N.05
Settembre/Ottobre 2016

Alloggiare i pellegrini

L’ora più calda del giorno
La prima splendida storia di ospitalità è quella di Abramo. Solo e pensoso, presso le querce di Mamre, sedeva nell’ «ora più calda del giorno». Un’ora desolata che dà da pensare. È l’ora del disincanto, del turbinio dei pensieri, della stanchezza, del ripensamento. È l’ora in cui non è possibile levare lo sguardo, tanto è concentrato sopra di sé e le condizioni esteriori non aiutano certo ad alzare il capo. Eppure, in quest’ora greve, Dio fa visita al Patriarca, lasciando alla libertà del suo sguardo di aprirsi all’incontro e farsi ospitale. Nessuno dei due gesti è scontato e consequenziale. Alzare lo sguardo è già gran cosa, ma non è ancora farsi ospitale: occorre decidere di esserlo. Da allora, però, tutto cambia, tranne che le condizioni esteriori. Il sole non è tramontato, il caldo non ha dato tregua, il nodo dei pensieri non si è sciolto. Eppure la pagina si ravviva e ci racconta di un’altra storia. Quasi d’incanto la lentezza si trasforma in vivace frenesia. Ci si trova dentro un correre inatteso per offrire il meglio che è a disposizione: uno spazio d’ombra per ripararsi dalla calura, l’acqua per dissetarsi, il cibo scelto tra quanto v’è di meglio e preparato con cura per riprendere le forze e gustare una fraternità inattesa.
Soltanto in seguito Abramo comprenderà la sorprendente identità dei suoi visitatori e si riscoprirà, a propria volta, visitato. La Lettera agli Ebrei nelle sue raccomandazioni finali, ne ha fatto un monito per tutti: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni praticandola, senza saperlo, hanno accolto degli angeli» (Eb 13,2). E gli angeli, quando vengono accolti, lasciano sempre riscoprire un dono.
Lascia un poco sgomenti la notazione di Genesi: «Senza saperlo». Essa apre alla sorpresa di Abramo, ma, in fondo, di ciascuno. Ciò che accade, allora come oggi, assume la forma di un evento, si muta in rivelazione per chi vi si coinvolge e se ne lascia giudicare. Ma tale è la via per la quale si viene alla luce: «Chi fa la verità, viene verso la luce» (Gv 3,21). Ospitare nella propria vita qualcuno significa accogliere Dio stesso e da Lui riconoscere il dono di essere a propria volta ospitati. 

Nella sera dello stesso giorno
Diversa nel tempo, ma simile nella sostanza, era l’ora dei due discepoli in fuga da Gerusalemme (cf Lc 24). Avevano ricevuto l’annuncio più sconvolgente della loro vita, ma fuggivano da esso discutendo animatamente tra loro. Uno straniero gli si fece accanto, invitandoli al racconto e alla rilettura di quanto vissuto. Fu il suo scostarsi discreto, ad un certo punto, ad accendere la loro ospitalità. Aprendo le porte della loro casa scoprirono la grazia che li abitava intimamente: essere raccolti, offerti e inviati come il pane che avevano condiviso. Quella loro ospitalità imprevedibile e gratuita dischiuse anche la loro comprensione. Avevano riconosciuto il corpo proprio del Risorto e il suo dono per sempre.
Nessun dubbio poteva trattenerli ancora. In quella fuga dalla città, ora, non si poteva più stare e il compito della loro vita era assegnato. Viene alla mente la felice intuizione dei celebri Pellegrini di Emmaus (1993-1994) di Arcabas.
La tavola ancora apparecchiata, la sedia rovesciata a terra, il tovagliolo lasciato cadere, la tovaglia spiegazzata, solo le candele spente come un’unica preoccupazione di lasciare in ordine tutti questi segni parlano di una fretta incontenibile. Il cielo stellato che si allarga a dismisura su una porta irrimediabilmente aperta apre la novità del sentiero che avevano percorso senza visione.
Nell’arco di queste due scene, entrambe di inizio, si srotola la parabola mirabile dell’ospitalità e dell’opera di misericordia dell’alloggiare i pellegrini. Si srotola insieme alla inevitabile fatica del comprendere, al rifiuto, alla rabbia, alle reazioni umorali non troppo filtrate, come la cronaca attuale ci ha abituato ad assistere. Ma in questo modo siamo arrivati all’oggi dove alloggiare i pellegrini assume il volto di una sfida importante e irreversibile. 

L’opera del Centro Astalli
Da trentacinque anni il Centro Astalli per l’assistenza agli immigrati svolge la sua opera nel cuore di Roma. È la sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati-JRS. Il suo obiettivo è quello di accompagnare, servire e difendere i diritti di chi arriva in Italia in fuga da guerre e violenze, non di rado anche dalla tortura. Nato nel 1981 dall’intuizione di p. Pedro Arrupe, allora Generale della Compagnia, a seguito della tragedia vietnamita dei boat people, in fuga dal loro Paese, il Centro ha via via ampliato e diversificato i propri servizi. Attualmente riesce a rispondere alle necessità di circa 34.000 migranti forzati, di cui quasi 21.000 nella sola sede di Roma.
Le storie che raccoglie si moltiplicano, si intrecciano, si mescolano. Basta dare uno sguardo alle toccanti testimonianze raccolte sul sito del Centro (http://centroastalli.it/category/rifugiati-attivitacentro-astalli/), come al bellissimo video Ho freddo, realizzato da Artigiani Digitali con l’amichevole partecipazione di Valerio Mastandrea, tratto dal racconto di Jacopo Maria Genovese del Liceo Vittorio Veneto di Milano, vincitore della nona edizione del concorso letterario “La scrittura non va in esilio“ che il Centro Astalli rivolge agli studenti delle scuole medie e superiori.
Nella stagione che viviamo è inevitabile chiedere a P. Camillo Ripamonti, responsabile del Centro, la questione delle paure in gioco di chi arriva e di chi riceve. «La paura – dice – è qualcosa di irrazionale che però non va sottovalutata. Ci sono le paure di chi fugge. Paure legate alla propria storia personale che in casi non rari è storia di torture, persecuzioni e violenze e legata al fatto di aver perso spesso la fiducia in persone e istituzioni che invece di proteggerti diventano a te ostili». È la paura, più o meno inconscia, di non potersi più fidare di nessuno, neppure durante il viaggio di fortuna dove le persone che lo compiono non sono semplicemente dei naviganti, ma trafficanti senza scrupoli, privi di alcun interesse nei confronti di quanti trasportano.
Ci sono, poi, le paure di chi ospita. È «la paura per chi viene da una cultura e un luogo diverso, per chi è straniero e nel suo essere tale porta con sé qualcosa di sconosciuto e oscuro. Spesso, per le persone dei Paesi ospitanti, la paura nasce dalla non conoscenza o da una conoscenza superficiale di situazioni e persone». Si annidano qui le frasi comprensibili, ma semplificanti, che costellano la cronaca di tutti i giorni: «Non possiamo aiutare tutti o aiutiamoli a casa loro!». Per p. Camillo espressioni simili non manifestano «una reale preoccupazione per chi soffre, ma un’egoistica trasformazione di un diritto di tutti in un privilegio per alcuni, quella istituzionalizzazione dell’ingiustizia che assume il volto forse più accettabile se assume la veste della richiesta di sostenibilità. Ma la sostenibilità così intesa addolora perché è un investimento sul futuro che esclude parte della umanità, forse la più fragile».
Si annida qui, per p. Camillo, la difficoltà più grande: passare da una logica dell’emergenza a quella della ordinarietà. «Dobbiamo riconoscere che il fenomeno migratorio è un fenomeno strutturale che va governato e non arginato. Ho l’impressione che l’Europa e i singoli Stati ad essa appartenenti, invece, vogliano allontanare la questione scaricando alla frontiera confinante le responsabilità e gli obblighi dell’accoglienza, fino ad arrivare all’esternalizzazione delle frontiere, cioè usare degli Stati fuori del confine dell’Europa come luoghi per trattenere le persone che così non riescono ad arrivare da noi. Quindi la difficoltà più grande, ma anche la sfida più bella è ripetere in continuazione, a partire dai giovani, che o la società del domani sarà inclusiva o non sarà, che la società del domani o sarà plurale o non sarà e quindi, già da oggi, dobbiamo cominciare a convivere come diversi arricchendoci a vicenda».
La singolare chiamata alla Chiesa in questi tempi consiste, dunque, nella vocazione al dialogo e all’accoglienza reciproca. «Se non impareremo a camminare insieme come un unico popolo, ciascuno accolto nelle proprie differenze, che possono essere anche culturali e religiose, non riusciremo a costruire una società e un mondo in pace domani. Questo credo sia una priorità per noi cristiani che per vocazione non siamo chiamati a difendere la nostra identità, ma a riconoscere nell’altra persona un fratello e una sorella». 

Ero forestiero… e mi avete accolto
È quanto è contenuto nel messaggio che Papa Francesco ha voluto inviare al Centro in occasione dei suoi 35 anni, uno splendido, commento, dai tratti forti, alle parole di Gesù. «…Ero forestiero… Ognuno di voi, rifugiati che bussate alle nostre porte, ha il volto di Dio, è carne di Cristo. La vostra esperienza di dolore e di speranza ci ricorda che siamo tutti stranieri e pellegrini su questa Terra, accolti da qualcuno con generosità e senza alcun merito. Chi come voi è fuggito dalla propria terra a causa dell’oppressione, della guerra, di una natura sfigurata dall’inquinamento e dalla desertificazione, o dell’ingiusta distribuzione delle risorse del pianeta, è un fratello con cui dividere il pane, la casa, la vita. Troppe volte non vi abbiamo accolto! Perdonate la chiusura e l’indifferenza delle nostre società che temono il cambiamento di vita e di mentalità che la vostra presenza richiede. Trattati come un peso, un problema, un costo, siete invece un dono. Siete la testimonianza di come il nostro Dio clemente e misericordioso sa trasformare il male e l’ingiustizia di cui soffrite in un bene per tutti. Perché ognuno di voi può essere un ponte che unisce popoli lontani, che rende possibile l’incontro tra culture e religioni diverse, una via per riscoprire la nostra comune umanità»1.
«…E mi avete accolto. Ero forestiero e mi avete accolto. Sì, il Centro Astalli è esempio concreto e quotidiano di questa accoglienza nata dalla visione profetica del padre Pedro Arrupe. È stato il suo canto del cigno. In un centro di rifugiati, in Asia. Grazie a voi tutti, donne e uomini, laici e religiosi, operatori e volontari, perché mostrate nei fatti che se si cammina insieme, la strada fa meno paura. Vi incoraggio a continuare. Trentacinque anni sono solo l’inizio di un percorso che si fa sempre più necessario, unica via per una convivenza riconciliata. Siate sempre testimoni della bellezza, della bellezza dell’incontro. Aiutate la nostra società ad ascoltare la voce dei rifugiati. Continuate a camminare con coraggio al loro fianco, accompagnateli e fatevi anche guidare da loro: i rifugiati conoscono le vie che portano alla pace perché conoscono l’odore acre della, guerra»2. 

NOTE
1 Videomessaggio del Santo Padre Francesco in occasione del 35° anniversario del Centro Astalli per i rifugiati, 19 aprile 2016.
Ibidem.