N.03
Maggio/Giugno 2016

Vestire gli ignudi

Nudità e origini
La nudità ha a che fare con le origini. È dai tempi di Adamo, dunque, da sempre, che l’uomo fa i conti con il proprio limite. E se è inevitabile farli, d’altra parte, non è sempre agevole. Anzi, talora, risulta persino indigesto. In ogni caso, come si comprende dal libro della Genesi, è insopportabile farli senza Dio. Così, infatti, è accaduto al primo uomo.
Dopo il peccato, che, nell’illusione del serpente antico, avrebbe dovuto restituire sguardi di libertà, i suoi occhi si aprono su una realtà divenuta sorprendentemente insopportabile: precisamente la propria nudità. Alla fine del secondo racconto della creazione è il narratore biblico ad osservare che «tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna» (Gen 2,25). Ma, dopo la caduta, è Dio stesso che interviene a mitigare la vergogna dell’uomo: «Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì» (Gen 3,21).
Nulla cambia, dunque, circa la materialità dell’uomo, la sua stessa consistenza – vale a dire, la propria nudità –, ma incomparabile è la percezione che ne consegue e, parimenti, la nuova relazionalità che ne scaturisce con la propria moglie. Se prima della caduta la nudità non faceva alcun problema, dopo diviene una realtà di cui ci si vergogna e nei confronti della quale si impone la necessità di un pietoso ristabilimento della dignità perduta.
Da allora le immagini del vestire e dello svestire, della nudità e del vestito rimandano a temi più vasti. Un abito protegge, nasconde, nobilita, manifesta, persino tradisce, nel medesimo tempo, condizioni materiali di povertà e ricchezza, qualità morali e spirituali; in una parola, rappresenta in qualche modo una persona. Un re e un povero sono facilmente riconoscibili, ma il loro abbigliamento non descrive totalmente l’arco della loro dignità. Così vi sono stracci che nascondono dignità stellari e altri che non esprimono nulla oltre la miseria. Peraltro, vi sono vesti sontuose che non oscurano la grandezza dell’anima e abiti lussuosi che neppure a malapena riescono a coprire la ristrettezza del cuore.

Ritratti di Dio e degli uomini
Anche la storia di un vestito è importante. La sua novità come il suo logoramento sono rilevanti nel descrivere la qualità di una persona, la sua storia, il suo cammino. A veder bene, attraverso questa sottile ma importante trama, anche i Vangeli offrono spunti tutt’altro che banali per scrivere una cristologia, una teologia della fede e del discepolato. Sorprende che Dio, come gli uomini, sia ritratto mentre indossa degli abiti. Nei racconti evangelici tornano, infatti, suggestivamente le vesti umane e quelle divine, del Figlio e degli uomini, abiti che marcano la storia. Si tratta di vesti indossate ed esibite (ad esempio, l’impresentabile look del Battista, cui si accompagna la sua singolare dieta, cf Mc 1,6); di abiti toccati nel desiderio di una guarigione, come per la donna affetta da grave emorragia (Mc 5,25-34); di mantelli gettati per terra, come nel balzo di fede del cieco Bartimeo (Mc 10,46-52) o nel fare strada all’ingresso del messia (Mc 11,8); di vesti sacerdotali strappate (che impressione il gesto durissimo di rifiuto del sommo sacerdote in Mc 14,60-64!); di irridenti parodie di un re coronato di spine, rivestito di un manto regale e, infine, di vesti sottratte e avidamente spartite, nella inerme nudità del Crocifisso (Mc 15,16-26).
D’altra parte, la storia degli uomini si è da sempre legata al vestito e alla dignità che esso rappresenta. Lo sapeva bene Francesco, figlio di un mercante di stoffe, deponendo il vecchiume del suo abito interiore sulla pubblica piazza di Assisi, per rivestire l’uomo nuovo di cui parla Paolo (cf Rm 13,14). Vestito e nudità, insomma, raccontano la vita nella sua dignità offerta e perduta.

«Fate una cosa nuova»: Villa Luce!
Dietro il vestito e l’opera di misericordia del rivestire si cela, dunque, la volontà di Dio di restituire dignità laddove, per vicende e ragioni complesse, essa si è smarrita o è stata calpestata dalla prepotenza degli uomini. Iniziano qui innumerevoli e drammatiche storie, come, ad esempio, quella di Matelda: «Chi mi ha fatto del male è riuscito non solo a ledere il mio corpo, ma a ferire la mia dignità, ad annullare la mia personalità. Riattaccare i pezzi non è stato difficile. Ancora oggi soffro, ma ho imparato a guardarmi avanti, sicura di me stessa e delle mie possibilità». Oppure quella di “E ‘77”: «I veri genitori non possiamo sceglierli come li vorremmo, ce li troviamo accanto al momento della nascita, percorriamo un tratto di strada insieme… No, il passato non si può dimenticare. Ma lentamente ricostruendosi, migliorandosi, scoprendo il bene che pure accade di ricevere, si può cercare di restituirlo, in qualche modo, agli altri».
Sono vicende sofferte, ma cariche di speranza luminosa quelle narrate da Matelda, “E 77” e molte altre, nel libro Ciao, sono luce. Storie di straordinaria speranza, edito da Scheiwiller, recentemente ristampato. Tutte raccontano di quel particolare pellegrinaggio, di quella dignità restituita, di quel vestito nuovo donato, presso la comunità Villa Luce di Milano, nata nel settembre 1980 per volontà del Cardinal Carlo Maria Martini, insieme ad una nuova comunità religiosa, le suore missionarie di Gesù Redentore (cf  www.suoremdgr. org e www.agbonlus.org).
«Fate una cosa nuova!», aveva detto il Cardinale al gruppo originario di religiose, e quando seppe che la casa che avrebbe accolto le suore, le educatrici laiche e le prime ragazze, si chiamava Villa Chiara, disse: «No, si chiamerà Villa Luce, perché dovete essere luce, emanare luce di fede e di speranza, di amore e di gioia in tante persone a voi affidate dall’Amore che salva».

Villa luce oggi
Oggi Villa Luce è una costellazione di Comunità Educative distribuite sul territorio di Milano. Le Comunità sono appartamenti che ospitano ragazze adolescenti con età compresa tra i 14 e i 21 anni, che hanno alle spalle gravi disagi familiari. Ogni giovane è accolta attraverso un Decreto del Tribunale per i Minorenni, con il quale viene allontanata dalla famiglia, dichiarata provvisoriamente inadeguata alla crescita della figlia e affidata al Servizio Sociale del Comune di provenienza, che poi colloca la ragazza in Comunità. Le varie Comunità sono suddivise in tre Aree educative, corrispondenti, per ciascuna ragazza, a livelli di autonomia e capacità di responsabilizzazione progressive nel mettere in atto il proprio Progetto Educativo Individualizzato.
Suor Elisabetta Giussani ha ereditato l’intuizione della fondatrice sr. Teresa Gospar. Nel tempo del discernimento della vocazione Madre Teresa le aveva detto: «Se vuoi capire se sei chiamata ad essere suora missionaria di Gesù Redentore, oltre ad incontrarti con me, stai con le ragazze: loro te lo faranno capire». E così è stato. 

Le chiedo: «Vestire gli ignudi può essere il vostro carisma?».
«In qualche modo sì – risponde –, nel senso che il dono che lo Spirito Santo riversa ogni giorno nel nostro cuore è la Grazia di vivere con persone che riscoprono fragilità, limiti, sofferenze, fatiche non tanto come degli ostacoli insormontabili, quanto come delle possibilità di fare i conti con la propria umanità finita, come occasione per spogliarsi del proprio orgoglio di autosufficienza e rivestirsi della dignità nuova di figli che tutto ricevono con gratitudine da Dio. Lo sperimentiamo, innanzitutto, noi educatrici nel rapporto con le ragazze. Spesso sono proprio loro a “toglierci la pelle di dosso” ovvero a farci fare i conti con la nostra presunzione di saperle aiutare, di essere capaci di capirle e invece dobbiamo spogliarci della nostra saccenteria, del nostro sentirci benefattrici. Si tratta di scendere con loro nel deserto del loro dolore, della loro rabbia, dell’ingiusta condizione di depressione, ribellione alla vita, non senso delle cose, confusione affettiva in cui si trovano, per vincere la loro solitudine e poi risalire insieme la china della speranza, della scoperta di uno sguardo affettuoso e disinteressato che ridà loro la dignità che già avevano, ma che non sapevano di avere».

Donne volute e non nate per sbaglio

Vestire gli ignudi è ridare dignità. Ma quale dignità provate a restituire?
«Non utilizzerei il verbo “restituire”: noi cresciamo insieme alle nostre ragazze, camminiamo al loro fianco condividendo il dolore delle esperienze passate, affrontando insieme le sfide dell’oggi per un rilancio coraggioso verso un futuro nuovo. Ogni ragazza è soggetto attivo del suo cammino e riconquista la dignità del proprio essere donna con un progetto di vita, donna voluta e non nata per sbaglio, donna che può essere di aiuto proprio a chi l’ha maltrattata o non capita, donna che saprà fare tesoro delle sue ferite per imparare a non giudicare e ad essere misericordiosa verso chi soffre ancora».

Certo, non è sempre tutto facile…
«L’adolescenza – continua sr. Elisabetta – è un periodo di transizione e di ricerca faticosa della propria identità. Per le nostre ragazze lo è in modo centuplicato, dati i trascorsi di grave disagio familiare che hanno attraversato e che debbono accogliere, condividere ed elaborare. Nessuna ragazza viene volentieri in Comunità. Pertanto, mettiamo nel conto da subito un atteggiamento poco collaborante della giovane che continuerà, soprattutto all’inizio, ad esprimere la sua rabbia attraverso degli agiti trasgressivi che vanno di volta in volta decodificati e discussi apertamente con lei».

Uno straordinario tempo di semina

Tuttavia, vi sono dei frutti straordinari…
«I risultati migliori del nostro lavoro educativo sono quelli che non vediamo. Il periodo di permanenza in Comunità è il tempo della semina. È necessario avere tanta speranza e sguardo lungimirante nell’investire quotidianamente in un servizio che spesso mostra solo l’apparente aggravarsi del disagio, piuttosto che la staticità di una situazione che non si smuove, nella resistenza a cambiare.

 Dietro questa opera fondamentale c’è anche una vocazione speciale che richiamate alla Chiesa e al mondo, in questo anno della misericordia.
«Uno dei principi fondamentali di noi religiose è che non attiviamo mai un servizio senza la collaborazione con colleghi laici che condividano la nostra spiritualità. Villa Luce non sarebbe mai nata senza la collaborazione di tanti colleghi laici che vivono quotidianamente con noi le fatiche e le gioie di ogni servizio. Il lavoro di condivisione, di confronto, di conflitto e di chiarificazione, che è alla base del nostro lavoro di formazione e servizio in équipe tra religiose e laici, è oggi per noi il segno più bello e la conferma più forte dell’attualità della vita comune tra stati di vita diversi e complementari, per essere servizio di misericordia ai più poveri».

Il frutto è quel rivestire antico che è opera di Dio. Come scriveva, tra le altre, in versi Vera: «In un giardino spoglio | Tu sei passato | ed è fiorita la primavera».