N.01
Gennaio/Febbraio 2015

La vita consacrata: via di santità

1. Nel contesto della crisi
Rileggere oggi, a distanza di cinquant’anni, il capitolo VI della Lumen gentium dedicato ai consacrati (LG 43-47) e porlo in relazione con la crisi che sta vivendo oggi la vita consacrata evidenzia la realtà di una distanza abissale tra quel testo e l’oggi.
Ancora negli anni ‘60 la vita consacrata era in crescita e LG VI parla della vita consacrata come via consolidata e certa di santità, in termini rassicuranti, ripetitivi, tradizionali, o forse semplicemente, vecchi, colpevolmente inconsapevoli della crisi che di lì a pochi anni si sarebbe abbattuta sull’insieme della vita consacrata.
Le varie famiglie consacrate, dice il testo conciliare, «forniscono ai loro membri gli aiuti di una maggiore stabilità nella loro forma di vita, di una dottrina provata per il conseguimento della perfezione, della comunione fraterna nella milizia di Cristo, di una libertà corroborata dall’obbedienza, così che possano adempiere con sicurezza e custodire con fedeltà la loro professione consacrata, avanzando nella gioia spirituale sul cammino della carità» (LG 43). Il quadro della pratica dei consigli evangelici, dono divino regolato e interpretato dalla Chiesa sotto la guida dello Spirito Santo, appare saldo e incrollabile nel testo conciliare.
Oggi molte congregazioni e istituti languono e sono prossimi alla morte, coinvolti in una crisi che non è solo di mancanza di vocazioni, di assenza di ricambio, di invecchiamento, di necessità di dismissione di opere, di carenza di forze, di trasformazione di case in veri e propri reparti di geriatria, di fallimento dei tentativi di riciclo del carisma e di recupero di vocazioni in paesi stranieri, ma anche di perdita di motivazioni e di ragion d’essere, di frustrazione e di stanchezza, di perdita di speranza e di futuro, di tristezza e di grigiore, come di chi si sentisse irrimediabilmente superato dalla storia. E anche la vita di molte consacrate e consacrati certamente casti, obbedienti e senza nulla di proprio, resta incapace di suscitare fuoco e passione, non lascia trasparire l’entusiasmo per il Vangelo, non narra la bellezza del Vangelo e non ne trasmette la potenza contagiosa.
Di fronte a questo panorama occorre anzitutto operare una lettura evangelica della crisi. Questa, in un’ottica cristiana, non è rilevabile solo con criteri sociologici o quantitativi. Quando non c’è carità, quella carità in cui consiste ultimamente la santità e a cui tendono la condivisione dei beni, l’obbedienza, il celibato, il servizio, ed eminentemente la vita comunitaria. E poiché l’obbedienza si spinge usque ad mortem, anche la morte, personale e comunitaria, di una Congregazione, può essere l’ultimo atto di santità, di narrazione della fedeltà e della sequela del consacrato.
Inoltre ci possono essere comunità fiorenti e piene di vocazioni ma evangelicamente più in crisi perché gelosie e invidie, concorrenzialità e protagonismi uccidono la carità fraterna. Ma il rischio grande è oggi l’insignificanza. Il non saper far risplendere la luce e la gioia del Vangelo in una vita pure (più o meno) irreprensibile sul piano personale.

2. Quale santità oggi?
Sempre la santità nasce dall’apertura al fuoco dello Spirito e alla novità della Parola di Dio all’interno di una struttura antropologica caratterizzata essenzialmente da celibato e vita comunitaria e chiede di divenire Vangelo vivente ponendo al centro della sua vita personale e comunitaria il Vangelo. Tuttavia, come declinare oggi la santità, che è anche evento storico, plasmato in situazioni ed epoche particolari? Come declinare la santità in tempi di crisi?
Anzitutto, facendo tesoro della presenza di un Papa, Francesco, un gesuita, che conosce per esperienza diretta la vita consacrata e i suoi problemi. La riforma che Papa Francesco sta promuovendo nella Chiesa cattolica costituisce il clima propizio per un coraggioso sguardo sulla realtà della vita consacrata e anche per un suo eventuale rinnovamento.

3. Fede e speranza: non arrendersi al visibile, ma osare l’invisibile
Oggi la realtà di crisi chiede grande fede, grande capacità di vedere l’invisibile. «La fede è prova di ciò che non si vede» (Eb 11,1). E qui nasce anche la speranza che è una responsabilità della profezia del consacrato. «Ciò che si spera, se visto, non è più oggetto di speranza; infatti ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,24-25). È vero, questa speranza, oggi nella realtà spesso penosa di tante comunità, avviene in mezzo alle lacrime. Ma proprio in questo c’è la possibilità di una testimonianza evangelica della vera speranza cristiana, quella che si incontra e scontra con il tragico della vita.
La speranza spera l’invisibile, dunque l’eterno (2Cor 4,17-18). L’oggetto della speranza è sottratto al potere di chi spera, non gli è disponibile1. La speranza non spera ciò che è razionalmente prevedibile, ma suppone un’assenza e un ignoto, un non possedere e un non sapere. La speranza è umile e povera, soprattutto è degli umili e dei poveri. La santità a cui sono chiamati i consacrati esige uno spogliamento, un impoverimento, che rende possibile la capacità di speranza, di combattere la tristezza che si oppone alla gioia e chiude il futuro. In certo modo, poi, la speranza suppone anche un non vedere. Eppure la fiducia e la perseveranza che caratterizzano la speranza dicono che essa vede qualcosa. La speranza vede l’invisibile, come Mosè che lasciò l’Egitto senza paura e fece il suo cammino “come se vedesse l’invisibile” (invisibilem tamquam videns). Ma che significa vedere l’invisibile? Forse bisogna chiedersi: come vede la speranza? Gabriel Marcel parla di una forma di visione velata: «Non si può certo dire che la speranza veda ciò che sarà; ma essa afferma come se vedesse; si direbbe ch’essa attinga la sua autorità da una forma di visione velata, ascosa, della quale non può godere, ma su cui può fare assegnamento»2.
Una visione su cui si può fare assegnamento è quella fondata sulla memoria, e quella di cui non si può godere è quella del futuro che ancora ci sfugge. Come certamente sfugge alla vita consacrata una visione del proprio futuro. Forse questa visione velata è quella dell’occhio che piange, dell’occhio velato dalle lacrime. Vede la morte e invoca la risurrezione. Vede il dolore e anela la sua redenzione. Ci si può chiedere: e se il proprio dell’occhio umano fosse il pianto, più che il vedere? Se gli animali con gli occhi vedono, l’uomo sa anche piangere. E anche gli occhi del cieco sanno piangere. «Se le lacrime vengono agli occhi, se possono anche velare la vista, forse rivelano, nel corso stesso di questa esperienza, un’essenza dell’occhio, in ogni caso dell’occhio degli uomini… Nel momento stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell’occhio. Ciò che fanno uscire fuori dall’oblio in cui lo sguardo le tiene in riserva sarebbe niente meno che la verità degli occhi di cui le lacrime rivelerebbero così la destinazione suprema: avere in vista l’implorazione piuttosto che la visione, indirizzare la preghiera, l’amore, la gioia, la tristezza piuttosto che lo sguardo»3. Gli occhi velati dalle lacrime vanno al di là del vedere e del sapere e ci avvicinano «all’essenza delle cose: alla verità, almeno a quella del dolore e della speranza»4. Ecco la nostra speranza in questi tempi di lacrime, di crisi, di difficoltà. Ma questo pianto non disperato si apre al futuro. E aiuta la realizzazione della vocazione alla santità come capacità di luce e di futuro, secondo l’auspicio di Papa Francesco che i consacrati siano «uomini e donne che illuminano il futuro»5.

4. L’umanità di Gesù, l’umanità dei consacrati
È la vita di Gesù Cristo che indica la via di santità che i consacrati sono chiamati a percorrere. La vita di un consacrato, quali che siano le condizioni fisiche personali e le condizioni dell’istituto in cui vive, può tentare di essere una vita umana e umanizzata. Rivolgendosi alle monache di clausura, Papa Francesco ha detto che esse «sono chiamate ad avere grande umanità […]; umane, capire tutte le cose della vita, essere persone che sanno capire i problemi umani, che sanno perdonare, che sanno chiedere al Signore per le persone.
La vostra umanità. E la vostra umanità viene per questa strada, l’Incarnazione del Verbo, la strada di Gesù Cristo»6.
L’umanità di Gesù è il modello di una pratica di umanità di chiunque vive la vita consacrata. Papa Francesco definisce la peculiarità dei consacrati un «essere profeti che testimoniano come Gesù è vissuto su questa terra»7. Ovvero: la santità a cui sono chiamati è vocazione a vivere la propria umanità seguendo Cristo ed è dimensione che trova nell’umanità di Gesù di Nazaret il modello a cui conformare la propria umanità. Si tratta di “seguire Cristo nella sua umanità”, di imparare dall’umanità di Gesù quale emerge dalla testimonianza evangelica. Infatti è l’uomo Gesù di Nazaret che ha narrato Dio ed è nell’uomo Gesù di Nazaret che «abita corporalmente la pienezza della divinità» (Col 2,9); è l’uomo Gesù di Nazaret che i consacrati sono chiamati a seguire in una vita personale e comunitaria, che sia anzitutto umana ed umanizzata. Egli, infatti, «ci insegna a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà» (Tt 2,12).
La chiamata alla santità va declinata come chiamata a diventare umanamente santi. I santi sono, dice il Vaticano II, «i nostri compagni di umanità più perfettamente trasformati a immagine di Cristo» (LG 50). Questa centralità teologica dell’umanità di Cristo deve diventare centralità spirituale per rinnovare profondamente la comprensione la pratica nel concreto della quotidianità. Per questo mi permetto di suggerire una chiave di lettura dei Vangeli che, andando alla ricerca dell’umanità di Gesù Cristo, possa modellare le esistenze. Ci si chieda, leggendo ogni episodio evangelico: qual è l’umanità dell’uomo Gesù? Che umanità esprime Gesù nel suo parlare, nel suo agire, nelle modalità dei suoi incontri con altre persone? Che umanità abita colui che entra nel Tempio e osa scacciarne i venditori degli animali per i sacrifici e rovesciare i tavoli dei cambiavalute? Che pratica di umanità esercita l’uomo che rimprovera i suoi discepoli che allontanano i bambini e che accoglie questi ultimi con tenerezza abbracciandoli? Che umanità manifesta l’uomo che accoglie pubblicani e peccatori, mangia con loro, si lascia avvicinare scandalosamente da una prostituta durante un banchetto in casa di un fariseo e riesce a vedere l’amore là dove tutti i commensali vedono il peccato (cf Lc 7,36-50)? Che uomo è colui che pronuncia parole potenti come le beatitudini (Mt 5,1-12)? Che pratica di umanità vive colui che non esita ad entrare in conflitto con le autorità religiose se si tratta di difendere il primato della volontà di Dio e il diritto dei poveri? Che uomo è colui che non esita a rivolgere parole dure e di rimprovero ai propri discepoli, vedendo la loro poca coscienza, la loro incapacità di ascolto e di comprensione? Che uomo è colui che sa osservare i movimenti delle nuvole in cielo per comprendere il tempo che farà il giorno dopo e che sa osservare la natura traendone insegnamento e consolazione? Che umanità abita l’uomo che incontra tanti malati nel corpo e nella psiche mostrando capacità di con-sofferenza con loro e curandoli con dispendio di tempo ed energie? Che umanità abita colui che non esita a criticare ferocemente pratiche e tradizioni religiose e usanze sacrali come il qorban (Mc 7)? Che uomo è colui che sa leggere e interpretare con estrema libertà la Torah circa l’adulterio e la lapidazione dell’adultera? Che osa controbattere a scribi e farisei, a esperti della Legge, a uomini autorevoli sul piano religioso con parole anche di fuoco? Che uomo è che sa mostrare una libertà così profonda così distante dalle paure, dalle adulazioni, dai timori riverenziali di tanti ecclesiastici oggi e anche dalla gregarietà di tanti consacrati/consacrate? Si potrebbe continuare a lungo.
Il Vangelo appare come scuola di umanità e la vita consacrata è chiamata a declinarsi come vita umanizzata, come vita di maturità umana e cristiana. E la sensazione è che, nella vita consacrata come nella Chiesa, si sia ancora molto distanti dal percepire la conversione radicale che esige questa presa sul serio della pratica di umanità di Gesù attestata dai Vangeli. La Parola di Dio ci raggiunge per riplasmare la nostra umanità a immagine dell’umanità di Dio che è Gesù di Nazaret: questo l’itinerario della santificazione. La parola di Dio, infatti, raggiungendoci, non può che avere un impatto trasformativo sulla nostra umanità. Ciò che Gesù ha di straordinario non è di ordine religioso, ma umano ed è la nostra umanità che deve essere riformata, rinnovata, ricreata dalle energie che provengono dallo Spirito che ha abitato l’umanità di Gesù. Questa la santità a cui i consacrati sono chiamati a tendere.

5. La santità come “uscita”
Ha detto Papa Francesco all’assemblea plenaria dell’Unione internazionale delle superiori generali, il mercoledì 8 maggio 2013:
«Cristo che vi ha chiamate a seguirlo nella vita consacrata e questo significa compiere continuamente un “esodo” da voi stesse per centrare la vostra esistenza su Cristo e sul suo Vangelo, sulla volontà di Dio, spogliandovi dei vostri progetti, per poter dire con san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me!” (Gal 2,20). Questo “esodo” da se stessi è mettersi in un cammino di adorazione e di servizio».
Papa Francesco parla dell’esodo da vivere e da far vivere alle comunità. È essenziale per vivere la testimonianza evangelica e la santità. Questo atteggiamento comporta anzitutto conversione e purificazione. Dunque uscita dai peccati. O meglio, riconoscimento dei peccati, perché solo ciò che si vede, si riconosce e si nomina, può essere emendato. «Se uno non pecca, non è un uomo. Tutti sbagliamo e dobbiamo riconoscere la nostra debolezza. Un consacrato che si riconosce debole e peccatore non contraddice la testimonianza che è chiamato a dare, ma anzi la rafforza, e questo fa bene a tutti. Ciò che mi aspetto, dunque, è la testimonianza. Desidero dai consacrati questa testimonianza speciale»8. E si tratta di autocritica, di riconoscimento di colpe non solo personali, ma anche comunitarie, riguardanti le comunità e gli istituti nel loro insieme. Quali sono gli atteggiamenti che vanno emendati per camminare verso la santità? Occorre uscire dall’inerzia e dalla pigrizia che impediscono di vivere la vita come vita altra, diversa, differente. Dovete essere «testimoni di un modo diverso di fare e di comportarvi, di agire, di vivere» dice con forza Papa Bergoglio9. La vita consacrata trova la sua fecondità nel vivere uno scarto rispetto alla vita normale, anche la vita cristiana normale. Non nel senso che la vita consacrata sia un di più, ma è altro, è vita battesimale, è l’unica consacrazione battesimale vissuta altrimenti. C’è un distacco, uno spogliamento, che è condizione di ricchezza e di fecondità. C’è un distacco fecondo: celibato, povertà e obbedienza trovano qui il loro senso profetico e possono rendere eloquente una vita che altrimenti rischia l’insignificanza.
L’esodo di cui parla Papa Francesco significa anche che occorre cambiare il punto di vista. Da quale punto di osservazione guardiamo le cose, le realtà? La stessa vita comune, la comunità, l’istituto, l’ordine? E sappiamo aprirci allo sguardo di altri? Sappiamo guardare insieme le situazioni, condividere sguardi, opinioni, pareri sulle nostre comunità? Cercare insieme delle vie d’uscita? Se c’è questo sforzo di mettersi a pensare insieme, a confrontarsi insieme, a sentire i problemi gli uni degli altri, con spirito di condivisione fraterna, già questo è fare un buon uso della crisi. Perché già questo è un risultato di fraternità, di condivisione, di apertura reciproca. Se ci chiudiamo in noi stessi, i problemi diventano davvero insolubili.
Occorre uscire dalla autoreferenzialità e dalle gelose chiusure. Il Papa ha detto: «I grandi cambiamenti della storia si sono realizzati quando la realtà è stata vista non dal centro, ma dalla periferia.
Per capire la realtà dobbiamo spostarci dalla posizione centrale di calma e tranquillità e dirigerci verso la zona periferica»10. C’è un ripiegarsi nel chiuso della propria comunità, dell’orticello delle proprie opere, nel coltivare in modo autoreferenziale il proprio carisma che diviene ostacolo all’evangelizzazione, all’essere presenza profetica e testimoniale, di luce e di santità. Guai a confondere istituto e opera apostolica: «Il primo resta, la seconda passa. L’istituto è creativo, cerca sempre nuovi cammini»11. E non si abbia paura di sbagliare.
Il Papa invita ad uscire dallo scoraggiamento, dalla demotivazione che porta a ripiegarsi su se stessi e a non osare più nulla. Il carisma sia vissuto con duttilità, con coraggiosa inculturazione, con adattamento, con innovamento: «Il carisma – dice Papa Francesco – non è una bottiglia di acqua distillata: bisogna viverlo con energia, rileggendolo anche culturalmente. Ma così c’è il rischio di sbagliare, direte, di commettere errori. È rischioso. Certo, certo: faremo sempre degli errori, non ci sono dubbi. Ma questo non deve frenarci. Perché c’è il rischio di fare errori maggiori. Infatti dobbiamo sempre chiedere perdono e guardare con molta vergogna agli insuccessi apostolici che sono stati causati dalla mancanza di coraggio»12. Si osino novità di forme all’interno del carisma che ha come origine prima lo Spirito Santo. Non avvenga che una fedeltà ingessata al carisma del fondatore o della fondatrice divenga spegnimento dello Spirito Santo che soffia oggi in modo rinnovato. Sarebbe un venir meno alla chiamata alla santità.

6. Il coraggio
Il testo appena ricordato parla degli insuccessi apostolici causati dalla mancanza di coraggio. La santità esige coraggio. In altri discorsi Papa Francesco dice: «Il Signore ci chiama ogni giorno a seguirlo con coraggio e fedeltà»13; e ancora, egli parla del profeta come di un uomo «che ha gli occhi penetranti e che ascolta e dice le parole di Dio; […] un uomo di tre tempi: promessa del passato, contemplazione del presente, coraggio per indicare il cammino verso il futuro»14. Papa Francesco vuole scuotere dall’inerzia e dalla pigrizia, dal grigiore in cui a volte si chiudono le esistenze e declina il coraggio come capacità di prendere l’iniziativa. Vi è una dimensione coraggiosa della fede. Il coraggio è la virtù che dà inizio a qualcosa, che crea, che inventa, che osa rischiare e non si lascia irretire dalla paura. E Bergoglio scrive che occorre «iniziare processi più che possedere spazi» (EG 223).
Perché questa attenzione e rilievo dati al coraggio? Perché la grandezza del coraggio, la sua dimensione pienamente etica e umana, sta nel suo condurre una persona a superare l’egoismo per fare, o cercare di fare, il bene di altri compiendo gesti e dicendo parole che mettono a rischio la sua posizione sociale, la sua libertà e perfino la sua stessa vita. Il coraggio mostra che l’uomo è capace di trascendenza, di andare cioè oltre se stesso, di non avere come fine solo il proprio benessere, la propria realizzazione, il proprio tornaconto e la propria sicurezza, ma di saper rischiare se stesso in vista di realtà più grandi: la libertà di un popolo, la vita di una persona amata, la giustizia, i diritti di una minoranza, la dignità della persona umana, il primato del Vangelo. E soprattutto perché il coraggio è una caratteristica dell’amore. Ha scritto Agostino: «Il coraggio è un amore che sopporta facilmente ogni cosa in vista di ciò che ama»15. E il coraggio è necessario nei momenti di crisi e di difficoltà, quando la paura del futuro può paralizzare le forze e l’inventività e condurre ad adagiarsi sul già noto, sulle abitudini.
La vita è ritmata da ripetitività e dunque costellata da abitudini, tuttavia può avvenire che la forza dell’abitudine ci conduca insensibilmente nella situazione in cui non siamo più noi che viviamo, ma è l’abitudine che vive al nostro posto. Avviene come per quei sentieri in terra battuta in un prato o in un bosco aperti dal quotidiano e ripetuto camminare di chi deve raggiungere un dato posto partendo da casa propria. Ovviamente il tracciato del sentiero è il più economico, cioè il più breve, ma, quando il sentiero si è formato, avviene che è il sentiero che guida e porta la persona. E se il percorso che esso disegna ha il vantaggio di essere il più rapido, ha anche lo svantaggio di privare chi lo percorre delle scoperte che potrebbe fare se decidessimo di variare il percorso e fare qualche deviazione.
Siamo sicuri che la scorciatoia sia sempre la via migliore? Si pensi a quante volte nelle comunità si sente dire: «Si è sempre fatto così» (cf EG 33). Sì, vi è un coraggio fondamentale: l’accettazione della sfida della vita, il “vivere nonostante”. Il coraggio ci chiede di vivere infondendo vita nell’esistenza, facendo dell’amore l’azione perseverante quotidiana. Anche nei momenti più bui.

7. La creatività
Accanto al coraggio Papa Francesco pone in grande rilievo la creatività. «Invito tutti a essere audaci e creativi» (EG 33). Tutti, anche i consacrati. Ma che cos’è la creatività? Questa facoltà che non è certo consueto trovare tra gli atteggiamenti a cui un documento magisteriale invita. La creatività a cui Papa Francesco esorta “tutti” è un atteggiamento esistenziale, una modalità di rapportarsi al mondo che è appannaggio di ogni uomo e di ogni donna, certo, a misura delle sue doti, ma è un elemento che ogni uomo potrebbe incrementare e coltivare. In che consiste? Essenzialmente, nella capacità di vedere, ascoltare e rispondere. Dove capacità di vedere significa consapevolezza, coscienza. Chiediamoci: siamo davvero capaci di vedere (e non solo di guardare)? Siamo davvero capaci di rispondere a ciò che ci circonda e ci parla: sappiamo ascoltare il linguaggio, le domande che le realtà ci pongono e ci presentano? Il creativo si muove nel mondo come ci si addentra in un dialogo incessante con tutto e con tutti: egli dialoga con la natura e con gli umani, con l’ambiente e con le persone, tutto è per lui non-scontato. Tutto gli rivolge un appello e una domanda. Il mondo esterno non sia motivo di condanna e scandalo, ma di attenzione e cura, di interesse e studio, di amore e passione. L’esempio dell’umanità di Gesù è significativo: Gesù è enormemente creativo. E la santità, così come la vita quotidiana dei consacrati, hanno bisogno di coraggio e creatività.
Oggi più che mai.

NOTE
1 Riprendendo Tommaso, Josef Pieper scrive: «Ciò che è sperato, in senso stretto, è sottratto al potere di colui che spera. Nessuno dice di sperare ciò che egli stesso può fare o provocare» (J. Pieper, Speranza e storia, Morcelliana, Brescia 1969, p. 20).
2 G. Marcel, Homo viator. Prolegomenoi ad una metafisica della speranza, Borla, Torino Leumann 1967, pp. 64-65.
3 J. Derrida, Memorie di cieco, Abscondita, Milano 2003, pp. 152-154.
4 E. Borgna, L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano 2005, p. 114.
5 A. Spadaro, “Svegliate il mondo!” Colloquio di Papa Francesco con i Superiori Generali, in «La Civiltà Cattolica» 3925, I 2014, p. 7.
6 Papa Francesco alle suore Clarisse di Santa Chiara, Assisi, 4 ottobre 2013.
7 Ivi, 7.
8 Ivi, 5.
9 Ibidem.
10 Ivi, 6.
11 Ivi, 7.
12 Ivi, 8.
13 Papa Francesco, Omelia alla celebrazione eucaristica a San Paolo fuori le Mura, Roma, 14 aprile 2013.
14 L’uomo dall’occhio penetrante, meditazione nella Cappella della Domus Sanctae Marthae (16 dicembre 2013).
15 Agostino, I costumi della Chiesa cattolica I,15,25.