N.01
Gennaio/Febbraio 2016

La Chiesa dono di misericordia

1. Premesse perplesse
1.1 L’impressione di un anacronismo
Il tema della misericordia sembra suscitare nella sensibilità del nostro tempo una sorta di fastidio. La misericordia allude infatti a una benevolenza gratuita e disposta alla comprensione e al perdono. Ma sembra che la gente del nostro tempo, almeno a una impressione superficiale, non sia nell’atteggiamento di chi si sente in peccato, se ne dispiace, e perciò si rallegra di incontrare un abbraccio misericordioso.
Piuttosto l’atteggiamento spontaneo è quello di chi si sente in credito e chiede di essere risarcito, si sente dalla parte della ragione e pretende di essere approvato. Non è il ferito che invoca soccorso ed è grato per ogni gesto di attenzione e per ogni cura; è piuttosto l’offeso che vuole far valere il suo diritto e ricevere le scuse per il torto subito. Quali siano poi le offese e i torti è difficile dire, ma si può elencare un po’ di tutto: l’impressione che la vita non mantenga le sue promesse e che Dio ne sia il responsabile, la memoria confusa di una storia della Chiesa infedele alla sua missione e che ha fatto torto all’umanità; fino alle cose minime e alle disavventure personali per le quali un colpevole ci deve essere e – secondo la persuasione dell’uomo del nostro tempo – “non sono certo io”.
Perciò identificare la Chiesa come la casa della misericordia, l’“ospedale da campo” in cui si curano le ferite, e indicare nella misericordia il cuore del mistero del Padre può configurare come un anacronismo la Chiesa e la sua missione e come una ipotesi non necessaria il mistero di Dio.

1.2 L’argomento per una pretesa
L’autopresentazione della Chiesa come dono di misericordia  sembra essere un argomento per alimentare un atteggiamento di pretesa della sensibilità contemporanea. Se infatti si identifica la  misericordia come una accondiscendenza senza condizioni, un accudimento materno che ha come unico criterio che il bambino non pianga o che l’adolescente non protesti, allora l’uomo contemporaneo (non si sa se sia un bambino capriccioso o un adolescente ribelle) non si aspetta altro dalla Chiesa che di essere approvato in quello che pensa e sceglie, di essere aiutato in ciò di cui ha bisogno.
Quello che chiede non è presentato come un’umile preghiera di chi sa di non aver diritto a nulla e perciò spera nella bontà di Dio e della sua Chiesa, ma piuttosto con la pretesa perentoria di essere esaudito e soddisfatto, sul presupposto di averne diritto.

2. Le condizioni per non fraintendere
2.1 Attingere alle fonti
La parola misericordia, come tutte le parole, corre il rischio di essere intesa non come la rivelazione del Vangelo, ma secondo l’aspettativa del destinatario. La rivelazione del Vangelo intende chiamare a conversione per rinnovare la vita dell’interlocutore rendendolo partecipe della vita di Dio, Padre misericordioso e clemente. L’aspettativa del destinatario è invece quella di essere rassicurato senza essere disturbato, di sentirsi confermato nelle sue scelte ed eventualmente liberato dai sintomi fastidiosi e dagli spiacevoli effetti collaterali che le scelte provocano.
Per intendere il significato evangelico della misericordia, anzi, per intendere come il Vangelo abbia al suo centro la misericordia non c’è altra via che quella di ritornare a leggere il Vangelo.
Scrive G. Angelini: «La verità del Vangelo della misericordia è intesa soltanto da coloro che hanno fame e sete di giustizia, o – detto in altri termini – soffrono a motivo del loro peccato. Il messaggio della misericordia minaccia di essere frainteso proprio a motivo del difetto di tale fame. La misericordia attesa e addirittura pretesa dai più è quella che rimedia alla sofferenza, e non al peccato. In tal senso, l’annuncio della misericordia ha l’effetto di rassicurare, non di convertire»1.

2.3 Compiere percorsi di liberazione
La lettura del Vangelo non è la consultazione di un manuale, ma l’ascolto della parola di Gesù che annuncia l’attuazione della promessa del Regno e rende possibile la decisione di entrare nel Regno attraverso la porta e percorrendo la via, che è Lui stesso. Questa dinamica della conversione-vocazione è un esercizio della libertà.
L’uomo che incontra Gesù e la sua Chiesa come parola di Vangelo apprende qualche cosa a proposito di sé: io sono chiamato a scegliere e la mia scelte decide della mia identità. A proposito della misericordia, praticare la scelta è la condizione che consente di non fermarsi all’aspetto emotivo e indistinto per arrivare a un agire che sia misericordioso come è misericordioso il Padre che è nei cieli. «Sentire compassione per chi è ferito è di tutti, non dipende dalla virtù; la compassione esprime un messaggio; per comprenderlo occorre avvicinarsi e accettare la prossimità; mediante tale scelta il messaggio della compassione prede forma. Soltanto attraverso il gesto l’affetto dice una parola e stringe un’alleanza»2.
Nel Vangelo della misericordia ci sono quindi l’indicazione, l’invito e la condizione per un percorso di liberazione che giunge alla esperienza della libertà che sceglie e, scegliendo, comprende e pratica la misericordia.

3. La Chiesa per l’esperienza ecclesiale della misericordia
3.1 La salvezza dall’individualismo
Contro una tendenza – si direbbe universale e inestirpabile – a un “consumo individuale” della misericordia, la Chiesa è dono di misericordia perché offre il contesto comunitario senza il quale non si può compiere la riconciliazione. Il consumo individuale è praticato con evidenza non tanto nella modalità, ma piuttosto nell’attitudine con cui è spesso vissuto il sacramento della riconciliazione. Il penitente accede a un servizio come un individuo che vuole mettere a posto la sua coscienza, fare il punto del suo cammino, trovare conforto al suo dolore, chiedere consiglio per essere incoraggiato in una decisione, esprimere il pentimento o il disappunto per essere ricaduto nei “soliti peccati”, poter accedere alla comunione. L’elemento inquinante che compromette tutti questi aspetti, pure legittimi, è l’esasperato individualismo. È evidente che il senso di Chiesa si esprime almeno per il fatto di rivolgersi a un ministro della Chiesa. Ma anche tra i penitenti abituali e straordinari la presenza del ministro della Chiesa non è sentito come tale, cioè come espressione di una comunità che accoglie e che celebra la misericordia del Signore, ma come un uomo affidabile, un interlocutore desiderabile o persino come un impiegato garantito per un adempimento (“confessarsi”) che per lo più è avvertito come ad esclusivo carico e vantaggio del singolo. Questa enfasi individualistica è – con ogni evidenza – una mistificazione della rivelazione evangelica sulla misericordia che il Padre esercita verso il peccatore pentito.
Il Padre, infatti, per accogliere il figlio che ritorna organizza una festa per tutta la casa e recupera il peccatore alla relazione familiare: che sia veramente figlio e perciò veramente fratello. 

3.2 La misericordia e la fraternità
L’esercizio della misericordia non è la pratica di una elemosina che per cui il ricco signore lascia cadere qualche spicciolo nella mano del povero. È, piuttosto, l’offerta di una alleanza che dà origine (o ricostruisce) i rapporti buoni nella casa comune.
Il parallelismo che il Vangelo ribadisce tra il Padre misericordioso e il «siate misericordiosi», tra «come io vi ho amato» e «amatevi gli uni gli altri», ha qualcosa di vertiginoso e suona forse improbabile al sentire comune che ha così scarsa stima dell’umanità. Il suo principio è il dono dello Spirito Santo che rende partecipi della vita di Dio, la vita eterna. Ma uno degli esiti di questo parallelismo è che l’amore offerto abilita ad offrire amore. I rapporti non sono irrigiditi nel meccanismo del “dare-ricevere” in cui chi dà è il ricco, il buono, il santo e chi riceve rimane il povero, il cattivo, il peccatore. L’alleanza, invece, abilita a partecipare della stessa vita, ad “avere ogni cosa in comune”. 

3.3 La Chiesa non è un arcipelago
Il Corpo Mistico di Cristo, edificato dal corpo eucaristico, è un organismo vivo, unitario, è il popolo santo di Dio con tutte le articolazioni dei compiti, tutte le grazie e le ferite della sua storia, tutta la varietà della sua geografia.
Il rischio che la Chiesa, per quanto saldamente e infallibilmente condotta dallo Spirito per essere sempre un cuor solo e un’anima sola, si presenti frantumata in un arcipelago di santità isolate e reciprocamente antipatiche e di buone intenzioni ostinatamente determinante a ignorarsi non è estranea alla vicenda del nostro tempo. Invece l’arte della coralità sembra un’arte dimenticata. L’arte della coralità è quell’insieme di sapienza, pazienza, intraprendenza, passione per il dialogo e per l’incontro che dà vita a un coro, educando le voci dei solisti a cantare insieme la stessa canzone, l’inno alla gloria di Dio che commuove il cielo e la terra. 

3.4 L’arte della conversazione
Un vivere “corale” è piuttosto naturale nel gruppo omogeneo, che condivide gli stessi valori, parla la stessa lingua, dà lo stesso valore ai giorni del calendario e condivide gli stessi apprezzamenti per le tradizioni matrimoniali, alimentari, pedagogiche e religiose.
Ma là dove si incontrano popoli diversi, che parlano lingue reciprocamente incomprensibili e confrontano le proprie tradizioni per dimostrare chi è migliore, tessere rapporti di vita comunitaria risulta arduo, spesso frustrante e sempre a prezzo di una lunga fatica e di una visione lungimirante. È richiesta la pratica dell’arte della conversazione.
La conversazione è quel modo di parlare che rifugge dalla proclamazione dei principi astratti e della rivendicazione di primogeniture e preferenze. La conversazione rifugge anche da quel parlare che è la chiacchiera, quel parlare che non dice niente, forse per paura di urtare la suscettibilità altrui o forse, più probabilmente, perché non sa che cosa dire. La conversazione è invece uno “stile medio” tra l’alta retorica e la vacua banalità. Lo stile però non è un artificio retorico, una specie di galateo, ma una disposizione spirituale, che si appassiona all’impresa di stabilire relazioni, propiziare incontri, alimentare il dialogo in cui gli interlocutori si mettano in gioco, come affascinati dall’intuizione che sia possibile effettivamente preparare insieme una strada nel deserto che conduca alla terra promessa.
La conversazione presuppone la stima vicendevole, una specie di libertà dall’amor proprio che rende suscettibili, impauriti dal rischio di dover ammettere di aver torto, una specie di intuizione del vero che lo sa riconoscere anche quando lo dicono gli altri. La conversazione presuppone una fiducia nella possibilità che le persone hanno di parlare per intendersi, invece che per litigare, per edificarsi invece che per esibirsi, per giungere a decisioni condivise, invece che per adattarsi a compromessi che scontentano tutti. 

3.5 Si cercano gli operai della misericordia
Il Giubileo straordinario della misericordia sarà una grazia che lascerà semi promettenti e frutti duraturi se si faranno avanti gli operai della misericordia, dediti all’arte della coralità non con una prestazione episodica (chi, infatti, può mettere insieme un coro con una sola prova?), ma come la vocazione di una vita. Dovendo pubblicare un bando per il reclutamento degli operai specializzati in coralità si potrebbe forse scrivere così: «Si cercano uomini e donne, ma non si escludono neppure bambini e bambine, anziani e anziane, che appena aprono gli occhi al nuovo giorno hanno una sola parola da dire: Grazie! sono infatti persuasi di aver ricevuto la misericordia che non meritano, ma che desiderano con tutto il cuore.
Si cercano uomini e donne che si professino allergici al lamento, che trovino insopportabili i luoghi comuni, i giudizi sommari e generalizzati, che di fronte alle persone, alle situazioni e agli avvenimenti siano decisi ad assumere una attitudine di benevolenza, piuttosto che di giudizio.
Si cercano uomini e donne che si assumano l’incarico di fare della parola un dono, piuttosto che un’arma, una possibilità di edificazione, piuttosto che uno strumento di demolizione, l’arte di avviare rapporti e approfondirli piuttosto che la rassegnazione alla banalità, l’inclinazione alla discussione e al litigio. Con la parola sappiano incoraggiare, piuttosto che criticare, seminare sorrisi, piuttosto che malumori, esprimere stima, piuttosto che maliziose insinuazioni.
Si cercano uomini e donne che vivano il tempo come un’occasione di bene, non come una proprietà privata da rivendicare. Perciò che abbiano tempo per ascoltare, anche le persone noiose, che abbiano tempo per fermarsi a prestare soccorso, se serve, anche per sconosciuti, che abbiano tempo per condividere pensieri e speranze per la città in cui vivono, anche quando hanno già molti impegni.
Si cercano uomini e donne che non si diano troppa importanza e perciò non diano troppo peso neppure a qualche parola maldestra che si sentono dire senza meritarla, che non siano troppo suscettibili, anche se ricevono critiche infondate e sono oggetto di antipatie incomprensibili.
Si cercano persone inclini alla gioia: che trovano gioia nel dare gioia agli altri e sono così immersi in Dio da trovare in Lui una sorgente invincibile e incontenibile di gioia. Le persone contente per aver affidato a Dio il loro desiderio di essere felici sono più disponibili a dedicarsi a quello che può aiutare gli altri a trovare quello che cercano.
Si cercano uomini e donne che intendano la misericordia come un dono da offrire e non un privilegio da pretendere.
Si cercano uomini e donne per attestare, in tutta semplicità, la verità della parola che dice beati i misericordiosi».

4. La Chiesa per la responsabilità “missionaria” della misericordia
4.1 Le parole sospette
L’identificazione della Chiesa con la missione e l’identificazione  della missione nella misericordia creano un esercizio di proprietà transitiva che sembra facile. In realtà anche le parole irrinunciabili possono diventare sospette o talmente vaghe da essere sì innocue, ma in realtà insignificanti. Una di queste parole è “missione”: diventa sospetta perché sembra indicare un dovere di disturbare, un incarico ad essere invadenti, una presunzione che alimenta la pretesa a impancarsi a maestri degli altri.
Forse per questo succede che, quanto più si ripete la parola, tanto meno si propongono percorsi promettenti di comprensione critica e di pratica ordinaria per essere missionari. Ci si può augurare che l’anno della misericordia possa propiziare qualche riflessione persuasiva su che cosa possa significare essere “missionari della misericordia”. 

4.2 «Andate… battezzate… insegnando a osservare tutto  ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19.20)
La parola di Gesù è perentoria nella sua formulazione e non  sembra prendere in considerazione le perplessità dei discepoli di oggi e neppure le prevedibili obiezioni dei destinatari.
Possiamo immaginare che la tradizione cristiana, con tutte le sue riflessioni ed esperienze, abbia elementi per affrontare le questioni che si pongono e sbloccare lo stallo in cui sembra trattenuta la comunità cristiana. Per indicare almeno una pista che sembra raccomandabile nell’attuazione del comando di Gesù si può azzardare lo slogan corrente che propone il “nuovo umanesimo”. I discepoli di Gesù si rendono testimoni del nuovo umanesimo, cioè di quel modo di essere uomini e donne che si conforma all’umanità di Gesù e che realizza così l’intenzione originaria del Creatore che vuole l’uomo a sua immagine e somiglianza.
La missione può quindi essere pensata e praticata come l’obbedienza a Gesù che manda i suoi discepoli a tutti i popoli, in tutte le culture, per proporre e rendere praticabile un modo di essere uomini e donne che si conformi all’uomo perfetto, che è Gesù. Proprio questa è l’opera di misericordia affidata alla Chiesa: rivelare ai figli degli uomini l’altezza della loro vocazione e mostrarne la praticabilità. I contenuti di questo “modo di essere uomini e donne” devono essere analiticamente descritti, perché l’umanesimo cristiano non è un’idea, ma è una pratica. La descrizione analitica, per altro, non è una enciclopedia, ma è uno stile del vivere quotidiano che si dispiega in tutte le situazioni e ad ogni livello di responsabilità, in ogni ambiente e tradizione culturale. Nel proporre “uno stile del vivere quotidiano” la misericordia è presente come l’anima e il principio critico dello stile. Gli operai e i missionari della misericordia, infatti, dovranno vigilare sul rischio di accontentarsi di elencare quello che “si dovrebbe fare”, dove, in genere, sembra che si parli soprattutto di quello che devono fare gli altri. Così come dovranno vigilare sul rischio di riempire calendari di iniziative inedite o ripetitive, di raduni e di celebrazioni. Tutte cose non prive di qualche utilità. Ma in sostanza il nuovo umanesimo, che si conformi all’umanità di Gesù, è la pratica quotidiana di relazioni, impegni, attenzioni, gratuità, celebrazioni, prossimità e condivisioni di dolori, gioie, speranze.

4.3 L’impermeabilità e la sete
Chi si dedica alla missione di annunciare il Vangelo della misericordia è talora scoraggiato dall’impressione che la gente di questo tempo sia impermeabile: ascolta tutto, ma non se ne lascia penetrare, vede tutto, ma la commozione e la partecipazione rimangono un’emozione passeggera, sono facilmente condotte qua e là da una sorta di inerzia alla dinamica del gruppo di appartenenza, ma senza decidere una direzione.
A questa frustrante esperienza dell’inutilità delle proposte e dei percorsi educativi non ci sono facili rimedi. La proposta che si fa insistente sulla “famiglia come soggetto di evangelizzazione” indica una prospettiva che merita di essere approfondita, incoraggiata, accompagnata.
Forse anche – come ama dire il Card. Angelo Scola – merita di essere assunta come un principio di “riforma” della Chiesa. Suggerisce infatti che il Vangelo della misericordia diventa forma della vita se la vita ordinaria, nei suoi segni più abituali, rivela il suo splendore.
Lo Spirito di Dio, infatti, predispone alla parola della misericordia, facendo rinascere la sete e alimentando lo stupore per il fatto di esistere per una vita ricevuta, di essere amati, accuditi, perdonati, corretti, incoraggiati e per l’esperienza di essere capaci e chiamati ad amare, accudire, perdonare correggere, incoraggiare. 

4.4 Fino al perdono
Il perdono è l’atto della misericordia quando vive il torto subito, l’offesa immeritata non come una aggressione che giustifica la reazione e la rottura che spezza o corrompe i rapporti, ma come un dolore che cerca un sollievo e come una ferita da cui possono uscire “sangue ed acqua”. L’immagine di Gesù crocifisso che perdona e diventa principio di vita nuova annuncia che c’è una sola possibilità di porre rimedio al male: è la via di Gesù.
Dalla ferita estrema viene il sangue della nuova alleanza e chi se ne lascia lavare diventa capace di fare del torto subito e dell’offesa immeritata un punto di partenza per una nuova forma di relazione offerta come alleanza anche a colui che offende.
Si potrebbe dire che il perdono è come il vertice della misericordia, la sua espressione più alta: proprio per questo si richiede un esercizio diffuso delle opere di misericordia che costituiscono come un abituarsi a dimorare nello stile di Gesù, per diventare partecipi dei suoi sentimenti e abilitarsi così anche al perdono.
La Chiesa che ha la responsabilità di annunciare misericordia e perdono riuscirà forse anche a proporre una pratica del sacramento della riconciliazione. L’impressione – di cui sopra si diceva – è che la riduzione della pratica sacramentale a forma devozionale, per lo più vissuta in modo individualistico, alla ricerca più di un conforto che di un perdono, renda meno comprensibile e più impraticabile anche il perdono vicendevole.

NOTE
1  G. angelini, in «La Rivista del Clero Italiana» XCVI (2015) n. 10, p. 672.
Ivi, p. 680.