino con l’ordine di trovare un nuovo punto d’osservazione. Nel tentativo di eseguire tale ordine, un soldato viene ucciso, un altro preferisce suicidarsi, finché il capitano si ribella e decide di non ubbidire, ben sapendo a che cosa va incontro. Più tardi il nemico sferra un micidiale cannoneggiamento che porta nella trincea devastazione e morte. Poi, inaspettatamente, l’ordine di ripiegamento. Solo pochi restano a seppellire i morti e a curare i feriti. Mentre il tenentino scrive alla madre una lettera sconsolata che suona come una denuncia dell’insensatezza della guerra.

Il racconto – Le prime immagini sono sonore e sono costituite da una musica extradiegetica che accompagna i titoli di testa. Poi c’è un’introduzione che sembra rappresentare una prolessi, un’anticipazione di quello che avverrà di lì a poco: attraverso una serie di dissolvenze vengono messi in risalto soprattutto gli oggetti che fanno parte di quel mondo (la lampada a petrolio, le misere vettovaglie, una mappa, le gavette dei soldati, la foto di una donna, un pacchetto di sigarette, ecc.) e certi gesti che si vedranno in seguito (il mestolo d’acqua nella tazza, gli stivali che vengono scaldati, un tizio – si capirà che si tratta del tenentino – che inizia a scrivere, ecc.). 

Prima parte
Mentre l’immagine visiva rappresenta la montagna completamente innevata, una voce fuori campo (verso la fine si capirà che è la voce dell’attendente del capitano, un soldato che osserva tutto quello che succede con aria mesta e rassegnata, senza dire una parola) presenta la situazione di quel manipolo di soldati: «Siamo sepolti sotto la neve. Anche stanotte ne è venuta tanta: adesso ha uno spessore di quattro metri e mezzo, e ancora non ha smesso di nevicare. Intorno al nostro avamposto gli abeti altissimi sono così carichi di neve che sembrano alberi di Natale». Poi fa notare che, momentaneamente, si è fermata anche la guerra e che i soldati sono tutti impegnati a spalare i camminamenti nella neve per fare arrivare il rancio fin là. Ma poi è prevista la ripresa della guerra: «E da un po’ di giorni sentiamo venir su dal fondo valle il ruggito sempre più rabbioso dei mortai». Le immagini si soffermano sulle bellissime montagne innevate, sul cielo, sulle nuvole, sulla luna piena che rischiara un paesaggio affascinante. Tali immagini contrappuntano tutto il film costituendo un vero e proprio perno strutturale che sottolinea la bellezza della natura (con le sue creature: la lepre, la volpe, ecc.), che verrà violentata dal fragore e dalla distruzione della guerra.
Con montaggio parallelo, per contrasto vengono presentati quattro uomini a cavallo, che vanno verso la trincea, e un soldato che con il suo mulo porta il rancio e la posta. I quattro (sono gli ufficiali che recano gli ordini) sono ben equipaggiati e avanzano lentamente sui loro cavalli; il soldato canta in napoletano delle canzoni che vengono applaudite sia dai soldati italiani che da quelli austriaci.
Poi grida: «Ragazzi, ma che stiamo facendo qua? Andiamo a vivere, amici. Andiamo a cantare tutti insieme. Le canzoni sono più forti delle schioppettate, arrivano dritte al cuore».
Poi ci sono due momenti importanti: la distribuzione del rancio (un mestolo di brodaglia e un pezzo di pane per ciascuno) e la distribuzione della posta. Gli uomini si affrettano a prendere le loro gavette messe a scaldare sulla stufa e accettano in silenzio quel misero pasto; poi fanno la fila con la speranza di ricevere una lettera o una cartolina dai propri cari. Le immagini sottolineano, con alcuni particolari, il visto di censura che appare sulle lettere e l’espressione triste di quel soldato che aspetta invano. Da notare che queste immagini sono intervallate dall’arrivo degli ufficiali che vengono guardati con timore dai soldati, che sospettano l’arrivo di qualche ordine pericoloso.
Il maggiore s’incontra con il capitano che ha la febbre. Questi si lamenta: «Abbiamo chiesto farmaci adatti a questo tipo di influenza e voi ci avete mandato il chinino di Stato. Quasi metà della truppa è bloccata dalla febbre». Il maggiore dice che si tratta di un’epidemia che viene dai Balcani e che si sta diffondendo in tutta Europa. Al che il capitano ribatte: «Adesso siamo in guerra anche con le pestilenze.
In queste condizioni nei prossimi giorni non saremo più in grado di mantenere la posizione». Ma, per tutta risposta, il maggiore gli dice che il Comando del settore Nord-Est ha emanato le direttive in ordine alle operazioni invernali, «con la testuale raccomandazione di tenere alto lo spirito combattivo della truppa e non lasciar poltrire gli uomini nell’ozio». «Caro maggiore – osserva il capitano – la sola direttiva che questi uomini hanno inchiodato in testa è quella della strada di casa». Poi i due si abbracciano, amichevolmente. Il maggiore gli presenta il giovane tenente, un ragazzo colto, «il cui interesse è tutto rivolto alle scienze umanistiche e alla filosofia». Il capitano gli stringe la mano, ma ha già intuito quello che il tenente sta per dirgli e lo anticipa: «E adesso tira fuori questo rospo e deciditi a dirmi quello che non mi vorresti dire».
Nel frattempo le immagini mostrano dapprima le montagne (con un campo lunghissimo) e poi la vita dei soldati nella trincea: le gavette, le calze e gli indumenti appesi vicino alla stufa, il soldato che fa delle pallottoline di pane per attirare un topolino che poi prende delicatamente in mano, ecc. È chiara la contrapposizione, che rappresenta una vera e propria chiave di lettura, tra il mondo dei soldati, che desiderano le cose più semplici, che desiderano semplicemente vivere, e il mondo di chi dispone di loro e delle loro vite.
Non si tratta tanto di quegli ufficiali (il capitano, ad esempio, fa di tutto per difendere i suoi uomini), ma degli ordini che vengono dall’alto e che gli stessi ufficiali devono far rispettare.
Infatti, subito dopo, il maggiore spiega che, avendo scoperto che le comunicazioni con quel caposaldo venivano intercettate dal nemico, era necessario attivare un nuovo collegamento, un punto d’osservazione avanzato: «Al Comando di Divisione hanno scoperto su una mappa austriaca la presenza di un rudere che non compare sulle mappe italiane. E sarà lì il punto d’osservazione». Il capitano reagisce: «Chi ha deciso il posizionamento di questo caposaldo l’ha concepito stando seduto in qualche ufficio dello Stato maggiore copiando planimetrie preesistenti, senza tener conto dei rilievi del terreno». Il maggiore fa presente che entro venticinque minuti dev’essere pronto il collegamento con il nuovo punto d’osservazione.
Ne nasce una schermaglia. Il capitano: «Impossibile eseguire quest’ordine»; il maggiore: «È un dispositivo del Comando di Divisione. Un rifiuto lo sai cosa comporterebbe?»; il capitano:
«Questo è un ordine criminale»; il maggiore: «Non abbiamo alternative, salvo i miracoli». Ma prima che l’ordine venga eseguito, il capitano sviene e deve essere portato dentro. Il sergente chiama un soldato che era a letto e, in dialetto veneto, lo invita ad uscire. Il maggiore gli chiede se è un volontario e lui risponde di no. «Se hai coraggio avrai una licenza e un premio di dieci lire da portare a casa ai tuoi», gli promette il maggiore. Il soldato accetta. Un prete gli dà l’assoluzione. Esce dalla trincea, ma, dopo pochi passi, viene ucciso da una fucilata. Un altro soldato, che sta per prendere il suo posto, mostra la foto dei suoi figli al maggiore: «Io non voglio niente dal mondo. Voglio solo stare qui a poter voler bene ai miei figli». Si fa avanti un altro soldato che vuole sostituirlo e che compie un gesto terribile. Dopo aver urinato dice: «Anche le bestie, quando sentono l’odore del sangue, cagano e pisciano prima di andare al macello. E noi, siamo delle bestie?». Poi continua: «O qua o fuori preferisco crepare qua, signor maggiore. Mi faccia questa carità». Infine prende il suo fucile e si suicida di fronte al maggiore. Il capitano interviene urlando, esasperato, e fa sospendere ogni ordine. Poi ordina al sergente: «Chiami l’appello e notifichi le perdite. Non coi numeri. Voglio i nomi, scriva i nomi dei caduti, uno per uno».
C’è poi un colloquio amichevole tra il maggiore e il capitano. Il maggiore rimprovera amichevolmente Emilio: comportandosi così butta via la sua vita. Ma questi risponde: «Ce la rubano ancora prima di viverla». Il maggiore: «Vedrai che riusciremo a venirne fuori. Abbiamo ancora tanto futuro da vivere. Abbiamo ancora tutti i nostri sogni». Il capitano: «Non c’era la morte nei nostri sogni». Il maggiore: «Finirà anche la guerra. E quando ci saranno le condizioni giuste…»; l’interrompe il capitano: «Non ci saranno mai le condizioni giuste. E poi, a cosa serve che si faccia giustizia dopo. Dopo è troppo tardi». Poi si strappa di dosso le mostrine e le consegna al maggiore: «Rinuncio al grado e mi riprendo la mia dignità». 

Seconda par te
In attesa che venga nominato un nuovo ufficiale al posto del capitano, il maggiore affida al tenente il comando del caposaldo e se ne va. Inizia un periodo di attesa carico di tensione. Ma c’è anche lo spazio per osservare la natura, come nel caso della sentinella che osserva una volpe che tutte le notti passa sotto un larice. Ad un suo commilitone che osserva che il larice è messo piuttosto male, il soldato risponde: «Il larice è una pianta bellissima. In autunno, quando le altre piante diventano del colore della ruggine, il larice prende il colore come quello dell’oro». E improvvisamente, con un’immagine evocativa, l’autore fa apparire quel larice illuminato che sembra veramente d’oro, così come lo immagina il soldato. Ma sarà proprio lo stesso larice, simbolo della bellezza della natura, che finirà bruciato a causa del fuoco nemico.
Le immagini si soffermano a descrivere quei momenti di sospensione: un bengala che viene lanciato nella notte, l’attendente silenzioso, un soldato che si fascia una gamba, la sentinella che guarda fuori dove si vede solo il filo spinato e i pali che lo sostengono, ecc. Ma improvvisamente il rumore degli scoppi si fa sempre più vicino e alcune cannonate arrivano nei pressi della trincea facendo tremare gli oggetti e spaventando gli uomini. Il sergente osserva: «Quando bombardano bisogna tenere la testa occupata, contare i numeri… vedere fino a che numero arrivi tra la botta che hai scampato e quella che viene dopo». Nel frattempo vengono lanciati dal nemico altri razzi illuminanti per informare sugli effetti del cannoneggiamento.
Allora il sergente chiede il permesso al tenente di far schierare gli uomini per sferrare un attacco prima che lo faccia il nemico. Ma proprio quando i soldati stanno per sparare, arriva l’inferno. Alcune cannonate micidiali seminano morte e distruzione. La trincea è semidistrutta; i morti e i feriti non si contano; il sergente piange, ripetendo: «È colpa mia». C’è spazio anche per una bestemmia, così come c’è spazio per le benedizioni dei defunti e la recita del Requiem aeternam.
Poco dopo arriva un messaggio dal Comando di Divisione con l’ordine generale di ripiegamento. Il tenente ordina al sergente di prendere subito il comando della ritirata. Alcuni uomini si mettono in marcia sprofondando nella neve. Altri scavano per seppellire i morti. 

Terza parte
Il morale è a pezzi ed è normale prendersela col Padreterno. Uno impreca: «Si prega, si prega. Può andare a nascondersi il Padreterno». Un altro osserva: «Nessuno sa dove si nasconde il Padreterno, neanche il Papa; Dio non ha ascoltato suo figlio in croce, vuoi che ascolti noi, poveri cani?». Più tardi un soldato, che aveva fatto il minatore, avvisa il tenente che sotto una roccia si sente il rumore di un trapano: «Scavano sotto di noi per farci saltare in aria con una mina». Poi ancora silenzio, attesa, tensione, mentre fuori ci sono solo la nebbia e il filo spinato. Poi, ancora la distribuzione della posta, con una carrellata sui volti dei soldati che sembrano vivere in funzione di quella. C’è anche quello che non riceve niente e piange ricordando il tradimento della moglie. C’è il ferito grave che non vuole essere aiutato: «Lasciatemi stare; sono stufo; voglio riposare fuori sotto l’erba». Il tenente ordina al soldato napoletano che porta la posta di cantare, ma questi non ubbidisce: «Per cantare bisogna essere contenti. Se non tieni il cuore contento nessuno ti ascolta».
Infine il tenente scrive una lettera alla madre. Ripreso con un primissimo piano l’ufficiale incomincia così: «Mia cara amatissima madre, il caso o forse il destino mi ha riservato di vivere dentro una guerra che immaginavo, ma che non conoscevo». Poi, alzando lo sguardo, continua: «Mi trovo in un avamposto d’alta quota. Intorno solo neve e silenzio. La trincea austriaca è tanto vicina che pare di udire i loro respiri». Infine, guardando in macchina (quindi non più scrivendo, ma parlando allo spettatore), conclude: «Sono qui da poco più di un’ora e mi pare di essere diventato di colpo un vecchio, al punto che i miei studi e persino i miei ideali qui hanno perso il loro significato, come la mia giovinezza. Madre amatissima, ci sono giovani come me che muoiono ogni giorno. E anche quelli che torneranno a casa si porteranno dentro la morte che hanno conosciuto. E quel pensiero non li abbandonerà più. Si sentiranno dei sopravvissuti condannati a morire due volte. Ma la cosa più difficile sarà perdonare. Se un uomo non sa perdonare, che uomo è?». Poi, con gli occhi lucidi, abbassa lo sguardo, mentre fuori incomincia una tormenta di neve. 

Epilogo – Appaiono delle immagini di repertorio che rappresentano delle operazioni militari (soldati che corrono, esplosioni, sparatorie, feriti) e degli ufficiali che danno gli ordini. Poi, poco alla volta, si vede un fiume di gente che avanza esultando e arriva in città, salutata dallo sventolio delle bandiere e dall’accoglienza festosa di chi celebra la vittoria. Ma, per contrasto, si vedono anche delle croci che richiamano i tanti caduti in guerra. Si ritorna al presente. L’attendente, che aveva iniziato a raccontare nella prima parte, conclude: «Finita anche questa guerra, tutti ritorneranno da dove erano venuti. E sarà cresciuta l’erba nuova. E di quel che c’è stato qui, di tutto quello che abbiamo patito non si vedrà più niente. E non sembrerà più vero». Le ultime immagini rappresentano quel manipolo di soldati che si stanno ritirando in mezzo alla neve con l’accompagnamento di una musica extradiegetica.
Appare la dedica di Ermanno Olmi: «A mio papà che quand’ero bambino mi raccontava della guerra dove era stato soldato». Ed infine c’è una didascalia con una frase di Toni Lunardi, un pastore amico del regista detto “Toni il matto”: «La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai». Dopo tutti i titoli di coda c’è l’immagine serena della montagna rischiarata da una splendida luna piena. 

Significazione – La prima parte crea una forte contrapposizione: da un lato la vita dei soldati che devono patire il freddo, la paura, il distacco dagli affetti familiari, la morte; dall’altro l’incoscienza, l’irresponsabilità, la stupidità criminale di chi decide di fare le guerre.
La seconda parte mette in risalto la potenza distruttrice della guerra che porta gli uomini alla disperazione, alla perdita della fede, alla bestemmia, al desiderio di farla finita.
La terza parte rappresenta l’evoluzione del tenente che, solo dopo un’ora, prende coscienza dell’orrore della guerra.
L’epilogo si riferisce alla retorica della guerra e della vittoria che contrasta con la realtà, una realtà che rischia di essere dimenticata, come suggerisce anche il titolo del film. 

Idea centrale – Da tutto questo nasce un’idea centrale che potrebbe essere formulata così: la guerra è una cosa disumana perché, a causa dell’incoscienza di chi la dichiara e di chi la dirige, priva tanti uomini delle cose più preziose della vita e della vita stessa; e perché, con la retorica e il trionfalismo frutto della vittoria, priva i caduti anche del ricordo e della pietà.
Non può non venire in mente a questo proposito la frase pronunciata da Benedetto XV: «La guerra è un’inutile strage».
Il film si avvale del linguaggio poetico tipico di Ermanno Olmi, fatto di lunghi silenzi, di ritmi che seguono “il tempo dell’anima”, di una fotografia tra il colore e il bianco e nero che esprime la bellezza della natura e nello stesso tempo la crudeltà della guerra, di frasi sussurrate (spesso in dialetto) che danno il senso della rassegnazione e del dolore, di una recitazione sommessa ed essenziale che esprime la verità di quegli uomini ricchi di umanità e di voglia di vivere. Tutte caratteristiche che non lo rendono fruibile da parte di un pubblico disattento e desideroso di effetti speciali, ma che ne fanno un’opera ascrivibile alla miglior tradizione antimilitarista e un canto appassionato della dignità umana troppo spesso calpestata dai “grandi” della terra.