N.06
Novembre/Dicembre 2015

Come accompagnare i giovani alle scelte

La riflessione proposta si declina in tre passaggi: 1. il legame tra pastorale familiare e pastorale vocazionale; 2. ciò che è richiesto dalla pastorale giovanile; 3. l’accompagnamento personale ed ecclesiale dei giovani.

1. Il legame tra pastorale familiare e pastorale vocazionale
Si può fare molto per aiutare le famiglie a divenire «il primo e il miglior seminario della vocazione alla vita di consacrazione al Regno di Dio», come ha detto San Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio (FC 53). Questa è una sfida immensa, ma non impossibile.
Due atteggiamenti, intrinsecamente uniti e primordiali sono richiesti a noi: a immagine di Gesù, la prossimità, senza condanna, con le famiglie dei giovani che accompagniamo e la loro evangelizzazione per divenire una vera piccola chiesa domestica, guarita e rinnovata dalla grazia divina, dove potranno sbocciare anche dei santi!
I genitori non sono promotori della vocazione dei figli, né progettisti di essa, ma ne sono i primi testimoni, i primi guardiani che vegliano, che incoraggiano e che confermano. Può anche succedere che non siano cristiani, o che resistano, o che non siano d’accordo con la vocazione dei propri figli. Questi atteggiamenti diversi sono la ragione per la quale noi, animatori della pastorale vocazionale, dobbiamo avere una grande cura del legame con i genitori e con le famiglie dei giovani che incontriamo, naturalmente con prudenza e secondo i consigli dello Spirito Santo per ogni situazione. La voce del Signore, che risuona nel cuore del giovane, ci aiuta a non avere paura delle difficoltà, come pure delle irregolarità presenti nelle famiglie. Siamo convinti che la nostra vicinanza alle famiglie è la vicinanza stessa di Gesù ad esse, attraverso la sua Chiesa. Mandati nel suo Nome, lo rendiamo presente ai genitori, ai fratelli e alle sorelle. Sentendosi allora amati dalla Chiesa, sentiranno l’Amore di Dio per loro. In un secondo tempo, tale prossimità ci aiuterà a conoscere l’humus umano e cristiano del giovane; e aiuterà anche i genitori a dare uno spazio, ad aprirsi a una libera scelta da parte del figlio o della figlia. E questa prossimità con le famiglie si prolungherà nel tempo del Seminario o del Postulato. Andare nelle periferie vuol dire raggiungere le famiglie che si sono allontanate dalla Chiesa o che hanno pregiudizi al riguardo. Se la famiglia cristiana è un terreno ottimo per far germogliare una vocazione, non dimentichiamo mai che Dio è libero di chiamare in ogni luogo, e spesso anche laddove non ci si aspetta…
Nella storia di Samuele e nell’aiuto ricevuto per rispondere alla chiamata del Signore, egli ebbe la guida del sacerdote Eli, che era già molto vecchio, che stava indebolendosi, e che, soprattutto, mancava di autorità di fronte ai propri figli, non avendoli corretti per i loro gravi peccati (cf 1Sam, capp. 2 e 3). Ma non dimentichiamo che, prima di Eli e in maniera costante, c’erano anche i genitori di Samuele: Anna e Elkana, una coppia che si amava molto, che aveva una grande pietà filiale verso Dio, adorandolo, offrendogli sacrifici, con il desiderio di prendere sempre sul serio la sua santissima volontà. Per di più Anna, sterile, supplicava Dio perché ricevesse un figlio, che avrebbe poi dato al Signore. E dopo che Dio ebbe esaudito la sua preghiera, la vediamo rendere grazie con il famoso cantico (1Sam 2,1-10) e percepiamo la grande fiducia del marito nella sua moglie, non meno che la fede di lui in Dio, dicendo a essa, riguardo al bambino: «Fa’ pure quanto ti sembra meglio: rimani finché tu l’abbia svezzato. Adempia il Signore la sua parola!» (1Sam 1,23). Di fronte allo sviamento dal culto dei figli di Eli e alla mollezza dello stesso sacerdote – anche se questi aveva esercitato la sua mediazione in favore della preghiera di Anna – quanto fu mirabile il culto in spirito e verità da parte dei genitori di Samuele! Sotto certi aspetti, questa famiglia è una bellissima immagine della famiglia come santuario, come “chiesa domestica”, secondo le parole di San Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio (FC)1.
La famiglia è il primo e miglior seminario in quanto “chiesa domestica”, piccolo “santuario”. Un seminario forma integralmente il discepolo missionario e il futuro configurato a Cristo, Servo e Pastore, nelle quattro dimensioni: umana, spirituale, intellettuale e pastorale. Vediamo come il primo seminario della famiglia può essere una vera preparazione iniziale. Ciò che dico sulla famiglia può aiutarci a supplire, in qualche modo, alle lacune che si riscontrano in questo ambito. La pastorale delle vocazioni è chiamata a vivere e a donare lo spirito della famiglia.
La famiglia cristiana è un piccolo “santuario” di comunione e di umanità vera e sana. Come leggiamo nella Familiaris Consortio, «la famiglia è la prima e fondamentale scuola di socialità: in quanto comunità di amore, essa trova nel dono di sé la legge che la guida e la fa crescere. La comunione e la partecipazione quotidianamente vissute nella casa, nei momenti di gioia e di difficoltà, rappresentano la più concreta ed efficace pedagogia dei figli nel più ampio orizzonte della società» (FC 37).
La famiglia è un piccolo “santuario” della preghiera. Tutti noi conosciamo la preghiera intensa dei diversi Papi recenti. Ma se loro, da bambini e da giovani, non avessero visto spesso il padre o la madre pregare in ginocchio, sarebbero divenuti gli uomini di Dio che sono stati? Guardiamo alla testimonianza di santità dei genitori di Santa Teresina di Lisieux, Louis e Zélie Martin, che sono stati canonizzati da Papa Francesco il 18 ottobre 2015, durante il Sinodo sulla Famiglia (sono i primi sposi ad essere proclamati insieme Santi dalla Chiesa), non influì sulla consacrazione a Dio delle loro cinque figlie e sulla stessa santità di Teresa e delle altre?
La famiglia cristiana è il “santuario” dove si impara il culto spirituale, nella fede e nella verità, che insegna a non conformarsi a questo mondo, ma a lasciarsi trasformare, rinnovando il modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (cf Rm 12,1-2).
Una famiglia cristiana è anche un piccolo “santuario” della misericordia, dove si formano uomini e donne di misericordia. Papa Francesco ha inaugurato l’8 dicembre il Giubileo straordinario della Misericordia. Ciò significa chiaramente che il Papa vuol condurre sempre di più la Chiesa nella testimonianza della misericordia, spingendola a uscire da se stessa, perché annunci al mondo il Dio di Amore, ricco di misericordia. Se vogliamo che i futuri sacerdoti e consacrati siano testimoni della misericordia divina, occorre anzitutto che i genitori vivano il perdono tra di loro e verso i figli.
Una coppia che frequenta la Confessione regolarmente e che sa perdonarsi, offre ai propri figli una fede forte nella potenza dell’Amore misericordioso e ricreatore, capace di affrontare le sfide e i pericoli della vita. Essere “santuario” della misericordia vuol dire anche praticare l’ospitalità cristiana, accogliendo e ascoltando le persone sofferenti che stanno alla nostra porta e bussano. Non c’è migliore preparazione alla compassione per la persona chiamata a essere buon pastore e testimone di Cristo servo dei fratelli!
Chi dice “santuario” menziona anche i servitori del santuario, come i Leviti dell’Antico Testamento. La famiglia cristiana è una scuola di vita evangelica vissuta per il servizio degli altri. Lì si impara il senso della vita e a dare la propria vita nel servizio di Dio e degli uomini. Dice la Familiaris Consortio: «Dal sacramento del matrimonio il compito educativo riceve la dignità e la vocazione di essere un vero e proprio “ministero” della Chiesa al servizio della edificazione dei suoi membri. Tale è la grandezza e lo splendore del ministero educativo dei genitori cristiani, che San Tommaso non esita a paragonare al ministero dei sacerdoti» (FC 38).
«Nella famiglia, cosciente di tale dono – scrive il Beato Paolo VI – tutti i membri evangelizzano e sono evangelizzati (Evangelii Nuntiandi, n. 71)».

2. Ciò che è richiesto alla pastorale giovanile
La pastorale giovanile e vocazionale mira a una sola cosa. Di fatto, essere discepoli-missionari per la grazia del Battesimo e della Cresima significa seguire Cristo fino in fondo, cioè fino alla santità, pienezza della carità, nella forma di vita indicataci da lui. Quanto afferma San Giovanni Paolo II nel Messaggio per le Vocazioni del 26 dicembre 1993, è anche valido per la pastorale giovanile vocazionale: «Per ogni famiglia, in realtà, il passo decisivo da compiere è quello di accogliere il Signore Gesù come centro e modello di vita e, in Lui e con Lui, di prendere coscienza di essere luogo privilegiato per un’autentica crescita vocazionale […] Procedere insieme dietro Cristo verso il Padre è il programma vocazionale più appropriato. […] È nel seguire Gesù che sarà possibile ai giovani comprendere la chiamata personale all’amore: nel matrimonio, nella vita consacrata, nel ministero ordinato, nella missione “ad gentes”». Allora, vi prego: in tutte le vostre programmazioni pastorali, fate incontrare Gesù ai giovani, favorite l’incontro personale con lui, nei sacramenti, nei tempi prolungati di adorazione eucaristica animata e silenziosa, nella lectio divina, nei tempi di missione insieme. È lui che chiama personalmente e, molto spesso, più sulle strade di Galilea che dentro le mura di Gerusalemme: non è forse vero? «In effetti, se la Chiesa “è per sua natura missionaria” (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, n. 2), la vocazione cristiana non può che nascere all’interno di un’esperienza di missione», ha detto Papa Francesco nel Messaggio per le Vocazioni del 29 marzo 2015. Non abbiate paura di far prendere la via della santità ai giovani, e, dunque, di proporre loro cose esigenti. E come ha detto il Santo Padre nel suo primo Messaggio per le Vocazioni, citando il testo programmatico di San Giovanni Paolo II per il terzo millennio, Novo Millenio ineunte: «Cari fratelli e sorelle, vivere questa “misura alta della vita cristiana ordinaria” (cf San Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, n. 31), significa talvolta andare controcorrente e comporta incontrare anche ostacoli, fuori di noi e dentro di noi. Gesù stesso ci avverte: il buon seme della Parola di Dio spesso viene rubato dal Maligno, bloccato dalle tribolazioni, soffocato da preoccupazioni e seduzioni mondane (cf Mt 13,19-22). Tutte queste difficoltà potrebbero scoraggiarci, facendoci ripiegare su vie apparentemente più comode. Ma la vera gioia dei chiamati consiste nel credere e sperimentare che Lui, il Signore, è fedele, e con Lui possiamo camminare, essere discepoli e testimoni dell’amore di Dio, aprire il cuore a grandi ideali, a cose grandi. «Noi cristiani non siamo scelti dal Signore per cosine piccole, andate sempre al di là, verso le cose grandi. Giocate la vita per grandi ideali!» (Omelia nella Messa per i cresimandi, 28 aprile 2013). A voi Vescovi, sacerdoti, religiosi, comunità e famiglie cristiane chiedo di orientare la pastorale vocazionale in questa direzione, accompagnando i giovani su percorsi di santità che, essendo personali, «esigono una vera e propria pedagogia della santità, che sia capace di adattarsi ai ritmi delle singole persone» (Francesco, 15.1.2014).
La via della santità e dei grandi ideali si sperimenta maggiormente nelle comunità cristiane vive, ferventi e missionarie. Leggiamo nella Evangelii Gaudium: «In molti luoghi scarseggiano le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Spesso questo è dovuto all’assenza nelle comunità di un fervore apostolico contagioso, per cui esse non entusiasmano e non suscitano attrattiva. Dove c’è vita, fervore, voglia di portare Cristo agli altri, sorgono vocazioni genuine» (n. 107).

«La vita genera la vita» (San Giovanni Paolo II, Messaggio per le Vocazioni, 2.2.1982).

Come la pastorale vocazionale è una pastorale giovanile seria che mira a fare dei giovani dei veri cristiani, amando sempre più Gesù e camminando verso la pienezza della carità, sarà poi anche «necessario – come ha detto San Giovanni Paolo II – che la pastorale giovanile sia esplicitamente vocazionale, e miri a risvegliare nei giovani la coscienza della chiamata divina, affinché sperimentino e gustino la bellezza della donazione, in un progetto stabile di vita» (Messaggio per le Vocazioni, 8.9.1992). Due anni dopo, il Papa Santo ha aggiunto: «La giovinezza consegue la sua vera ricchezza quando è vissuta principalmente come tempo di riflessione vocazionale. La domanda del giovane: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna?” svela una dimensione costitutiva della stessa giovinezza. Il giovane infatti, vuol dire: “Che cosa devo fare perché la mia vita abbia senso? Qual è il piano di Dio riguardo alla mia vita? Qual è la sua volontà?”» (Messaggio per le Vocazioni, 18.10.1994).
Siamo noi consapevoli e convinti che l’esperienza dell’amore ricevuto e dato possa cambiare il cuore di un giovane più fragile? E anche nel caso che la sua fragilità gli impedisse di diventare sacerdote, potremo essere felici di averlo comunque aiutato a sviluppare i propri doni e a seguire Gesù come discepolo-missionario. Questo richiede da parte nostra di essere “padri e madri” per i giovani, dedicando tempo ad essi, vivendo in loro compagnia, condividendo le esperienze e pregando insieme, come fratelli. Se in casa il papà o la mamma sono mancati, il giovane potrà trovare in noi un punto di riferimento “paterno o materno” a cui potrà identificarsi nel suo processo di crescita. I giovani hanno bisogno di testimoni, adulti, uomini e donne, padri e madri che generano la vita e da cui imparano ad essere adulti.
Quanto sin qui proposto ci indica che la pastorale vocazionale non può essere chiusa in se stessa. Essa si apre a tutte le dimensioni della vita di un giovane: il suo radicarsi umano in una famiglia, la sua crescita verso lo stato adulto e lo sviluppo teologale e missionario del suo Battesimo con altri giovani cristiani, sia in parrocchia sia nei movimenti giovanili, i cui carismi possono anche ispirare il nostro modo di fare.

3. L’accompagnamento personale ed ecclesiale dei giovani
Accompagnare i giovani verso il presbiterato o la vita consacrata è una missione ecclesiale di fondamentale importanza, ma è anche un’arte che dobbiamo imparare quotidianamente. Da questo punto di vista, possiamo dire che occorre integrare con armonia i due aspetti della spiritualità cristiana e di ogni servizio ministeriale: il dono, che procede da Dio e dall’azione del Suo Spirito in noi; la nostra disponibilità e docilità ad accogliere e vivere il dono nell’apertura e nel dialogo con l’esistenza umana e con il contesto socio-culturale in cui viviamo.
Senza il primo aspetto, pensiamo al ministero della formazione come a qualcosa che dipende solo dalle nostre forze e dalla raffinatezza delle tecniche e degli strumenti che usiamo; senza il secondo, rendiamo immobile e rigida la freschezza del Vangelo, proponendo linguaggi e contenuti chiusi in un passato che non c’è più, e dunque siamo incapaci di giungere efficacemente al cuore dei giovani di oggi.

Perché è necessario accompagnare i possibili candidati al presbiterato?

1) La chiamata di Dio ci precede. Papa Francesco lo ha ricordato, di recente, ricevendo la Conferenza Episcopale del Kenya in Visita ad Limina: «Mentre i semi di una vocazione sacerdotale vengono piantati molto prima che un uomo arrivi in seminario, in primo luogo nel cuore della famiglia, spetta ai formatori in seminario alimentare la crescita di tali vocazioni. Perciò è fondamentale che alla buona volontà dei seminaristi e ai loro desideri sinceri si risponda con una formazione umanamente solida, spiritualmente profonda, intellettualmente ricca e pastoralmente varia».
Se questo seme venisse lasciato al solo entusiasmo iniziale, a tendenze, inclinazioni e idee soggettive, alla prima esperienza di Dio con cui la persona si presenta, allora rischierebbe di morire, o di svilupparsi, prendendo una forma diversa da quella del Cristo Buon Pastore, verso la quale tutti, seppur nelle diversità, siamo chiamati. Diventare preti non può essere solo un fatto legato al desiderio e all’emozione del singolo, per quanto egli possa essere sincero; né si può essere realmente pastori del popolo di Dio, in un servizio generoso e gioioso alla Chiesa, se prima non viene purificata “l’idea di prete” – ma anche di Dio e di Chiesa – che ciascuno porta dentro.
L’accompagnamento formativo serve anzitutto a questo: non è riempire un contenuto, perché lo Spirito che chiama è prima ed è più grande di noi, ma è un “fare luce” sulle tante dimensioni della chiamata, aiutando la persona a sviluppare questo seme nella direzione del Buon Pastore e del servizio alla Chiesa. In tal senso, chi accompagna e guida al presbiterato – penso non solo ai formatori del seminario, ma anche alle famiglie, ai parroci, a chi accompagna nella fede – raccoglie un seme piantato dal Signore, e non da lui, e lo aiuta a crescere, a maturare, a svilupparsi, a integrarsi con la realtà umana. In questa prospettiva, va inteso anche un accompagnamento giovanile che aiuti il discernimento della propria vita alla luce dell’esperienza familiare; nel seno della propria famiglia, infatti, si vivono le prime esperienze significative per la maturazione della personalità e della scelta di vita e, inoltre, la relazione con i propri genitori è importante nella misura in cui offre al giovane una base affettiva e un sostegno psichico per il suo ingresso nel mondo degli adulti.
È possibile che questo processo sia attraversato da alcune ombre: eventuali relazioni conflittuali con i genitori, modelli educativi parziali o sbagliati avuti in famiglia, mancanze di affetto o, al contrario, eccessiva dipendenza affettiva, e altre simili situazioni, non possono essere sottovalutate nell’accompagnamento del giovane.

2) La chiamata di Dio esige attento discernimento. Quando abbiamo davanti una persona che sente di essere chiamata alla vita presbiterale o consacrata, dobbiamo avere consapevolezza dell’importanza del dono che siamo chiamati ad amministrare; questa persona potrebbe ricevere l’unzione del sacramento dell’Ordine, ed essere così inviata dalla Chiesa come segno vivo e vero della presenza di Cristo nel mondo e della sua azione salvifica. Non si può non considerare con serietà la responsabilità che ci corrisponde; come pure non possono essere tollerate nessuna superficialità o leggerezza, perché ciò che ci sembra essere un aiuto al candidato potrebbe rivelarsi un danno sia per lui che per la Chiesa nella quale sarà chiamato a operare. Nell’Evangelii Gaudium Papa Francesco ha affermato: «Nonostante la scarsità di vocazioni, abbiamo una più chiara coscienza della necessità di una migliore selezione dei candidati al sacerdozio. Non si possono riempire i seminari sulla base di qualunque tipo di motivazione, tanto meno se queste sono legate ad insicurezza affettiva, a ricerca di forme di potere, gloria umana o benessere economico»2. Dunque, la chiamata di Dio – ogni chiamata, ma in particolare quella alla vita di speciale consacrazione – esige un discernimento quotidiano, attento e profondo. Discernere significa operare un giudizio “nello Spirito” sulla qualità del proprio cammino, alla luce dell’azione di Dio in noi, che ci aiuta a distinguere l’accoglienza della sua volontà da tutte le piccole o grandi chiusure, fragilità, illusioni e ferite che, invece, esigono la conversione.
L’accompagnatore, dunque, si fa guida in questo cammino talvolta lungo e faticoso; lo aiuta a “leggere” se stesso e la propria umanità, lo invita a scendere in profondità per comprendere cosa si muove nella sua vita interiore, lo predispone all’ascolto della Parola di Dio per capirne la volontà sulla sua vita. In questo processo, che è primariamente azione dello Spirito, la persona può “vedere” sempre più chiaramente la propria vita, giudicare le motivazioni e il senso di un’eventuale chiamata al sacerdozio, interpretare se stesso alla luce del Vangelo e fare le giuste scelte in direzione di Cristo Buon Pastore che lo ha scelto, lasciandosi trasformare e purificare in quegli aspetti, umani e spirituali, che necessitano di una profonda conversione.
La Chiesa ha bisogno di persone umanamente mature, interiormente libere, spiritualmente profonde, pienamente radicate nella fede e contemporaneamente capaci di vivere, anche nei tratti esterni, la compassione e la tenerezza dell’umanità di Cristo, nei confronti delle persone che incontreranno nel cammino.

3) Formare il prete di oggi. L’accompagnamento è necessario per aiutare la persona ad abbracciare la chiamata al sacerdozio in una forma che sia rispondente alle attese del mondo e della Chiesa. Una rigidità fedele ai principi, ma incapace di andare oltre lo schema del passato, così come una soggettività sganciata dal dialogo, dall’ascolto e dall’obbedienza nei confronti dell’altro, del vescovo, del presbitério e del popolo di Dio, rischiano di sfociare nell’egocentrismo, nel narcisismo e nell’estraneità rispetto alla realtà. Ciascuno ha la propria storia, la propria chiamata particolare e una personale sensibilità; tuttavia, il compito dell’accompagnamento formativo è di aiutare la persona a vivere un “esodo” dal proprio io, dalle proprie certezze, dai propri schemi, per cercare di integrare il suo modo di essere con le necessità della Chiesa e con le urgenze del popolo di Dio. Laddove il cammino dovesse aprirsi alla vocazione presbiterale, occorre evitare di formare un prete, magari perfetto nella pietà personale, ma incapace di entrare in relazione con il mondo e di parlare alla gente: la nostra missione educativa ha un grosso problema da superare!
I metodi tradizionali della comunicazione, per quanto importanti, non si integrano con la mentalità dei seminaristi di questo tempo e, tantomeno, con quelle dei giovani loro coetanei.
“Accompagnamento formativo”, in questo caso, cosa significa? Da una parte, dobbiamo superare l’approccio giudicante, ancora frequente tra di noi, per cui ci preoccupiamo di giudicare i mezzi di comunicazione dall’esterno per vedere se “sono buoni o cattivi” e “come vanno usati”; dall’altra, occorre aiutare le persone ad essere interiormente libere, per superare l’atteggiamento emotivo, immaturo e spesso dipendente di chi non sa staccarsi dal mezzo tecnologico.
L’accompagnamento non demonizza il mondo in cui sono immersi soprattutto i giovani, ma aiuta ad essere liberi e adulti nello “stare” in questa realtà. Se lavoriamo a questo scopo, allora anche la comunicazione può diventare una vera occasione di prossimità e di incontro.
Annunciare il Vangelo significa abbattere le distanze, far cadere i muri, creare la possibilità di diventare sempre più prossimi agli altri. I social network devono essere interpretati in questa direzione; non sono soltanto semplici mezzi e strumenti, ma una realtà del nostro mondo, del nostro tempo e del nostro modo di vivere oggi.
Formare preti per questo tempo significa educarli ad “abitare” la realtà; si tratta, da parte loro, di imparare a stare in questo “spazio”, senza riempirlo forzatamente di contenuti religiosi, né perdendosi in esso in modo sciocco.
Questi tre passaggi – la chiamata di Dio ci precede, la chiamata di Dio esige discernimento, formare il prete di oggi – giustificano l’importanza dell’accompagnamento personale ed ecclesiale.
Occorre seguire i giovani con speciale attenzione, nell’ascolto vero, nell’interesse sincero verso la loro storia personale, nella cura quotidiana degli aspetti umani e spirituali, che devono essere plasmati, in vista dell’ordinazione sacerdotale, nel dialogo autentico.
Questo lavoro, per il quale ci si può servire di molte vie e altrettanti strumenti, trova un suo luogo privilegiato nella direzione spirituale; essa è la via che lo Spirito suggerisce, affinché le persone siano illuminate, dalla luce della Parola, sulle scelte fondamentali della loro vita, fino alla possibilità di verificare la chiamata al presbiterato e di predisporsi, umanamente e spiritualmente, a vivere in conformità ad essa.
Ciò che conta maggiormente in quest’arte è l’elemento della fiducia; una semplice imposizione di principi e di regole, seppur necessarie, ha come facile conseguenza un’osservanza solo esteriore, o addirittura una chiusura; una fiducia che si manifesta nell’ascolto, nel dialogo, nella condivisione di vita e nella valorizzazione dei doni dell’altro prima o poi genera apertura, reciprocità, autenticità e percorsi reali di crescita.
Questo compito non è delegato ai singoli accompagnatori di pastorale giovanile; il prendersi cura della formazione è una responsabilità di tutta la Chiesa. La comunità dei credenti è infatti responsabile di ogni singolo battezzato, del dono della sua vita e dei suoi bisogni, umani e spirituali; ancor più, la Chiesa intera è comunità educante per un giovane chiamato al sacerdozio. Papa Francesco, nella recente Plenaria della Congregazione per il Clero, ha affermato: «Mi piace paragonare la vocazione al ministero ordinato al “tesoro nascosto in un campo” (Mt 13,44). È davvero un tesoro che Dio mette da sempre nel cuore di alcuni uomini, da Lui scelti e chiamati a seguirlo in questo speciale stato di vita. Questo tesoro, che richiede di essere scoperto e portato alla luce, non è fatto per “arricchire” solo qualcuno. […] Tutta la comunità cristiana è custode del tesoro di queste vocazioni, destinate al suo servizio, e deve avvertire sempre più il compito di promuoverle, accoglierle ed accompagnarle con affetto»3.
Essa deve offrirsi come comunità che sostiene il candidato con la preghiera, come spazio di relazioni serene e autentiche, come ambito pastorale in cui il giovane chiamato può imparare a maturare, come luogo di fraternità, di condivisione e di verifica per il suo cammino. La comunità cristiana è la grande famiglia del discepolo di Gesù, in cui egli, accolto con sollecitudine e premura, è chiamato a confrontarsi, nelle attività pastorali e nelle relazioni, per verificare se stesso e affinare le proprie doti umane, spirituali e pastorali.

NOTE

¹ Cf FC, nn. 21, 38, 51, 52, 53, 54, 55, 59, 61, 65 e 86.
² Papa Francesco, Esort. apost. Evangelii Gaudium, 24 novembre 2013, n. 107.
³ Papa Francesco, Discorso alla Plenaria della Congregazione per il Clero, 3 ottobre 2014.